Non che Stella ci capisse molto, ma che in Bretagna ci tenessero a dire che tutto era farina del loro sacco, questo sì: anche senza la traduzione di Fabio, questo lo aveva capito già nei primi cinque minuti. Già mentre se ne stavano là, ad aspettare che si liberasse un tavolo. Uno dei tre tavoli che costituivano tutta la trattoria in cui erano finiti per caso facendo quella strada di destra che Stella mai avrebbe voluto imboccare: quella di sinistra voleva fare lei, e finire spedita direttamente a Brest, ma Fabio niente, non c’erano stati santi e adesso eccoli qui. E mentre aspettavano che si liberasse il tavolo, già la cameriera ci aveva tenuto, mentre gli metteva in mano i due bicchierini di Kyr, a dire che quello lo distillavano, loro in un modo rudimentale ma rigoroso… a Fabio l’aveva detto: subito aveva capito chi dei due doveva essere l’interlocutore. Ma Fabio manco si era sprecato a tradurlo, perché Stella era stanca assai e quella deviazione imprevista l’aveva messa di cattivo umore, e Fabio allora aveva capito che era meglio risparmiare il fiato per cose più serie:
“Amore” le aveva detto “dovevo avere quattro, o cinque anni al massimo, e per questa strada devo esserci già passato”.
Allora Stella l’aveva capito, che Fabio non stava veramente solo partendo per un viaggio di nozze, ma si era voluto fare un viaggio nella memoria, e questa cosa valeva. A due giorni dal matrimonio questa cosa valeva più di tutte le altre.
“Et voilà madame, ça c’est la terrine maison. Je vous reppelle seulement que tous le ingredients de la terrine sont de là, sont à nous: bref qu’ils viennent, diras-je, du terroir” (1)
– La cameriera ha fatto un comizio… ma che ha detto?
– Stellì, la solita storia che ‘sta terrina la fanno con i prodotti che nascono qua, che non comprano nulla. Pane nel forno, latte nella vacca, uova nella gallina, eccetera eccetera.
– Ha detto proprio “uova nella gallina” e “latte nella vacca”?
– Sì, vabbè, tipo: insomma il concetto è quello. Oh, guarda che sono trent’anni che non vengo qui, eh?
Qualcosa di francese l’avrò pure perso…
– Cavolo, ma è buona assai ‘sta terrina, e che ci sta dentro?
– Un patè.
– Cioè?
– Bevi un altro po’ di vino, è “locale”.
– Fabio, cosa c’è nel patè?
– Fegato d’oca.
– Non ti ho sentito, facciamo così, dammi un altro po’ di vino.
E quella sera, che era la prima sera, il vino se ne scendeva che era un piacere. La prima sera vera di matrimonio, Stella in mente sua l’aveva calcolata su per giù così: perché la prima sera vera e propria, dopo la cerimonia, era sconfinata direttamente nella notte. Tutti gli invitati a un certo punto erano spariti, e loro due si erano ritrovati catapultati già nell’alba del giorno seguente, con la testa che scoppiava e, come unica speranza, quella di far riposare i piedi. E dopo due ore appena di sonno chimico, indotto dall’alcol e dall’ansia che finalmente si era smorzata, già avevano dovuto lasciare la stanza, rotolarsi con vestiti e bagagli giù per la Costiera, prendere coraggio, salutare, organizzare.
Poi erano partiti. Bretagna. Questa era la loro prima vera sera di matrimonio, quella in cui sorridere e sopportare qualunque cosa, anche il patè e Fabio che imbroglia sulla traduzione.
Per fortuna il vino scendeva giù che era un piacere, e poi c’era la carne con i funghi, la foresta dell’Armorica, l’entroterra francese che a Fabio evocava un passato quasi sconosciuto, fatti lontani, forse non ricordati veramente ma ricostruiti, recuperati da una memoria comune, familiare…
– Raccontami ancora quello che ti ricordi – aveva detto Stella assaporando i funghi, che erano davvero speciali.
– Non lo so spiegare: la strada, la deviazione che abbiamo fatto mi ricorda qualcosa, le mura del castello, queste case a strisce come se fossero fasciate, eppure dovevo essere piccolo quando le ho viste, se le ho viste… ma questi funghi sono davvero speciali.
– Sì, ma mo’ non glielo dire a quella, che riattacca con la storia dei prodotti locali.
– A me sembra la cosa più buona che abbiamo mangiato finora.
– Sicuro, sono i funghi più saporiti, più carnosi che abbia mai mangiato, manco sul Terminio se ne trovano così.
– Manco a Montevergine, hanno un sapore di come di… come di… cloro.
– Non è cloro, Fabio.
– Ma non senti un sapore minerale?
– Sì, ma è azoto. Questo è il sapore dell’azoto, non è una cosa strana: i funghi crescono in una notte proprio perché sono in grado di assorbire immediatamente qualunque sostanza fresca, qualunque minerale presente nella terra: basta una pioggia, un poco d’acqua, e quelli pif!
– Spuntano come funghi.
