Ospedale

di
Cesare Pavese

tempo di lettura: 13 minuti


Masin si stava già dicendo che un inverno in città coi Conti Celano non l’avrebbe piú resistito quando quelli gli tolsero il disturbo.
Capitò che alla villa mancarono strumenti di giardinaggio e il Signor Conte denunziò la cosa.
Capitò che il maresciallo dei carabinieri di Alba era un abruzzese che gli piaceva eccessivamente sorbire al riparo accanto al fuoco i vini piemontesi.
Capitò infine che quell’ottobre pioveva l’universo e le foglie eran già morte e l’aria fradicia.
Messo tutto insieme, i Conti non riuscivano piú a levarsi di casa il Funzionario che istruiva di qua, investigava di là e lodava senza vergogna la cantina, baciando poi la mano alla Contessa alla partenza.
Un giorno prese i nomi del personale per orientare i sospetti e dopo neanche una settimana, seduto davanti alla solita bottiglia, notificò al Signor Conte che tra l’altro il suo meccanico aveva ucciso un uomo.
Salti. Interrogatori. Masin secco. Licenziato.
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Faceva freddo ormai e Masin non aveva piú voglia di vagabondare. Ma cosa fare in quei paesacci? Saltò sul treno, cambiò a Bra e un’ora dopo era a Torino.
«Andè ’n Calcuta, – meditò, – j veuj maj pi vëdë ’d pacô. Turin l’è granda. Queicos faraj». Ma accadde che se nella Langa Masin era stato il torinese, di ritorno a Torino fu il pac. e quade. per giunta.
Suo padre – operaio – lo assalí (perché Masin andò a trovarla la famiglia) con parole malferme e cominciò dall’investimento di Pino, toccò della vita militare, e che il figlio aveva imparato là a non far niente e che sua madre era all’ospedale e che lui avrebbe fatto la guardia civica.
— Va ’nciôchete, papà, – gli disse Masin.
Peggio. Il vecchio aveva tralasciato di bere per via dell’ammalata e passava ora le giornate a lamentarsi che neanche con quella privazione non si poteva andare avanti.
Masin gli diede quaranta lire – metà della sua scorta – s’informò della corsia dov’era la vecchia e uscí a camminare.
Abitavano Oltredora la sua famiglia, in una casa a sette piani e dei ragazzotti nel cortile non lo riconobbero piú al passaggio. Masin si toccò il mento e sentí una stoppia di tre giorni.
Attraversò la Dora, tutta lurida e fangosa, sul ponticello di legno della tranvia. Era già verso sera e i campanili di Porta Palazzo si vedevano appena nel cielo arrossato. Masin da ragazzo aveva sognato che quei campanili in distanza fossero la città dove ci si divertiva. Ora camminò sui marciapiedi senza neanche alzare gli occhi.
Entrò da un barbiere, affollato, sulla piazza. Si sedette a guardare i giornali illustrati.
I commessi parlavano eccitati della partita di calcio del giorno dopo. Partita internazionale, Italia-Germania. Masin non s’era piú occupato del gioco da tre mesi e, a sentir nominare un portiere che non conosceva, gli andò il sangue ancor piú per traverso.
Quando uscí non sapeva dove finire. Gironzolò un poco, si fece quasi investire da un tram, poi entrò in un cinema da una lira. C’era Tom Mix. Uff.
Dopo un atto, scappò via. Sempre lo stesso. Pensò che quella gente guadagnava milioni a fare il cine.
Andò allora a comperare salame, vino e pane e tornò a casa. Suo padre lo aspettava fumando il toscano. – J lô savia che t’ sarie tôrnà a deurme Si misero a tavola. Suo padre si lagnò che il vino era cattivo e poi: – J l’aj pôrtaine ’n fiasch, ’nceuj a tôa mare. – Masin non aveva voglia di vino. Chiese invece: – L’a sempre la sciatica, mare? – Il vecchio borbottò a lungo. – L’è l’umidità… sôn ste pieuve… pa fumè… pa beive… venta che t’ travaje Masin… fè ’l civich, bin pagà… distôrb ’d j intestin… girô le bale… plandrôn… – Masin andò a dormire.
