Ripropongo qui un mio intervento ispirato da un dibattito in corso nel sito Universopoesia (universopoesia.splinder.it)
Non credo di potermi unire a coloro che magnificano le nuove prospettive di diffusione della poesia che si aprirebbero grazie a fenomeni come i festival, le letture, gli slam: fenomeni perlopiù occasionali, transitori, episodici, destinati a cadere, restare inghiottiti e infine dissolversi nell’indistinto flusso cronistico e mediatico.
Inevitabilmente, il pubblico dei reading volge la propria attenzione più al “personaggio” (alla gestualità, la postura, la dizione, o, più banalmente, l’abbigliamento e l’aspetto fisico) del “giovane poeta”, e ancor più della giovane poetessa (o presunti tali), che sulla sostanza intellettuale, umana e stilistica dei testi; aspetti, del resto, questi ultimi, che possono essere recepiti a fondo solo da un pubblico dotato di quel gusto, quella sensibilità e quella cultura che erano e sono appannaggio quasi esclusivo delle ristrette cerchie (i danteschi “fedeli d’amore”, i “pochi” che “drizzarono il collo per tempo al pan de li angeli”….) in cui, del resto, la poesia d’arte ha sempre trovato, con qualche rara, peculiare e discutibile eccezione, i propri interlocutori privilegiati e i propri “lettori ideali”, ben al di là dell’istrionico esibizionismo (che tanta fortuna sembra riscuotere presso le masse televisive e il mondo dell’informazione) dei guitti e dei giullari.
A ben vedere, anche le forme “popolari” e “spontanee” di scrittura letteraria (da Ciullo d’Alcamo alla poesia goliardica e comico-realistica del Medioevo al Ruzante, dal Folengo al Pulci, dal Berni all’Aretino… fino, se mi si perdona l’abissale salto contestuale e spazio-temporale, alle pagine più consistenti, più profonde e più filtrate di poeti-divi come Ferlinghetti, Ginsberg o Gregory Corso), su cui si spargevano, e a volte ancora si spargono, gli incensi di tanta retorica populista, agli occhi del lettore attento e competente (“at the cursory glance of the connoisseur”, diceva Poe) mostrano tutta la loro essenziale natura di opere elaborate da artisti colti e consapevoli, da abili e scaltriti artefici della parola, da letterati accorti e raffinati, da giocosi, e insieme lucidi, manipolatori di moduli, strumenti, registri.
Chi, fosse pure nella più totale buona fede, cerca di rendere la poesia “popolare” e “condivisa” tramite la lettura, il festival, l'”evento” rischia invece, paradossalmente, di finire per fare, senza volerlo, il gioco della società dello spettacolo — della logica omologante e vorace, vorticosa ed onnivora, indistinta e contaminante, propria del “tardo capitalismo”.
“Tutto ciò che era direttamente vissuto”, scriveva Guy Debord, “si è allontanato in una rappresentazione”. “Lo spettacolo in generale, come inversione concreta della vita, è il movimento autonomo del non-vivente”. La poesia è invece (per parafrasare ancora Debord), strumento della “coscienza del desiderio” e del “desiderio della coscienza”,si avvale del “linguaggio fluido dell’anti-ideologia” (“dum loquimur, fugerit invida aetas”; “si esauriscono in corpi in un fluire / di tinte; / queste in musiche……”), dialetticamente opposto al “presente estraneo”, al tempo “gelato” o “pietrificato”, dell’immagine mediatica, dello pseudo-evento investito, almeno implicitamente, di un’artefatta pretesa di storicità (nella misura in cui, di fatto, si consegna ad una cronaca che difficilmente sa rinunciare all’aspirazione, confidente e insieme illusoria, di farsi storia).
Perché, nella civiltà dell’immagine, non è più la pagina scritta (opaca, umbratile, immolata al buio e alla polvere, già determinata, ancor prima di essere concepita e di vedere la sua oscura luce, al proprio oblio essenziale e irrevocabile), ma quella detta, pronunciata, letta, filmata, “diffusa”, a rivendicare nel modo più sonoro il proprio presunto diritto all’archiviazione, alla “museificazione”, alla paradossale ed equivoca perennità delle videoteche.
Pare poi lecito dubitare che il pubblico dei festival e delle letture possa passare in massa dall’ascolto alla lettura.Al dilagare dei tanti eventi (o più o meno promozionali ed artefatti pseudo-eventi) legati alla poesia non fa riscontro un significativo aumento della diffusione e della fruizione delle pubblicazioni di poesia.
Come osservava, più di vent’anni fa, Umberto Piersanti nel suo equilibrato studio La poesia diffusa, “la poesia continua a pretendere, oggi più di prima, un rapporto diretto ed impegnativo con la pagina. (…) Il testo non può essere risolto nella dizione e neppure nella sua mimesi o teatralizzazione”. La poesia, osservava Cesare Viviani in un saggio significativamente intitolato Il mondo non è uno spettacolo, “non può che essere letta sulla pagina (la lettura orale riflette l’emotività, l’epica, è teatro)”. Non è casuale che questa limpida autocoscienza si trovi nelle lucide e preziose pagine teoriche e saggistiche di due fra i poeti italiani più coerenti, solidi, culturalmente consapevoli.
Il pubblico delle letture (che alimenta la “spettacolarizzazione della poesia” a cui si sta assistendo) si appaga, evidentemente (ed era, in un recente intervento, Alessandro Carrera, un altro critico-poeta di spessore, a rimarcarlo), del contatto collettivo, condiviso, visivo e uditivo, con il poeta-esecutore, e in genere non sente, successivamente, l’auspicato bisogno della profonda, meditata e limpida risonanza interiore della lettura; non vuole, non sa o non può immergersi nel “silenzioso concerto interiore” che, diceva Mallarmé, si scioglie e si effonde dalle pagine del Libro. La fruizione poetica è, così, perfettamente assorbita nella logica della civiltà di massa, nella sfera superficiale e moritura dell’immagine.