– Eh.
– Et donc mesdames et messieurs, comment ça va? J’ose me souhaiter que vous avez bien aimè notre viande.
– Ouais, bien sûr. Mais je dois dire qu’on a sourtout apprecié les champignons. Nous on n’a jamais mangé rien de pareil. – Et bien, je dois dire, c’est une varietè tout a fait particuliere, et je dirai, et bien, unique. On l’a surnommè, et bien, McDonald’s.(2)
– Che ha detto?
– Che sono una qualità locale, che sono contro la globalizzazione e per sfregio li hanno chiamati “funghi mcdonald”.
– Ha detto così, per sfregio?
– Più o meno…
– Più o meno, più o meno, questi chissà che dicono, tu chissà che capisci e a me chissà che mi arriva…
Avevano trovato una stanza nella locanda della trattoria. Era una stanzetta tutta di legno, senza bagno in camera, ma era troppo tardi persino per Stella, e non c’era stata discussione.
La cameriera era la figlia della cuoca, e la nipote della proprietaria: tre generazioni di donne orgogliose tenevano in piedi questo posto al centro dell’Armorica. Uomini non ce n’erano, fatta eccezione per il fattore, che arrivava la mattina a dar da mangiare alle bestie: la vacca, le galline, i conigli e anche un maiale che era talmente vecchio che alla fine non l’avrebbero ucciso più. La proprietaria era stata contenta di dargli quella stanza, aveva detto che così la mattina dopo avrebbero potuto assaggiare la loro splendida colazione: le confetture della figlia, il burro mantecato dietro la casa, il caffè nero della nipote… poi si era imbarazzata parlando di caffè a degli italiani. Stella e Fabio avevano sorriso con un po’ di supponenza rievocando ciascuno per sé l’ultimo caffè bevuto da Pansa prima di partire, poi avevano preso le chiavi ed erano saliti in camera.
Stella era affascinata dal buio della campagna. L’aria dicembrina così fredda che le stelle parevano punte di ghiaccio, neppure si era tolta il cappotto e subito si era fiondata fuori.
– Ma tu – aveva urlato Fabio nascosto tra le coperte.
– Eh? – aveva risposto Stella dal balcone.
– Ma tu come lo sai che sapore c’ha l’azoto?
– L’ho assaggiato all’università.
– Ma veramente?
– E mica solo l’azoto… ho assaggiato un po’ di tutto.
– Ma… sei scema? E se morivi?
– E se morivo, morivo laureata: una volta a un esame dovevamo capire che sostanza avevamo davanti da come si comportava con i reagenti… io ero indecisa tra un cristallo borato e il cloruro di sodio… penso, penso, mancava poco alla consegna…
– E?
– E l’ho preso di nascosto e me lo sono messo in bocca. Era sale. Ho preso 30 e lode.
– Tu sei pazza.
– Senti.
– Eh?
– Ma tu lo sai quando non esistevano ancora le analisi i medici come facevano a diagnosticare il diabete?
– No, come?
– Assaggiavano le urine.
– Ma che schifo! Non è vero.
– È vero…
– Che schifo, non ci voglio nemmeno pensare. Vieni a dormire.
– Quello che voglio dire è che la conoscenza nasce dall’osservazione… fatta con tutti i sensi possibili. Toccare, odorare, guardare, assaggiare…
Concluse Stella tirando le tende e buttandosi sul piumone, nella prima vera sera del loro matrimonio. E si addormentarono così: Fabio pensando di avere vicino una donna bionica una specie di cyborg che nel buio si sarebbe illuminata dall’interno, accesa da chissà quale sostanza radioattiva che aveva mangiato all’università. E Stella si addormentò senza pensare a niente: sorrideva, e si sentiva come chi sta nel posto giusto della vita e non vorrebbe essere altrove.
La mattina dopo mangiarono di gusto la colazione bretone; come musica di sottofondo c’erano la figlia, la madre e la nonna che passavano e dicevano la loro sulla cucina locale. Quando Stella sentì di non poterne più e rimpianse i suoi risvegli meridionali, fatti solo di caffè e della dirimpettaia che si veniva a sedere in cucina per fare due chiacchiere, si allungò a fare una passeggiata.
Fabio invece restò nella cameretta a piano terra che serviva da hall, seduto su una panca di legno, per cercare di orientarsi su una mappa; ma era una carta vecchia, riparata con lo scotch, e le piegature non corrispondevano: una strada che cominciava In un rettangolo poi finiva all’improvviso, un’altra cambiava nome a metà, proprio come avevano fatto loro la sera prima, che avrebbero dovuto svoltare a sinistra, e invece erano andati a destra e – adesso per me sono guai – pensava Fabio – se non riesco a ritrovare la strada per Brest…, questa divorzia.
In quel momento però la sua concentrazione fu interrotta dall’arrivo di una macchina blu della Gendarmerie: un agente entrò nella hall e chiese della proprietaria.
– C’est moi – rispose sorridente la vecchia.