Una settimana dopo Torino era di nuovo da starci. La pioggia continuava, le giornate eran buie, ma Masin lavorava. Aiuto-macchinista all’Odeon.
Ci fu uno scambio di compagnie e dal mattino alla sera i macchinisti dovettero stare a montar scenari. Piacque specialmente a Masin la promiscuità serale con ballerine e attori. Tutte quelle gambe, quelle facce, quegli strilli e quelle commedie lo interessavano. Da dietro le quinte vedeva pezzi della rivista e gli piaceva ascoltare l’orchestra e le canzoni. Ma gli attori uomini che gli passavano sui piedi parlando italiano, li aveva in un occhio.
Tra la clac trovò un giorno un collega del Lingotto.
— Ciaô Masin, travaje? – Costui parlava il torinese antico e Masin s’accorse con ansia che lui l’aveva già mezzo perduto. Poi venne fuori che il collega lavorava in donne e fece anzi proposte a Masin. Masin accettò una volta – una corista – ma il collega che intendeva trattarlo da amico non volle soldi, solo chiese le impressioni e gettò certi approcci per associarsi Masin.
Masin scosse il capo: – ’Ncôra nen. ’N dí o l’aôtr faraj anche lon.
Era andato a vedere sua madre all’ospedale e se n’era tornato pieno d’astio. La vecchia stava meglio, sarebbe uscita tra poco, ma parlava come non ci fosse piú che lei al mondo e con aria severa chiese a Masin dov’era stato quell’estate. Le cure dell’ospedale l’avevano guastata. – ’Des ch’j seurta, faraj… ’des ch’j seurta ’t dijô… – E Masin per arrivare fino a quel letto a metà della corsia aveva dovuto passare tra due file di malate, tra un odore di rinchiuso, puzza di medicine, parole basse e un gran crocefisso in fondo. Non ricordava nessuna delle facce Masin, ma aveva nelle ossa il freddo di quei corpi magri, stentati, di donne, distesi sotto le coperte a febbricitare. Giurò che non sarebbe tornato mai piú. E alla sera le belle gambe nervose e le schiene, le facce lustre delle ballerine gli erano parsa tanta carne da ospedale. «J l’aj ’l sang cativ», disse tra sé quella notte tornando a casa e cercò di fischiettare una canzone del teatro.
Non gli sarebbe spiaciuto ormai di lasciare l’impiego all’Odeon e tornare ai motori – quelli non ammalavano – se non per un’idea che cominciava a farsi strada. Cantare sapeva, suonare anche – perché non tentare di riuscire un artista, come quei terroni che gli stavano tra i piedi?
Ci pensò a lungo come fare Masin. Non sapeva se andar dritto dal padrone ed esporgli la cosa o cercare per mezzo di donne di farsi conoscere e appoggiare. Tentò tutte e due le vie e nessuna riuscì. Il padrone non lo stava a ascoltare; le ragazze, qualcuna si lasciava di nascosto abbracciare – era un giovane sodo Masin – gli scherzavano insieme anche, ma si vergognavano di lui davanti agli altri.
Una sera che mancò un buffo, Masin si offrí di sostituirlo – sapeva la parte. Non lo vollero. – Non è suo mestiere, – gli dissero. Masin lavorò allora di progetti. Perché limitarsi a mendicare un posto nella rivista? Si poteva anche fare l’artista isolato – varietà – rendeva di piú e uno era piú libero.
Esaminò l’idea. Difficoltà: non sapeva cosa fosse un programma, non s’intendeva dei contratti, non conosceva nessuno. Si mise allora d’attorno a istruirsi. Interessò il collega del Lingotto.