Certo (ben lo vide Pareyson, e i romantici prima di lui), anche la letture silenziosa, assorta, raccolta è, in certo modo, “esecuzione” quasi in senso musicale, cioè risurrezione, rivisitazione, ricreazione, del testo. Ma ben diversa, più libera e pura, è la risonanza interiore del pensiero, cioè del dialogo che (dice il Platone del Sofista) l’anima intreccia con se stessa in silenzio, rispetto a quella (così esposta e spalancata all’esibizione, alla consumazione istantanea, al transeunte, all’effimero) della performance.
La poesia rischia di riuscire culturalmente, gnoseologicamente, anche ideologicamente (proprio lei che dovrebbe essere, diceva Raboni, un “osso”, esile ma acuminato, celato ma sottilmente molesto, nella “gola del capitale”), depotenziata e resa innocua proprio nel momento in cui si cerca di renderla più diffusa, visibile, incisiva, influente (diverso, e da affrontare a parte, il discorso per quei poeti, come Lello Voce o Rosaria Lo Russo, per i quali la “voce dell’inchiostro”, l’attitudine di un testo già pensato teatralmente, in vista e in funzione della sua “esecuzione”, rappresenta, a livello di teoria come di composizione, un aspetto essenziale e consustanziale).
La consacrazione, la risonanza, la luce del giorno cui la poesia diffusa, esibita, declamata o gridata, sembra aspirare hanno, invero, l’artefatta fissità, la stereotipata esteriorità della comunicazione mediatica. Al contrario, è semmai proprio la pagina scritta e stampata a salvaguardare la perennità fluida e mutevole, la perpetuità mobile e vivida di un discorso che si porge ai secoli, offrendosi alla solidale, e virtualmente inesauribile, catena delle riletture e delle interpretazioni.
La questione non mi sembra molto diversa per i blog, che pure potrebbero essere (e nei casi migliori sono) straordinari strumenti di dibattito e di documentazione, o addirittura di memoria storica (pur se a breve termine).
Ma scrivere nei blog, è stato detto, è come scrivere sulla sabbia, a due passi dal mare: come abbandonare i propri pensieri e le proprie parole ad una postmoderna, “liquida” deriva di messaggi frettolosi, vani, spesso estranei e, come si dice, “out of topic”, o inutilmente e superficialmente polemici, da cui la sostanza del discorso viene accerchiata, assediata, sommersa, fino a risucchiarla, ad abolirla, a farla svanire nei gorghi avvolgenti e torbidi della marea mediatica.
Paradossalmente, il discorso dell’arte e sull’arte non sembra essere mai stato tanto esposto alla caducità, alla superfluità, all’effimero, quanto nell’era della sua illimitata ed impersonale “riproducibilità”, che oggi la galassia digitale e virtuale ha ulteriormente ed impensabilmente dilatato rispetto ai tempi di Benjamin (come a quelli di McLuhan).
Il “ritorno all’oralità” (in sede di scrittura virtuale) di cui i massmediologi hanno parlato a proposito dell’era digitale àltera e perverte la natura riflessiva, meditata, sorvegliata che dovrebbe essere propria (almeno sul terreno letterario, poetico e critico) della parola scritta.
Credo che, nell’era dello spettacolo e dell’oralità di ritorno, i poeti debbano “riprendersi l’aureola”: raccoglierla dal fango non per rimettersela orgogliosamente sul capo, ma semmai per conservare religiosamente (e umilmente, ma con infinito e doloroso amore), nel quieto e difeso segreto di un tempio interiore, quel poco che, pur corroso e vilipeso, ancora può restarne. Alla crisi della letteratura bisogna rispondere (parafrasando uno degli ultimi scritti di Guido Guglielmi) con un di più di letteratura (e magari di “letterarietà”), di cultura, di riflessione, di autocoscienza; fosse pure – orrore – di erudizione e di accademismo.
Che difficilmente, temo, potranno venire da quelle rassegne, da quelle parate o sfilate, vuote e vane, che sono, nella maggior parte dei casi, premi, festival, letture, o da quel “folle farnetico”, da quell’indistinta Chiacchiera che sono perlopiù destinati a restare, a meno che non vengano moderati e gestiti con maggior cura e attenzione, i blog letterari.
In questi giorni sto lavorando su Persio, autore che “scriptitavit raro et tarde”, e che parve oscuro e libresco già ai contemporanei; un poeta che, proprio nell’età di Nerone, disdegnava il circo, le esibizioni, le declamationes, e privilegiava la riflessione tormentosa, la ricerca stilistica e sapienziale, l’essenziale ed infaticabile labor limae.
Una solitudine eroica, certo, la sua, da sapiente antico. Ma è, forse, proprio questa la condizione (si pensi a Serra, a Proust, a Kafka, a Rilke……) che l’uomo di lettere (per quanto costretto ad una qualche forma di più o meno virtuoso commercio con la società e con gli uomini — con quello che Bigongiari chiamava il “tempo minore”) deve abbracciare e patire.
Questo è l’uso dei poeti: pretendere
per sé cento voci, cento bocche, cento
lingue desiderare che riecheggino
i loro versi.
(…)
Nel segreto io parlo. Oggi che la Musa mi ispira,
ti porgo, perché tu le indaghi, le profondità del mio cuore.