Di Abigail Ardelle Zammit (dottorato a Lancaster; autrice delle raccolte Voices from the land of trees, del 2007, pervasa dalle remote reminiscenze e dai moderni, postcoloniali e strozzati aneliti di libertà dell’America Latina, e Portrait of a woman with sea urchin, 2015, grande affresco dell’identità storica dell’isola natale dalle più lontane origini ai traumi novecenteschi – più o meno come Saint Lucia per Walcott –, e dell’imminente Leaves borrowed from human flesh – libri che ne fanno con tutta probabilità la più significativa e riconoscibile, e già internazionalmente riconosciuta, voce anglofona della nuova poesia maltese) pubblichiamo per gentile concessione alcuni testi.

Malta incarna l’alba (quasi immortalata nella permanenza della pietra megalitica e plasmata dalla luce del Mediterraneo) della civiltà europea, le cui risonanze si rincorrono attraverso i secoli fra paganesimo fenicio e greco-romano e cristianesimo, dagli ombrosi dedali paleocristiani fino ad un Caravaggio fuggitivo e cruento, in un così breve cerchio di spazi geografici che si dilatano però nella temporalità della memoria incarnata nella molteplicità delle testimonianze.

Ma, come in Heaney, di cui l’autrice è studiosa, e che sembra essere, per un’intera generazione di autori anglofoni, il nuovo grande maestro, il nuovo grande Nume da far proprio, fagocitare, e magari superare e ritualmente uccidere, ogni tentazione lirica ed erudita di poeta doctus è innervata, e quasi corretta e controbilanciata, da una lucida e vigile vena narrativa, prosastica, a volte ironica e realistica fino al limite della dissacrazione.

Non si può, di fronte alle evocazioni, e all’implicito parallelismo, di Isthar nella sua catàbasi infera e della Magna Mater (della mediterranea Potnia theron, della grande Regina della Nascita e del Vivente, forse prefigurata dalle Veneri preistoriche), non fare il nome di Marija Gimbutas – non senza un richiamo alla visione contemporanea che riattualizza il mito facendo dell’enigmatica e numinosa labrys l’emblema sempre vivo e rinnovato del Femminile e della sua incoercibile e sempre rinominata e difesa libertà.

A contrasto, gli scheletrici relitti della guerra, avvolti dalla serpeggiante vitalità della natura, che ancora trapelano e riaffiorano dall’ombra delle acque quasi come da un’ungarettiana “allegria di naufragi”, richiamano un passato lontano e rimosso, forse mai del tutto esorcizzato, con cui la parola poetica continua a misurarsi senza perdere il suo arcano vigore di mythos.

Rivivono del resto, in questo conflitto fra l’intemporale lontananza dei valori primordiali e le fratture ardenti e sanguinose del divenire storico, echi lontanissimi: Melite Grande Dea, divinità femminile delle acque; Malta, in Omero, ereme nesos, splendida nella sua solitudine, non assediata che da cielo e mare; e infine, in Nevio, violata dalla furia conquistatrice, mascherata da virtus, dei Romani – «Transit Melitam / Romanus exercitus, insulam integram urit, / populatur, vastat»: corpo dell’Isola-Dea letteralmente lacerato profanato violato, torturato ed arso come quello di una Divinità condannata, in un poema, il Bellum Poenicum, esso stesso dilaniato e frammentato dagli arbìtri del tempo.
«E bussiamo sulla porta del cielo affinché ci arrivi / La notizia che, finito il viaggio, troviamo / Un sorriso che ci accoglie. Entra / Nel porto il desiderio e lì si àncora in calma». Così scriveva (nel suo italiano davvero insultare, remoto, limpidissimo eppure quasi estraniato dalla storicità del fatto linguistico, e secondo l’effigiata simbologia marina di un epos mediterraneo) Oliver Friggieri, forse il massimo poeta maltese del secondo Novecento.