Intanto Stella passeggiava lungo i filari di viti da cui appena tre mesi prima erano stati colti quei grappoli di Bordeaux che avevano bevuto la sera prima, senza sentire manco un po’ di cerchio alla testa. Nei vasi di creta tutti intorno alla tenuta, c’erano enormi rami di ortensia che aspettavano la primavera per gonfiare le foglie, e poi un vialetto, che costeggiava la fattoria, e portava dritto dritto a un’enorme quercia secolare, con il tronco tutto coperto di muschio caldo, che lo riparava dalla brina e dal gelo.
Ai piedi della grande quercia Stella trovò i suoi funghi della cena: erano spuntati carnosi e turgidi su un letto di terra smossa da poco. Il suolo disegnava un rettangolo di zolle fresche, lungo un paio di metri, su cui, alimentati come per miracolo da qualche sostanza forte presente nella terra, erano spuntati i più bei funghi che Stella avesse mai visto. Si chinò sulle ginocchia e ne raccolse, uno lo portò al naso, poi ne spezzò una lamella e la assaggiò: forte, prepotente, senti il sapore dell’azoto. Infilò un dito nella terra molle e vide che era fertilissima, carica di humus… raccolse il suo trofeo e si avviò verso la locanda.
– Hommes? pas d’hommes, ici. Ah bah non, bien sur il y a celui là, c’est un italien. Il est arrivè hier. C’est la lune de miel, vous savez… eh! eh vous, ouais ouais, vous, l’italien! Est-ce que vous avez vu quelque’un, par là? Un homme, par hazard?(3)
– Fabio, ma che sta dicendo la signora, perché ti indica?
– Niente… dice che sono l’unico uomo qui… com’è andata la tua passeggiata?
– Bene… ho trovato i funghi, guarda…
– È bellissimo, è enorme.
– Senti, è enorme perché cresce in un posto assurdo, fertilissimo e pieno di azoto… non ti impressionare, ma secondo me l’hanno concimato da poco con qualcosa di animale.
– Tipo… letame? Ci siamo mangiati il letame?
– No, qualcosa di più prepotente, l’azoto si sviluppa in percentuale così grande solo dal… Fabio, oh, sto parlando con te…
– Scusa, sto cercando di capire che si dicono questi.
– E traduci pure a me.
– La polizia sta cercando un uomo che è scomparso, la ditta l’aveva mandato qui a fare dei sopralluoghi.
– Tu chissà che stai capendo.
– Ma non ti fidi proprio di me?
– Come no: la strada per tornare a Brest, per esempio, l’hai trovata?
– La sto cercando: mentre la signorina qua faceva la botanica, io…
– Signora, prego signora – disse Stella guardandosi la mano sinistra, allora Fabio le tolse il fungo da mano e la baciò.
– Un examen de cette auberge avant de décider si on veut la gérer(4)
– Che dicono?
– Che la ditta voleva fare un sopralluogo per rilevare questa locanda.
– Forse alla ditta piacevano i funghi.
– A proposito: che dicevi dell’azoto?
– Che la cosa in assoluto che possiede più azoto in natura è il…
– Excusez-moi, messieurs, n’avais-vous pas vu cet homme?(5)
Il poliziotto allungò una fotografia a Stella, lei si concentrò bene, ma quell’uomo non le diceva proprio niente, anzi, ricordò con certezza di non aver proprio visto uomini nella locanda, tranne il fattore.
– No – disse Stella, scuotendo la testa e passando la fotografia a Fabio.
– No, disse Fabio, et pour quelle maison travaillait-il?(6)
– La McDonald?s, de toute façon, merci!(7)
– Di niente – disse Fabio, e poi si accorse che Stella era più bianca del vestito che aveva al matrimonio. – Fabio che cosa ha detto?
– Che la McDonald’s voleva rilevare questa locanda… ma che cos’hai?
Stella aveva lasciato cadere il fungo sul pavimento e lo stava guardando con un’espressione assurda, balbettava una frase che non riusciva a concludere:
– L’azoto… l’azoto… sta nel corpo… umano…
- “Ecco qua signora, questa è la terrina della casa. Voglio ricordarvi solo che tutti gli ingredienti della terrina sono nostri, sono della nostra terra.”
- E allora signore e signori come va? Io oso sperare che vi sia piaciuta molto la nostra carne”
– Si, certo. Ma devo dire che sono stati apprezzati soprattutto i funghi. Non avevamo mai mangiato niente di simile”
– Bene, devo dire che è una varietà assolutamente particolare, direi anzi unica. È stata sopranominata, a ragione, McDonald’s. - – Uomini? Niente uomini qui! Vabbè no, certo c’è quello là, è un italiano, è arrivato ieri. Sono in luna di miele, sapete… Ehi voi, sì sì voi italiano! Avete visto qualcuno là? Un uomo per caso?
- Una valutazione di questa locanda prima di decidere se valga la pena di prenderla in gestione.
- – Scusatemi, signori, avete visto quest’uomo?
- – E per quale azienda lavora?
- – La McDonald, comunque grazie!
Fine.