Solleone di guerraAccanto alla passione per la storia (i suoi libri sul periodo fascista sono stati pubblicati da Il Mulino e da Mondadori), Paolo Buchignani continua a coltivare anche la narrativa, e dopo “L’Orma di Orlando” (1992) e “Santa Maria dei Colli” (1996), esce ora, nel 2008, “Solleone di guerra” per le edizioni di Mauro Pagliai, che vanta la prefazione del noto regista Carlo Lizzani.Perché la narrativa? Perché attraverso di essa l’autore cala la Storia con la esse maiuscola nella carne dei suoi personaggi, gente umile che si è trovata a subirla e a pagarne spesso le terribili conseguenze. La Storia risponde a schemi generali e universali e quasi mai prende in considerazione i riflessi che il suo svolgersi ha sui singoli. Lo studio di essa per Buchignani non è sufficiente ad appagare la sua sete di verità, ed ecco che volge il suo sguardo laddove la Storia non registra e forse non intende registrare alcunché: il singolo, o meglio: la singola vita umana dispersa e in balia della sua tirannide.
Gli sovvengono la memoria e la testimonianza dei sopravvissuti. In questo modo la Storia diventa viva, concreta. Il periodo che lo interessa è sempre quello dei suoi studi, e in questo caso gli avvenimenti che dalla Prima guerra mondiale porteranno alla nascita del fascismo e poi alla Seconda guerra mondiale, che ne decreterà la fine. Alcuni sconfinamenti verso un periodo più recente serviranno a dimostrare che ancora il mondo vive in una specie di semincoscienza e a nulla è servita la dura lezione del passato. Un avvertimento, dunque, per gli uomini del nostro tempo.
La famiglia dell’autore, i cui genitori furono coinvolti attivamente nella guerra, è una delle fonti più ricche. La madre, da ragazza si adoperava a proteggere i partigiani e i renitenti dalle pattuglie delle camicie nere, il nonno aveva combattuto su molti fronti della Prima guerra mondiale, poi morto a causa delle sofferenze patite; in paese sette giovani furono “ammazzati come cani” dalle SS, la “Società di Satana”, come nel libro vengono chiamate. Buchignani non ha dimenticato i loro racconti e torna a dare voce ai suoi cari. Forse sono stati anche questi ricordi a sollecitare in lui lo studio di quel terribile periodo, in cui su tutta l’Europa aleggiò l’aspro vento della follia. Chi comanda è sempre lontano dalla gente; quelli che costui chiama gli interessi della Nazione, mai lo sono realmente. L’interesse di un popolo sono invece, in ogni tempo e sotto ogni latitudine, la pace e la concordia. Le storie di questo libro ne diventano la testimonianza: esse sempre di più vanno assumendo la fisicità di un grido lancinante contro chi dimentica.
Eppure molti avevano creduto nel fascismo e nelle parole del duce. Narra il padre dell’autore: “allora pensavo, io orfano di padre, che il Duce fosse davvero un grande padre, il padre di tutti i ragazzi: un padre forte e saggio che da solo provvedeva a tutto, l’Italia intera caricata sulle sue possenti spalle. Egli ci avrebbe dato l’impero e saremmo diventati una nazione ricca e potente: lavoro per tutti, cibo in abbondanza.”
Ci si domanda come una tale illusione abbia potuto trasformare un popolo desideroso della pace, appena uscito dalla Grande guerra, in un popolo belligerante. Non dobbiamo dimenticare che, per paura di non sedersi al tavolo dei vincitori, l’Italia arrivò addirittura a dichiarare guerra alla Francia nel momento in cui essa era stata già messa in ginocchio dai tedeschi. Un’azione vile che la Francia non ha mai dimenticato. Gli uomini che ancora sentivano bruciare le cicatrici degli anni ’15-’18, come l’intagliatore Danovaro, nulla potevano per contrastare l’onda del consenso intorno al duce e alla sua volontà di onnipotenza e di guerra: “Tu lo sai cos’è la guerra? No, non lo sai, perché sei ancora un ragazzo, un ragazzo senza cervello.” E ancora: “la guerra è soltanto morte, dolore e miseria.”