A questa placida, metastorica compostezza aperta agli spiragli, per quanto sottili e perplessi, di una possibile alterità, si oppone idealmente, per così dire, nel fermento di un inglese postcoloniale e postmoderno, questa poesia che rivisita e curva, vivificandoli, ossia tradendoli e riconsacrandoli ad un tempo, gli archetipi incisi in un’identità perturbata e declinante. Come declinano, e tramontano solo per risorgere, del pari, la Luna, la Dea, il Mito.

Di fronte al sincretismo pagano-cristiano, sospeso fra preistoria e storia in una sorta di vichiano continuum, che associa la Venere-Isthar alla biblica Ester, e confonde morte e vita, discesa nel buio degli ipogei e aurora di una nuova nascita (il tutto inciso nelle spirali, nei meandri e nei protosimboli dell’arte preistorica), il lettore italiano può pensare ad un prezioso illuminante libretto, L’arte dell’uomo primordiale di Emilio Villa: una risalita alle origine prime, dolorose e sacrificali, incise nella pietra della carne e nella carne della pietra, manifestazioni della scrittura come segno vitale e necessario che sfida il divenire e l’evanescenza. L’aridità geometrica e algida della pietra e il sangue pulsante e radiante dell’ocra rossa, che è fuoco e respiro, si fondono nel gesto creativo originario e fondante.

«Il senso del mondo affollato di frammenti eidetici, la mente dell’uomo gremita di archetipi vocali e di corpuscoli segretissimi, e percossa da vibrazioni e da pulsazioni germinanti». Vigile Madre e Musa di questa origine è una Magna Mater che può anche assumere la maschera di Mater Terribilis, Alfa ed Omega, matrice e distruzione (non a caso, le Veneri preistoriche convivono in questi versi con gli assurdi sacrifici, ormai del tutto secolari e spietatamente moderni civili tecnologici – benché infine anch’essi avvolti e sopraffatti dalla natura e dal mare – del Secondo Conflitto): «il Volto Oscurato» – ancora Villa – «che reca la luna, che è morte»; «la luna come immagine chtonia, funeraria, infera».

La parola poetica, proprio misurandosi e scandendosi sulle linee arcane delle forme preistoriche, risale fino al suo archetipico, prerazionale Logos. E ridiventa stridio di faticosa incisione – sillabazione strappata con maieutica tensione al silenzio primevo – sacrificio compiuto ed impresso sul corpo stesso, sulla pietra-carne, di una Donna e Dea che è, in definitiva, proposopopea della stessa Lingua.

(Matteo Veronesi, https://sites.google.com/site/criticaepoesia)

The Goddess in Transit

If thou openest not the gate to let me enter…

The Descent of Ishtar

Ishtar is dead. Sheds phosphorus.
Hysterical bursts. Prone to disease,
the straddled valve, the mild arrhythmia
which makes her female, syn-
copated, copious and corpulent,
stirring life after life. Christ,
to be born of such passing!
Ishtar is dead. Her ashen light
a vision from Hades, the doors
creaking open, the temple cavernous:
smashed door-posts and floating galaxies.
She is dying or dreaming, breasts
in disequilibrium, her dainty feet,
talons clutching the purple

Il Trapasso della Dea

Se tu non apri il cancello per farmi entrare…

La Discesa di Ishtar

Ishtar è morta. Sparge fosforo.
Scoppi isterici. Salute declinante,
valvola dilatata, aritmia lieve
che la rende femminile, sin-
copata, copiosa e corpulenta,
vita su vita rimestando. Cristo,
nascere da un simile passaggio!
Ishtar è morta.
La sua cinerea luce una visione infera,
le porte stridenti nell’aprirsi, il tempio cavernoso
stipiti infranti, fluttuanti galassie.
Sta morendo o sognando,
scomposti i seni, la grazia dei suoi passi,
artigli appesi al rosa del crepuscolo.

