La raccolta Penombre di Emilio Praga si apre con un Preludio celebre, ma di cui non sono forse stati del tutto còlti, finora, il profondo sostrato filosofico e la portata largamente anticipatrice, quasi profetica.
«Noi siamo i figli dei padri ammalati»: vi è, qui, già quell’idea di malattia, di decadenza, di deriva, di perdita di valori, e insieme di sorda, velleitaria, disperata eppure assurdamente entusiastica, rivolta ed ansia di palingenesi (quell’idea, insomma, di «scapigliatura», in un senso venato di dandysmo, bohème, e insieme di irrequiete ma vaghe velleità anarcoidi e socialisteggianti), che nella sostanza riaffiorerà, pur se in forme quanto mai variate e diversamente meditate e profonde, in molti autori fondamentali della modernità, dai Crepuscolari a Rilke, da Svevo a Mann – ma si pensi già al convalescente di Baudelaire, che «voit tout en nouveauté», guarda il mondo in una luce traslucida di aurora ritrovata, di ricomposto stupore, in virtù di una debolezza che è forza, di una marginalità e di un disagio che si fanno spazio d’infrazione e di libertà.
La nuova generazione (sociale e storica non meno che intellettuale) si trova a vegliare «l’agonia di un nume». Si sente già, in questi versi, quel fetore di «divina putrefazione» che sarà avvertito, con un senso di ribellione e insieme d’angoscia, d’iconoclastia e di tremore, da Nietzsche – così come aleggiava, prima di lui, nel Discorso del Cristo morto di Richter. «Cristo è rimorto», anziché risorto (già Mallarmé, del resto, in versi che Praga poté forse leggere sul Parnasse contemporain, aveva gridato: «Le Ciel est mort»).
Accanto alle «ebbrezze dei bagni d’azzurro», Praga canta «l’ideale che annega nel fango». Certo, già la poesia di Baudelaire era attraversata da quell’antitesi, da quella dicotomia, da quella quasi platonica psicomachia fra cielo e terra, levità e materia, spirito e carne, che ispirarono, fra l’altro, un testo celebre come Dualismo di Boito; ma, nella tradizione di una modernità letteraria italiana ancora agli albori, quella lirica ivresse, quei visivi, incorporei lavacri celesti, quel fangoso naufragio nella degradazione, con la loro audace e vigile condensazione espressiva, recano certo una nota nuova, già quasi novecentesca.
Contini sottolineava la limitatezza delle innovazioni stilistiche degli Scapigliati, che avrebbero messo il vino nuovo negli otri vecchi, e non sarebbero mai usciti da una sostanziale angustia provinciale (questo sebbene egli stesso, introducendo i narratori della Scapigliatura piemontese, riconoscesse loro il merito di certe «ricerche della verità attraverso la rottura dell’ordine»).
Eppure, anche in Praga si trova quella varietà metrica che, nel Boito poeta e librettista, aderiva al divenire, al fluire e al mutare del discorso musicale, con le sue sinuose modulazioni, le sue frementi vibrazioni ritmiche e cromatiche, la sua mutevolezza magmatica e demonica. E un discorso non diverso varrà, entro certi limiti, per il Praga narratore delle incompiute Memorie del presbiterio (identiche nel titolo e nell’ambientazione ad una poesia di Penombre) che facendo episodicamente, senza un disegno organico, convergere nella sua narrazione «rare impressioni» e frammentarie «sensazioni», sembra in certo modo già prefigurare certe destrutturazioni novecentesche del tessuto narrativo.
La Scapigliatura (teorizzando ed attuando, dal Rovani di Cent’anni al Dossi degli Amori, una sinergia e un intreccio fra i linguaggi artistici che anticipano, pur se con un minor grado di consapevolezza teorica e di portata innovatrice, l’audition colorée e l’orchestration verbale dei simbolisti, se non addirittura il «girotondo delle arti» dell’avanguardia primonovecentesca: ancora illuminante, al riguardo, il volume di Giovanna Scarsi del 1979, Scapigliatura e Novecento) contribuì, con Praga, Boito, Camerana (già quasi, per certi aspetti, un «lirico puro» ante litteram, melodioso e incorporeo), il troppo dimenticato Pinchetti (aulico e tragico maudit), se non proprio ad infrangere o a trasfigurare totalmente, almeno ad alterare dall’interno, insidiandone e sollecitandone partizioni e confini, le strutture del discorso letterario – allo stesso modo che, nel campo delle arti plastiche e figurative, un Grandi, un Cremona, un Medardo Rosso operarono – come osservava Piero Nardi in una bella pagina, tornando sul suo importante, e all’epoca innovativo, studio sul movimento del 1914 – una sorta di rarefazione, di alleggerimento, fin quasi alle soglie della dissoluzione, dell’evanescenza, della transustanziazione in un vibrio cromatico e materico, o dell’annullamento nell’assoluta, aperta virtualità del non finito (Nardi parlava appunto di un «lievitare della forma verso un’espressione plastica», di una «mobilità carica di ritmo» sostituitasi alla «staticità hayeziana», di «fantasmi nati nell’aria dallo sviluppo di un’idea musicale»).