O come il canonico della cattedrale di Lucca, mons. Roberto Tofanelli, che dall’altare tuonava: “I fondatori di Imperi hanno una vita effimera, e lasciano sempre dietro di loro cumuli di rovine intrise di sangue e di lacrime.”
L’autore cresce in mezzo ai racconti dei sopravvissuti; è bambino, ascolta con interesse e curiosità. I fatti di guerra, le rappresaglie fasciste gli si inculcano nella mente, non li dimenticherà più. I ricordi sono lucidi, espressi con una scrittura vivida, priva di orpelli e di inutili sentimentalismi, consapevole della gravità di ciò che è accaduto e che deve essere tramandato.
La guerra è l’imputata principale. Non solo quella fascista del ’40-’45, ma anche quella del ’15-’18, nella quale era andato ad arruolarsi come bersagliere, già allora pieno di idee di grandezza, Mussolini. È quest’ultimo la figura che collega tra di loro le due follie della guerra. Cresciuto dentro la Grande guerra, ne resta segnato dagli esiziali desideri di riscatto e di vendetta. Essi non lo arresteranno nemmeno di fronte alla scelta di una grandezza dell’Italia da far risorgere a fianco del potente e terrificante alleato germanico.
Un soldato della Grande guerra non riesce a dimenticare, a distanza di anni, gli “Occhi turchini, infiammati di terrore e di odio” di un nemico ucciso.
Ancora ricorda: “Nella notte, però, acquattato tra le canne della palude per sfuggire alle guardie, scoprivo di essere solo al mondo.”
Il fascismo fu anche un nido, oltre che di impostori, di vili e di opportunisti: avvenuta la liberazione di Lucca “La folla acclamava, esultava, i fascisti scomparsi, mai esistiti, tutti partigiani, tutti eroi.”
I personaggi rievocati da Buchignani prendono la parola e raccontano direttamente la loro avventura. Essi risorgono e ammoniscono affinché nessuno cali la guardia. Un libro che trasuda, attraverso i ricordi di ieri, dei timori di oggi. Infatti, non si è sicuri che la lezione del passato sia stata assimilata. Forse è caduta addirittura nell’oblio. Tocca ad essi ricordare la necessità e l’orgoglio di quelle lotte, costate dolore e morte. Don Ugo ne è consapevole: “Devo rivivere quel passato, discendere negli abissi del dolore e del terrore, se voglio tentare di liberarmene una volta per sempre.”
Lo fa ripercorrendo le tappe che vedono a poco a poco affermarsi il fascismo, in forza delle prepotenze e della paura e viltà dei più. La conoscenza che l’autore ha di questo periodo consente una puntuale storicizzazione, che vede sottolineato l’impegno di alcuni sacerdoti e dello stesso Pio XI contro le prepotenze dei fasci: “Grazie a questa rete di solidarietà, la chiesa lucchese, assieme a tanti laici (gente semplice, rimasta nell’ombra), ha salvato dalla deportazione e dalla morte circa quattrocento ebrei.”
Anche il grande campione del ciclismo Gino Bartali ha contribuito alla salvezza di numerosi ebrei. L’autore ne sottolinea il silenzio da lui tenuto nel corso della sua vita. Bartali, con la sua bicicletta, nascoste nel telaio, da Assisi portava a Firenze 50, 60 carte d’identità per volta, false, stampate dai francescani di quella città. Alcune di esse giungevano poi a Lucca.