From Boathouse, Gnejna Bay

I swim in yellow hexagons of light,
not the green deeps where seaweed
lifts its head above the water, testing
the air.
On Sundays he takes me further,
always swimming towards the plane,
a wreck from WWII. He points, willing me
to glimpse its shadow underwater –

Did I see the broken wing,
the grey frame from a tattered back,
or was it the algae – too real
in their clumps of green –
the war plane tangled in their strands –
speckled yellow thick with growth,
sprouting out of the cockpit – right there,
perhaps, where the pilot would have
foundered?
Even now, the boathouse sighs,
shedding limestone dust, its door heavy
with cracked layers of paint, all the colours
it has been, and more – muftieh- rusty key,
not securing it against the waves.
Not yet unravelled, my memory
of the plane’s skeleton – so much
one prefers not to see – the body breaking,
breaking
away, those blood-orange anemones
he ripped from the rock to show me
their mushy hearts –
This year, he says, they hauled
its tail, the rest too broken to be raised.
We’ll swim to it again –
of flight –
both fearless now, seaweed spidering
our thighs, glimpses of something battered, half-
memory, perhaps, some clearer sign

Da La baracca di Gnejna Bay

Nuoto in aurei esagoni di luce,
non nei verdi abissi ove le alghe
levano il capo dalle acque
come a saggiare l’aria.
La domenica mi porta più lontano,
sempre nuotando alla volta dell’aereo,
un relitto della Seconda Guerra.
Mi addita, sott’acqua, la sua ombra.

– Ho visto l’ala spezzata, la grigia arcata
di uno slabbrato dorso –
o erano le alghe troppo vive
nei loro verdi cespi
il caccia impigliato nei loro fili – punteggiato
di giallo, denso di rigoglio, affiorante
dalla cabina – proprio lì, forse,
dove il pilota sarebbe affondato?
Ancora oggi, la baracca sospira,
grondante di calcare,
la greve porta dalla vernice scrostata
e tutti i colori che è stata, e la chiave arrugginita
non più scudo alle onde.
Non ancora svelato, il mio ricordo
di quell’aereo ischeletrito –
tanto che si preferisce non vedere –
il corpo che si frange e si disperde,
quegli anemoni sanguigni che svelse dalla roccia
per mostrarmi i loro teneri cuori
– Quest’anno, dice, hanno trainato la sua coda,
il resto ormai perduto.
Là nuoteremo ancora, come volando, insieme
senza paura ora, germinanti
alghe le nostre gambe, barlumi
di un relitto, di un ricordo opaco –
o forse
qualche segno più chiaro.

Egret

the egrets stalk through the rain
as if nothing mortal can affect them…

Derek Walcott, White Egrets

Already the white egrets have come to be this,
word made into a mound of earth
where the body fits into a breath, a syllable
rising into the sky as soon as it is uttered,
flowering into this bird
perched on the arm of a tree –
this lone bird whose beak reminds
you of the dying of a friend, detachment
from root and soil, the weight of a feather
borne to the height of metaphor.

Airone

si insinuano gli aironi nella pioggia
come se nulla di mortale li toccasse…

Derek Walcott, Aironi Bianchi

Già gli aironi bianchi questo sono diventati,
parola trasformata in un tumulo
dove il corpo entra in un respiro, in una sillaba
che si alza al cielo appena pronunciata,
fiorendo in questo uccello
posato su di un ramo –
questo uccello solitario il cui becco rammenta
la morte di un amico, il distacco
dalla radice e dal suolo, il peso
di una piuma levata alla cima
di una metafora.

Frigate Birds, Mating

I

Not passion, whose patience
is tattered feather.

Not sky, provident with split selves
in female form.

Frigate bird perched on volcanic rock,
is rock, is volcano, is rest from motion.

This waiting below the throat
is gurgling lava from the first island.

Neither lust nor pain
holds its red core.

II

Yesterday the island was brilliant canvas.
Today it shrinks into backdrop.

Suspended from the topmost sail,
frigate birds are strings of crow-black.

The ship strips itself of dropping sun
heading towards the mainland.

What is left of our coming
but an exit into our ordinary selves.

We remember what we have been.

Fregate in amore

I

Non la passione, la cui pazienza è piuma logora.

Non il cielo prodigo dei propri
lacerti in forma di femmina.