Come osservava Luigi Perelli nel 1873 sulle «Tre Arti», una delle riviste del movimento, la Pittura poteva, con gli Scapigliati, specie a contatto del Silenzio, dell’Attesa, della sospensione irrisolta, dell’«attrazione amorosa che non si risolve», «giungere ai suoi ultimi fini, di là dei quali regna la Musica». Da un lato, si trattava di idee già presenti nell’estetica romantica, e in particolare in Wackenroder; ma, dall’altro lato, siamo ormai, anche cronologicamente, ad un soffio dalle riflessioni di Walter Pater sulle arti che tutte aspirano, in ciò unite da una comune tensione, «towards the condition of music», dai lucidi rapimenti di Rimbaud intento a «écrire des silences» e a «noter l’inexprimable», o dall’ascesi appassionata e sofferta di Mallarmé con la sua Sainte «musicienne du silence».
La Parola tende alla Musica, e quest’ultima alla perfezione incolmabile, alla compiutezza ineguagliabile, del Silenzio e del Vuoto. Paradossalmente, attraverso la purificazione e la sublimazione dell’armonia, del ritmo, della musica, parola forma segno simbolo tendono all’esito ultimo del silenzio, che solo può esprimere, e riverberare, l’ineffabile. La musicalità della parola poetica – musicalità che si realizza, si attua nella silenziosa ed interiore esecuzione della lettura, «concerto muto» – è tutta mentale e spirituale – «cosa mentale», come la pittura per Leonardo.
Fra parola e silenzio, come fra immagine e parola – tra «pittura parlata» e «poesia muta», per citare ancora Leonardo -, si muove anche il verso di Praga.
Dall’amato Hugo – in particolare quello delle Contemplations – Praga sapeva che la Parola-Natura, il Verbo-Mondo parlano nel silenzio, o almeno nell’informe, nell’inarticolato, in quella che sarà la pascoliana «lingua che non più non si sa».
«Poiché il silenzio è un angelo / E un sacerdote anch’esso, / E contemplar le tenebre / È contemplar se stesso; / Né son parole inutili / I sibili e i susurri / che van pei campi azzurri».
La voce della Natura si avverte, affiora, al livello dei fenomeni e prende corpo come realtà fonosemantica, nel momento in cui tace la parola articolata del linguaggio verbale. In tal senso, il silenzio è un silenzio musicale. La stessa parola poetica, nella sua materialità segnica e nella sua consistenza sonora, è, fonosimbolicamente, soffio sottile ad un nonnulla dal silenzio. Il «sibilo» e il «sussurro», di per sé evocativi, non sono diversi dal «suavis susurrus», dal «tenuis susurrus» di Virgilio. Quella che sarà la rivisitazione simbolista dell’immaginario bucolico (dal Mallarmé dell’Après-midi al Debussy di Syrinx, da Pascoli al D’Annunzio di Alcyone) è già, qui, compiutamente prefigurata – non avendo, ormai, la sonorizzazione verbale e vibratile del paesaggio, della hyle, della Natura-Materia, più quei vasti presupposti cosmologici e metafisici che aveva in Hugo. Questo è forse l’autentico, tutt’altro che superficiale, ornamentale, esteriormente arcadico, volto di quella vena idillica in cui una illustre tradizione critica, da Carducci a Croce, vedeva la nota di maggiore originalità dell’autore.
L’immagine del Silenzio-Sacerdote si ritroverà in alcuni famosi versi della Desolazione di Corazzini («E i sacerdoti del silenzio sono i romori, / poi che senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio») – analogamente, da alcuni versi di Rivolta, in cui il poeta abdica alla propria funzione sociale e conoscitiva, Gozzano derivò il sentimento, fondamentale e caratteristico di tanta parte della modernità, della «vergogna d’essere un poeta». I due aspetti, a ben vedere – amara autocoscienza e doloroso ripiegamento da un lato, prevalenza espressiva del silenzio sulla parola, dell’inespresso sul discorsivo, dall’altro – sono sottilmente, ma essenzialmente, interrelati, già nella Scapigliatura come, poi, lungo la linea che da essa in certo modo trae origine.