Nell’agosto del ’44 a Lucca l’attesa della imminente liberazione costò molto cara. I tedeschi, illividiti e inferociti dal sentore della sconfitta, non solo in Italia, ma su tutti i fronti, cominciarono a rastrellare paesi, campagna e boschi, incendiando e uccidendo donne, vecchi, bambini, renitenti e ogni altro essere umano che capitava sulla loro strada. Annunziata è una madre a cui i tedeschi hanno fucilato nello stesso giorno quattro figli: “le grida dell’Annunziata laceravano l’aria, strappavano il cuore. Grida e pianti, pianti e grida. Li chiamava, i figlioli, uno a uno. Poi una pausa, l’attesa di una risposta. Rispondeva il silenzio, rotto, di tanto in tanto, dai singulti dei gufi, dai latrati dei cani.” È in questo periodo di estrema follia che accadde, ancora in piena estate (era il 12 agosto 1944), col solleone che batteva sui corpi sfiniti dalla sofferenza, l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, uno dei più efferati della Seconda Guerra mondiale. Cinquecentosessanta civili, del luogo e dei dintorni, furono massacrati dalle SS, “agli ordini del Maggiore Walter Reder.” Agli inizi di settembre un’altra strage, quella della Certosa di Farneta, situata appena fuori della città di Lucca. Il ritratto del sergente tedesco Papuska, “Alto alto, curvo, andatura scimmiesca: sulla faccia butterata due occhi biechi, allucinati. La bocca una fessura senza labbra, che s’apriva in un ghigno da far rabbrividire.”, diventa l’espressione e il simbolo di una tale follia: i suoi occhi: “due punti gialli, iniettati di sangue.”; “A lui si devono alcune delle stragi più efferate e insensate, che si consumarono in quella parte di territorio lucchese confinante col pisano.” Suo compagno il Bolzanino, “un rinnegato di Bolzano, che era l’ombra di quell’essere immondo, gli faceva da interprete e da spia. […] si conquistava la fiducia della gente con modi gentili e amichevoli e poi la faceva assassinare.”
Quando arrivano gli anni Sessanta, gli strascichi del fascismo, non sopito nel cuore di taluni nostalgici, riaffiorano in superficie e l’autore narra ora in prima persona, lui ragazzo, i fatti che resero turbolenti quei giorni.
L’urgenza di imprimere sulla gioventù distratta di oggi il sigillo di un pericolo che potrebbe risorgere è alla base dell’opera di Buchignani. Quel pericolo è sempre in agguato, sembra ammonirci. L’esperienza fascista, infatti, nel mentre ha inorridito le coscienze, in taluni ha lasciato invece il segno di un desiderio di protagonismo, di violenza e di tirannia. Ne registra le azioni con severa meticolosità, dal tentativo di golpe del “principe nero“, Borghese, alla strage di Piazza Fontana. Ma il suo sguardo si allarga anche fuori dell’Italia, va al golpe cileno comandato da Pinochet, con l’assassinio del presidente Allende, democraticamente eletto; alla “Primavera di Praga”, soffocata dai carri armati sovietici, all’invasione dell’Ungheria da parte dei russi nel 1956. Il filo conduttore del libro resta, dunque, la condanna della violenza, sia essa provocata dalla guerra o da una ideologia. L’autore, dopo aver fatto parlare gli altri, diventa lui stesso protagonista del libro con i suoi ricordi giovanili. Prende a viaggiare, vuole conoscere la verità. Nel 1973 è a Budapest per sapere che cosa la gente pensa degli avvenimenti accaduti. Silvia, la dottoressa dei bambini che Buchignani, ancora studente universitario, incontra in una “Pest degradata”, gli risponde con sarcasmo che “bisogna avere pazienza: attendere il comunismo, il nostro paradiso. Da quanti anni attendiamo il paradiso? Siamo un popolo paziente, paziente e rassegnato.” I comunisti le hanno ammazzato il padre, combattente per la libertà, il 27 luglio del ’57: “Fu uno degli ultimi, tra gli insorti del ’56, ad essere fucilato.” Il ’56, gli dice, ha rappresentato “per tutti noi, per gli ungheresi, la morte della speranza.” E aggiunge: “Lo stesso è accaduto a Praga nel ’68.”
È una esperienza che segnerà il giovane Buchignani, come dai cruenti fatti saranno segnati molti altri giovani comunisti, non solo italiani. Oggi, che il Muro di Berlino è caduto, oggi che ci troviamo in piena globalizzazione, tanto sono lontani quegli avvenimenti che ci sembrano fantasiosi, impossibili, assurdi, se non fosse che l’autore riesce con lucidità e precisione a far riemergere i passaggi di un tormento che fu di molti.