La fregata immobile sulla roccia vulcanica
è roccia, vulcano, acquietato moto.

Questa attesa sotto la gola
è lava gorgogliante dalla prima isola.

Né desiderio né dolore trattiene
l’ardente suo cuore.

II

Ieri l’isola aveva luce dipinta.
Oggi in esiguo sfondo si contrae.

Sospese alla vela più alta
corvine striature sono le fregate.

La nave si scioglie dal sole calante
vòlta alla terra.

Della nostra venuta altro non resta
che un ritorno al nostro sé di ogni giorno.

Ricordiamo ciò che siamo stati.

 

Catechism: School Visit

Our body is a temple. We imagine
limestone slivered and sculptured
till it is lintel and doorway,
the Holy Spirit housed inside us
with its tongues, its manes of fire.
All is in order: confession,
communion, the erasure of the flesh
to make room for God, the Host’s
decent into our ribcage, fathomless.

So we conjure Her, the goddess,
here in Her temple – pagan, ancient –
down the slippery steps,
the dank pull of the underground
chambers: virgins brought to the altar
in exchange for rain, plenitude – tales
we believe in despite the evidence.

That is all we know of bartering,
like Esther pregnant at fifteen, the price
of pleasure, that sudden halt in the stairway
the guide warns us about. We imagine
marauders falling, then Esther, the pull
of the pit, catching the goddess asleep,
her spiralling ceiling drawing them inwards
as surely as it keeps us wondering.

We can half-see the Holy of Holies
there where She frolics, Her hips
moulded – shapes, stillnesses – Her sighs
of emerald moss. Each Sunday we think
of the Spirit. Each Sunday we spot
the violet robes of priestesses, fuming
incense, the painted ochre which lures us
as we pass into our perfect forms.

Lezione di catechismo

Il nostro corpo è un tempio. Immaginiamo
calcare scheggiato e scolpito
fino a diventare architrave e porta,
lo Spirito Santo dimorante in noi
con le sue lingue, le sue criniere di fuoco.

Tutto è in ordine: confessione, comunione,
la dissoluzione della carne per fare spazio a Dio,
la discesa dell’Ostia nel nostro petto, insondabile.

Così evochiamo la dea qui nel Suo tempio
– pagano, antico – lungo
le viscide scalee, l’umida ascesa
degli ipogei: vergini
condotte all’altare come pegno
di pioggia e sazietà – racconti
a cui crediamo contro ogni evidenza.

Del baratto non sappiamo altro,
come Ester incinta a quindici anni,
il prezzo del piacere, quella brusca sosta
che la guida ci annuncia. Immaginiamo
i predoni cadere, poi Ester, la trappola
della fossa, il ratto
della dea addormentata, il suo soffitto a spirale
che li rapisce con la stessa certezza
con cui lascia noi nello stupore.

Possiamo intravedere la cella del sacrario
là dove Lei gioca, i suoi fianchi torniti
– forme, quiete – i suoi sospiri
di muschioso smeraldo. Ogni domenica
pensiamo allo Spirito. Ogni domenica vediamo
le vesti viola delle sacerdotesse, il fumo
dell’incenso, l’ocra dipinta che ci rapisce
mentre passiamo nelle nostre forme perfette.

Figurine: Fat Lady

My body’s cushioned inside
the fat woman’s. I am heavy
with sleep with the thick purple
of dreams where the goddess
skims wheat with her left hand
and with the other fondles dark teats.

I’ve spotted her in pitted chambers,
her shapely corpulence, shaping spirals.
We’d be as comfortable in orange peel
as we are now lying in stone,
toes engaged in ecstasy. When men
toy with us, we smile in our sleep.

Piccola Venere

Abbandonato nella tenerezza il mio corpo
è dentro la donna formosa. Sono greve
di sonno con la densa nuvola viola dei sogni
dove la dea con una mano sfiora il grano e con l’altra
carezza oscure mammelle.

L’ho scorta in stanze infossate,
il suo corpo scolpito, solcato da spirali.
Staremmo bene in una buccia d’arancia
come ora distese sulla pietra, con le dita
perse nell’estasi. Quando gli uomini
giocano con noi sorridiamo nel sonno.