Scapigliatura, si è detto, come pre-avanguardia, o proto-avanguardia, come progetto, non ancora compiutamente realizzato, d’innovazione. Ma non si deve credere che la modernità sia, per Praga, come sarà per le avanguardie, un valore assoluto, un imperativo fondamentale., a cui sacrificare ogni valore, e in nome del quale azzerare e consumare ogni archetipo.
Al contrario, la Prolusione alle lezioni del conservatorio pronunciata nel 1865 (e opportunamente ripubblicata, con ampia contestualizzazione, da Carolina Nutini in «Rassegna della Letteratura Italiana», IX, 2010, n. 1) sembra tracciare, quasi in uno spirito che anticipa il Pascoli saggista, una sorta di canone assoluto, metatemporale, inviolabile delle grandi sorgenti, delle grandi luci che alimentano, lungo il corso dei secoli, ma anche al di sopra di esso, la bellezza e la sapienza, dagli archetipi biblici per giungere, attraverso la tradizione indiana, i culti misterici, la tragedia greca, fino ad Hugo, grande cantore della storia ideale eterna.
«E l’Adamo pregò: il primo poeta doveva essere il primo sacerdote». Vi è già, qui, pur se sulla base di una chiara ascendenza vichiana, l’idea pascoliana del poeta come figura fondatrice, mitopoietica, come «Adamo che mette i nomi», che accende l’Aurora del Verbo, la fiamma della Parola – o, addirittura, un’anticipazione della teoria, poi enunciata dal Bremond, della poesia come anelito del pensiero e della parola «verso la condizione della preghiera», verso un’apertura all’essere e alla trascendenza (il che può spiegare, in relazione alle dinamiche interne del discorso letterario, il fatto che nel corso degli anni Praga, distaccatosi dal satanismo torbido e decadente di Preludio – un satanismo lontano, dunque, sia da quello prometeico, razionalista, progressista, giacobino di Carducci sia da quello contrito, dolente, tormentato, in fondo paradossalmente cattolico, di Baudelaire – renda via via la propria vena più limpida, casta, vicina allo spirito cristiano, fino addirittura ad elogiare l’esempio, prima dissacrato, di Manzoni – scriveva Borgese, in Tempo di edificare, libro di alta tensione etica, che in Praga «sotto una superficie torbida l’acqua è limpida, manzoniana»).
«La creazione, l’Iside austera, ha parlato; (…) l’attonita umanità è pullulata un’altra volta dal fango», e ha abbracciato ora la pace del nirvana, ora l’entusiasmo dionisiaco, raggiungendo però, per entrambe le vie, l’immedesimazione panica con la vita del tutto.
Così in Hugo, dalle Contemplations alla Légende des siècles: l’«hymne d’enfer … s’achève en chant divin»; il poeta-uomo, benché «passant obscur», è nondimeno «atome de l’azur», e può perciò rispecchiare in sé, nella propria luce interiore, la luce più vasta che rischiara e anima un’epoca, ed assaporare, con dionisiaco entusiasmo, quel vino di cui «tous les songeurs sont ivres». Così si spiega, in Praga, il ricorrere del motivo – del resto anche carducciano – dell’ebbrezza, la quale può prendere la forma del rapimento estatico così come quella, non priva di echi della poesia goliardica, dell’eccesso grottesco, del caos festoso, fino quasi al puro annientamento del senso e alla sovversione di ogni logica.
«E io contemplo e scrivo e suggo il buono / Santo licor che il mio pensiero inolia. (…) / È rima, è strofa qui tutto che giunga». Già Hugo, in versi ben presenti a Pascoli, aveva ammonito che «le mot est un être vivant», che «le mot, c’est le Verbe, et le Verbe, c’est Dieu», e che «au fonds de la nature, c’est l’art». Di lì a poco, Mallarmé si spingerà fino a dire che «tout au mond existe pour aboutir à un livre», che la realtà esiste in virtù e in funzione del risolversi in espressione, in Verbo, in Libro.