Le insicurezze, le inquietudini, la rabbia che seguirono alla caduta del fascismo esplosero più tardi, dopo qualche decennio di latenza, nei movimenti studenteschi e nelle formazioni di gruppuscoli politici che inneggiavano alla rivolta contro il capitalismo e lo Stato borghese. Gli stessi obiettivi, insomma, che informano ogni tentativo di rivoluzione. È un filo conduttore lucidissimo, quello tracciato da Buchignani. I suoi undici racconti, legati tra loro senza soluzione di continuità, formano un vero e proprio romanzo. Ne costituiscono altrettanti capisaldi. Vi passa quasi un secolo di storia italiana: “Ragazzi in maglione e blue jeans, fanciulle in minigonna, fra uno spinello e l’amore libero nelle aule austere, avevan gustato il frutto proibito della rivoluzione, assaporato il paradiso che loro, artefici della storia, tremanti d’orgoglio e di paura, s’apprestavano a creare.”
Buchignani, allacciandosi ai suoi studi storici, ricorda alcuni fascisti rivoluzionari che erano mossi dal desiderio di abbattere lo Stato borghese e si lamentavano che Mussolini fosse sceso a dei compromessi. Un legame, insomma, poteva unire quei giovani ai giovani degli anni ’70: “Mi venne da pensare che la storia si ripete e non insegna nulla.” Anche a me viene da pensare ad una considerazione di Carlo Bo espressa in un articolo sul “Corriere della Sera” del 31 luglio 1970, intitolato “L’alibi delle parole”: “Né sembri da trascurare un altro particolare, vale a dire il contrasto fra le luci apocalittiche di certe diagnosi e il tran-tran quotidiano delle piccole soluzioni. C’è un’enorme letteratura che per comodità viene classificata col nome del «maggio francese», ci sono ormai degli archivi ricchissimi di questa letteratura rivoluzionaria ma, a ben guardare, fanno parte dello stesso scaffale delle finte programmazioni. Cambia il registro, è diverso lo strumento ma fra chi predica la rivoluzione e chi sostiene le riforme non c’è poi troppa differenza: nella maggior parte dei casi abbiamo a che fare con gente che non crede fino in fondo a quello che dice.
Spunteranno poi le Brigate rosse.
L’autore chiama a parlare della guerra anche un protagonista di uno dei suoi libri, Marcello Gallian, che qui viene chiamato Matteo Galati. Con lui faremo un lungo percorso, si torna indietro, agli anni della Grande Guerra, vista per un momento con gli occhi e la mente dei monaci della Certosa di Firenze, considerati dal popolino “imboscati dentro le tonache.” Matteo vi si era ritirato per farsi frate, diventare santo. Alcuni dei novizi sono chiamati al fronte. Un fermento, un’ansia lancinante tra i rimasti. Non ci resterà a lungo tra i frati. Una notte scavalcherà le mura del monastero di Vallombrosa per rifugiarsi a Roma, dalla ricca zia Virginia. Siamo nel 1918, lì lo raggiungerà la notizia che la guerra è finita. Un anno dopo, D’Annunzio infiamma le folle, molti accorrono volontari a Fiume, tra di loro Matteo, che ora vuol diventare un eroe. Matteo è il simbolo di come D’Annunzio prima e il fascismo poi, riuscirono a smuovere i sentimenti degli italiani, ancora scossi dalla cosiddetta “vittoria mutilata”, come l’aveva definita lo stesso poeta-soldato, e di come un tale desiderio di rivincita avrà il suo peso nell’ascesa al potere di Mussolini. Buchignani ci fa entrare nel clima di quella che fu una autentica esaltazione: la presa di Fiume rappresentava un riscatto che avrebbe “ricondotto la Patria agli antichi splendori.” Fu come un miraggio: a Trieste “Sulla banchina, sotto il fiato della notte, i carbonai s’eran moltiplicati: ragazzi acerbi con gli occhi accesi.” Si aspettava “l’ora della guerra rivoluzionaria.” È, questa, una pagina di storia che non tutti conoscono; a scuola se ne fa un accenno fugace. Invece contò molto per il prosieguo degli avvenimenti. L’autore, da storico qual è, lo sa bene e la vicenda umana di Matteo Galati squarcia il velo dell’esaltazione, del compiacimento e infine della delusione, e fu, quest’ultima, poi, il risultato che, dopo Fiume, si ripeté negli ultimi anni del regime fino ad giungere alla caduta del fascismo.