The Maltese Venus Makes a Wish

When he enters I’m needled with jealousy,
the chamber envelops his footfall, each megalith
receives his mortality, his lips burnt in ochre,
his earlobes dew-licked, duly kissed by women
in black tresses, waists like the neck of an urn.

What belongs to me? This vigil strewn with mortals,
their toes the weight of a blade of grass. This wanting,
which is always a waiting. And still to couch, sleep-
stupored, craving transience, the curse of aging.
Oh! To be a falling fractured fragment of this man,
his brief footfall, the post-coital sadness of past equinoxes,
the quickening breath of knowing, of never knowing.

Il voto della Venere di Malta

Quando lui entra, la gelosia mi tormenta,
la stanza avvolge il suo passo, ogni megalite
riceve la sua mortalità, le sue labbra arse dall’ocra,
i suoi lobi bagnati
di rugiada, devotamente baciati
da donne che hanno nere trecce e fianchi esili
come colli di urne.

Che cosa mi appartiene? Questa veglia
disseminata di mortali, le loro dita il peso
di un filo d’erba. Questo desiderio
che è sempre attesa. E ancora
distendermi sopraffatta dal sopore –
bramando la transitorietà, la dannazione
della senescenza. Poter essere un frammento
di quest’uomo, il suo breve passo, la malinconia dopo l’amore
di passati equinozi, il respiro spezzato
dalla coscienza del sapere e del non mai sapere.

Sleeping Goddess, Jilted

I wish you many lovers, the dedicated sort,
rising at daybreak to fracture firewood, carving
clay-pots to feed you oyster flesh, listening
for moon-shifts to fissure like sea-anemones.
Say your breath’s bubble water will leave them
heavier, your sperm will star-shoot splayed eggs,
your seed populate the remotest kingdoms.

Say you erect the lustiest temple, forms
spiralling from your fists, your femurs crumbling
from crouching. You’ll leave your skin in dusty corridors
where the echoes of axe-bites will wreck you
like seaquakes, your veins run parchment-dry.
Your lovers will say you’d sooner devise aqueducts
than find the crusted kernel of your heart.

Dea Addormentata, Delusa

Ti auguro molti devoti amanti
che si levano all’alba per spaccare la legna, intagliare
vasi d’argilla per nutrirti d’ostriche, ascoltare
moti lunari che s’incrinano
come anemoni marini.
Di’ che li graverà il rampollare
del tuo respiro, cadrà il tuo sperma radioso come stella
su uova schiuse, il tuo seme
popolerà regni remoti.

Di’ che tu elevi il più grande
tempio alla voluttà, spirali
sprigionate dalle tue mani, i femori
logorati dagli inchini. Lascerai la tua pelle
nei corridoi polverosi dove gli echi
delle asce ti scuoteranno come il mare, le tue vene
fluiranno aride come pergamena.
I tuoi amanti diranno
che tracceresti acquedotti prima di trovare
il nocciolo indurito del tuo cuore.

Abigail Ardelle Zammit, poetessa maltese, ha pubblicato in riviste e antologie, tra cui Matter, Tupelo Quarterly, Boulevard, Gutter, Modern Poetry in Translation, Mslexia, Poetry International, The SHOp, Iota, Aesthetica, Ink, Sweat and Tears, High Window, O:JA&L, The Ekphrastic Review, Smokestack Lightning (Smokestack, 2021) e The Montreal Poetry Prize Anthology 2022 (Véhicule Press, 2023). Fra le sue raccolte, Voices from the Land of Trees (Smokestack, 2007) e Portrait of a Woman with Sea Urchin (SPM, 2015). Ha scritto a quattro mani due opuscoli bilingui (Half Spine, Half Wild Flower – Nofsi Spina, Nofsi Fjur Selvaġġ) e redatto una guida su Seamus Heaney. Leaves Borrowed from Human Flesh sarà pubblicato prossimamente da Etruscan Press, Wilkes University.