Per inciso, la citata Prolusione dimostra, come si è accennato, l’interesse di Praga per le dottrine indiane (interesse in cui egli fu in certo modo omologo o precursore di tutta una linea della cultura italiana ed europea, che sulla scia di Schopenhauer riscoprì quella dimenticata, arcana e panica e iniziatica, sapienza orientale, dal Carducci dell’Inno all’Aurora – in cui il radioso lume dei testi indiani trapassa infine nell’alba torbida ed opaca che si leva sulle metropoli industriali, con le loro masse oppresse e i loro immensi e brulicanti blocchi di cemento – all’Hofmannsthal della Lettera di Lord Chandos, dal D’Annunzio del Piacere al Pascoli lettore delle traduzioni dal sanscrito di Kerbaker).E anche in quelle dottrine Praga doveva cogliere soprattutto il valore della Parola che aduna, raccoglie, fonde, sublima gli aspetti molteplici, difformi, spesso opachi del mondo («Ti interrogo sul limite estremo della terra; / (…) Ti interrogo sull’alto cielo dove dimora la Parola»; «Possano le Acque purificare la Terra, / possa questa Terra così purificata purificarmi! / (…) E questo male dentro di me io offro in sacrificio, / insieme con me stesso, nel grembo dell’Immortale, / nella Verità, nella Luce», si legge nei Veda); o, forse, certi simboli ricorrenti ed altamente significativi, innalzati quasi a miti, come quello del loto, che, emblema e fonte di purezza, ascesi, distacco dal mondo, vibra, raggiando purissima luce, sospeso su quel fango da cui pure è nato, e che appena sfiora («il tuo cielo, e il tuo loto», si legge ancora in Preludio – anche se in quel caso il loto è, con aulico slittamento semantico, il fango).
Tornando ad Hugo, a Praga interessa soprattutto, com’è ovvio, l’Hugo lirico, musico, visionario – quel lirismo che Hugo stesso (secondo un giudizio di Baudelaire riportato da Praga in un articolo del 1871 sulla pura poeticità visiva e decorativa di certa pittura) si era dovuto quasi far perdonare seppellendolo sotto il peso retorico dell’impegno etico e civile.
Nello stesso spirito, nella stessa ottica lirica e visionaria, modello importante è anche Goethe, che nel Faust offre a Praga immagini potenti e angosciose: lo «Spirito che sempre nega» (1338); il connubio fra Natura e Spirito che genera, nel suo interno confliggere, il «mostro ermafrodito» del Dubbio (4902); il Vuoto, «das Leere», come sola, vertiginosa salvezza dalla contraddizione (6232); infine, il Tutto cercato nel Nulla e nell’Abisso (6246).
«E innanzi a un muro orribile / Torvo piantossi e altiero / Il dubbio, in manto nero. // Paziente come un monaco, / Furbo come una strega, / Discute, afferma, nega». Vi è già, qui, forse, un’anticipazione di quello che sarà il muro di Montale, simbolo dostoevskijano di una ragione scientifica rigida e deterministica, che sembraaver privato la natura e l’uomo di ogni spazio e margine di libertà.
Il lirismo terso, specchiante, la pura musicalità cromatica – quasi ad un passo dalla poésie pure – di certi scorci di Fiabe e leggende («Trasparenze glauche ed umide, / D’ombre tremule rabeschi, / Toni freschi – e toni d’or») rappresenteranno, forse, una sorta di compensazione, di contraltare, una fase di distensione e di respiro, rispetto a quel tarlo concettuale, a quel morso e a quella lacerazione intellettuali e morali (quasi come il montaliano «tendere alla chiarità» insito nelle «cose oscure»). Come si legge ancora in Goethe, noi, infine, non vediamo, del mondo, altro che il riflesso iridato, limpidissimo ma inafferrabile.
Proprio questo demone della lacerazione e del dissidio divide in modo stridentel’interiorità dall’espressione,il senso dalla forma, e scava così uno spazio, un interstizio in cui si aderge (come in Wilde, in Nietzsche, in Pirandello) lo schermo rigido e sogghignante della maschera. «Uom, tu che nasci in maschera, / E mascherato muori, / Osi insultar, se incognito / È anch’esso il Dio che adori?».
Come Dio, deus absconditus, è ignoto agli uomini, celato dal velo della trascendenza, così l’uomo è ignoto a se stesso e ai propri simili. Siamo ormai ad un passo dall’incomunicabilità, dall’intangibilità dell’Altro, tipiche della visione novecentesca.
Proprio per questo la «pallida giostra / Di poeti suicidi» in cui Praga è preso, e infine travolto, la «bestemmia / sublime e strana» che egli scaglia contro un Dio assente (per citare un testo di Boito, A Giovanni Camerana) – malgrado lo stile ancora incerto, ancora diviso fra un crudo realismo e gli echi della retorica classicista (tanto che si potrebbe, in parte, già riconoscere a lui quella capacità, che Montale attribuirà a Gozzano in una pagina celebre, di ottenere scintille facendo cozzare l’aulico col prosaico), malgrado il vuotorisonante e deformante che si insinua e circola e pullula, con cieca e disperata vitalità, nella ferita e nell’intercapedine tra il pensiero e l’espressione, fra l’intento e la realizzazione espressiva, o forse proprio dall’interno, dal cuore scavato e dalla virtualità musicale, di quel vuoto – possono ancora trasparire e risuonare al senso, pur così spesso distratto o ottenebrato, del lettore contemporaneo.
Matteo Veronesi