Arriviamo alla marcia su Roma: “La gente acclama con la faccia impaurita.”; “Il Fascio era al governo, chiamato dal re, benedetto dal papa, alleato coi capitalisti e coi liberali di Giolitti: con tutti quelli che avrebbe dovuto spazzar via.” E ancora: “quella che nacque non fu la dittatura contro la borghesia; al contrario (ce ne accorgemmo di lì a poco, per primo se ne accorse Curzio Malaparte) fu la dittatura della borghesia, l’ordine borghese intoccabile ed eterno.”
Quando scoppia la Seconda guerra mondiale, i giovani rivoluzionari come Matteo esultano nella speranza che il fascismo torni alle sue origini di nemico della borghesia. Nella dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940, Mussolini dice: “Questa lotta gigantesca non è che una fase dello sviluppo logico della nostra rivoluzione; è la lotta dei popoli poveri e numerosi di braccia contro gli affamatori che detengono ferocemente il monopolio di tutte le ricchezze e di tutto l’oro della terra.”
Protagonista dei racconti è anche il sole (“Solleone di guerra” è il titolo dell’ultimo racconto), un sole forte, luminoso, che più che riscaldare, morde coi suoi raggi la terra e gli uomini. L’arsura che ne consegue è arsura e sofferenza di anime. Pure il 25 luglio 1943, allorché Mussolini viene sfiduciato dal Gran Consiglio e fatto arrestare dal re, nel cielo splende il solleone.
Quando frequentavo la Scuola “Giovanni Pascoli”, a Lucca, in Piazza S. Maria Bianca, ricordo che, suonata la campanella della fine delle lezioni, si faceva una specie di parata, nel senso che si marciava come un plotone di soldati verso l’uscita. Una classe dietro l’altra. Un due, un due, passo. Retaggio degli anni precedenti, come racconta Poldo, che, dapprima fanatico del fascismo, coi suoi ricordi (“Libro e moschetto, Balilla perfetto”) ci fa entrare nella scuola fascista, dove Mussolini era presentato come “l’uomo della Provvidenza, un dono di Dio all’Italia” e dove si insegnava a “odiare l’Inghilterra e la Francia, nostre nemiche.”
Poldo ci fa conoscere il 25 luglio 1943, nonché l’8 settembre dello stesso anno, allorché Badoglio firma l’armistizio e insieme con il re scappa al sud, lasciando l’esercito italiano senza un capo e dando il via a quel fuggi fuggi generale conseguente allo sbandamento degli ufficiali prima, e dei soldati poi: “Una voce su tutte le bocche: scappare, scappare! L’ha detto il tenente: scappare subito, prima che arrivino i tedeschi.” La repubblica di Salò torna però come un fantasma ad atterrire i sopravvissuti. I fascisti, diventati le spie dei tedeschi, insieme a quest’ultimi si accaniscono contro i renitenti alla leva di Salò, ordinata da Mussolini (nella parte finale assisteremo alla esecuzione di due di essi pizzicati dalla Brigata nera). Si sperava di evitare l’arruolamento confidando in una veloce avanzata degli Alleati, che invece va a rilento. Inizia così il periodo più cruento, quello dell’estate 1944, che abbiamo già incontrato in una narrazione precedente.
Nel momento dell’euforia, quando gli Alleati, oltrepassato l’Arno, sono alle porte della città di Lucca, che libereranno il 5 settembre 1944, non è ancora tempo di pace e di libertà. Lo grida Giovanni il mattino del 4 settembre di sentirsi finalmente libero, lo grida mentre, sceso dal monte, sta correndo dalla sua fidanzata Maria, ha un saponetta profumata in mano da portarle in dono, ma ecco che, nel silenzio, una raffica di mitra lo colpisce al petto, uccidendolo: “Ora arriva gente, il paese si anima: la guerra è finita.”
La guerra non ha mai pietà, dunque. È cinica e grottesca, sempre: “Alla fine scopriremo che più di una volta abbiamo colpito la nostra fanteria.” Ancora di più è grottesca se si pensi che, per esempio, come testimonia la vedova di Berto Ricci, “il fascista volontario di guerra, caduto sul fronte africano” (altro personaggio già trattato nei suoi libri da Buchignani), molti che gli avevano scritto (letterati e altri uomini in vista asserviti al regime) le chiedevano, dopo la caduta del fascismo, la restituzione delle lettere, che potevano comprometterli. Attraverso l’intellettuale e matematico Berto Ricci, veniamo a conoscere le gesta coraggiose del pittore Ottone Rosai, “un Ardito di guerra”, che da solo riesce a snidare e a uccidere un cecchino, che aveva fatto strage di soldati italiani. Sarà lui a convertire al fascismo Berto Ricci: “Era il dicembre del 1926.” Nel ’31 Ricci fonda “L’Universale”, un giornale che raccoglie “un pugno di ragazzi innamorati del Duce e della pittura di Rosai.” Tra questi giovani lo stesso Ottone Rosai, Romano Bilenchi e Indro Montanelli. Il giornale propagava idee rivoluzionarie non proprio gradite al regime, che lo accusava di bolscevismo: vi “Si invocava una limitazione qualitativa e quantitativa del diritto di proprietà, la partecipazione dei lavoratori agli utili delle aziende e la fine d’ogni proletariato.” Con Berto Ricci la testimonianza sul fascismo entra nelle stanze del potere, tra i gerarchi che contano, da Farinacci a Pavolini, allo stesso Mussolini. Attraverso di lui scopriamo parte dell’ingranaggio che muoveva il regime.
La guerra è osservata anche sul fronte orientale dove fa i conti con i partigiani di Tito, “i titini”, che “arrivano nell’ombra, silenziosi come serpenti, mordono e spariscono.” A fare da esca agli italiani sono le donne slave, tutte belle: “S’avvicinavano all’accampamento, quasi sempre in due, ti chiamavano, ti sorridevano, t’invitavano a fare una passeggiata. Se accettavi, per te era la fine.”
L’autore ci sta offrendo un ampio spettro degli avvenimenti italiani più significativi del secolo scorso; con i suoi personaggi penetra nei fatti che, meno visibili, ne hanno costituito il motore possente. Davvero un libro che tutti dovrebbero leggere: i più anziani per ricordare, i più giovani per apprendere e riflettere (“È una ferocia che ritorna, che non si riesce a seppellire.”; “Le SS obbligavano alcuni civili a camminare sul sentiero, cosparso di mine”), condotto con l’abilità del narratore che detesta fronzoli e digressioni, che va al sodo della questione, nonché con lo scrupolo e con la precisione dello studioso che vuole rappresentarci una dura lezione della storia.
Non è, infatti, un caso che l’assurda ed emblematica strage compiuta dal sergente Papuska, l’invasato criminale nazista, con la complicità del Bolzanino, la sua spia, è raccontata per ben due volte, da due osservatori diversi, prima un prete, don Ugo, e poi una giovane, Agnese, di sedici anni, a sottolineare la cinica follia della guerra. Agnese verrà beffata, anche lei, negli ultimi giorni di guerra, proprio alla vigilia della liberazione.
Sarà, infine, un padre che ha fatto la Grande guerra e che ora ha il figlio al fronte a dare con le sue parole una delle chiavi interpretative del libro: “Ogni generazione la sua guerra, a me la prima, a Gianni la seconda. Ogni volta promesse di ricchezza e di grandezza, ogni volta la stessa fregatura: morti, sangue, famiglie distrutte e dopo la stessa miseria. Nulla cambia, a rimetterci sempre gli stessi.”

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