— Sôn bale ’sti mestè, – disse l’altro. – Lassie fè aj napôletàn –. Masin testardo. E gli venne un’idea. Da solo non avrebbe mai fatto nulla, ci voleva una compagna. Combinare un duo.
Assaggiò qualche corista. Fece proposte serie, da uomo d’affari: gli risero sul muso. Fece il farinello, dando pizzicotti e canterellando motivi. Gli risero dietro le spalle. Stufo Masin e visto che suo padre diventava sempre piú piagnucoloso, posò gli occhi su una ballerina, allegra, torinese e malcontenta e le propose di sposarla.
Naturalmente scelse un momento che andasse. Stavan parlando di malattie, di difficoltà nella vita. Masin l’accompagnava fuori del teatro, di nascosto dagli altri. Disse che aveva studiato qualcosa, che conosceva la musica, che aveva fatto il macchinista per trovare un tipo adatto e che lei era il tipo. Volevano provare a lavorare insieme? Per darle fiducia l’avrebbe sposata.
Pucci – Maria – parlò della mamma che desiderava difatti vederla famosa. Si lagnò che in teatro non la lasciavano fumare, guardò Masin.
Masin si era vestito quella sera con un abito piú pulito e la camicia piú bianca. S’era fatto tagliare i capelli. S’accorse che Pucci lo paragonava mentalmente a un qualche giovanotto bischero conosciuto di notte. E si fece forza.
Andò come sperava. Pucci non disse che l’avrebbe sposato. Ma accettò di provare in segreto qualche numero. Intanto lui cercasse le scritture. Quando fossero sicuri, ma proprio sicuri avrebbero visto.
Si lasciarono al portone con Masin che tentò di darle un bacio e Pucci che scappò sulle scale cantando – alle due.
Da due settimane provavano e Masin si sforzava di far solo l’artista. Non voleva abituar male la ragazza, visto che un giorno o l’altro sarebbe stata sua moglie. Lei si faceva sempre piú insidiosa e comandava Masin – ormai rassegnato a non imparare la piroetta e convinto che altro era collaudare le automobili, altri riuscire nel duo.
Provarono passi, provarono canzoni in casa di Pucci – tra la disapprovazione della madre che non voleva quel pezzente – e Masin si privò di cene per vestirsi decente, da artista.
Tacitamente era ormai convenuto che Pucci non avrebbe mai fatto il duo con lui, ma restava il discorso del matrimonio, restava la relazione che per Pucci voleva dire divertirsi a contatti con Masin facendolo ballare e ridendo tutti e due delle goffaggini.
Avevano preso l’abitudine di andare uscendo dal teatro a bere il caffè insieme. Non sempre, ché ogni tanto Pucci aveva appuntamenti. Masin cominciò a rodersi. La loro intimità eran soltanto risate o porcheriole, va bene, ma non l’aveva scelta Masin per farsene una compagna di lavoro? Piú niente duo, va bene, ma insomma, se l’aveva scelta, era stato per qualche cosa e gli bolliva il trattamento.
Innocentissima Pucci fumava e rideva. Rideva, rideva, finché un giorno si fermò. Proprio quella volta Masin era venuto in teatro da spettatore, per annunziare alla compagna che aveva trovato una scrittura per lei, un numero di canto. E sentí che la vecchia di Pucci era all’ospedale, e pareva molto grave. Ricacciò in gola la soddisfazione, ricacciò la scrittura e si consolò perché aveva visto Pucci ballare – ora s’intendeva un po’ di passi e conosceva le sue mosse e la distingueva tra tutte.
Nei giorni successivi Masin si mise a consolare Pucci, nel solito caffè. Tornarono a parlar serio, delle difficoltà della vita e delle disgrazie. Ma se Masin per sollevarla faceva l’allegro, Pucci se la prendeva – che era un egoista, come tutti se le parlava chiuso in faccia, taciturno, erano scatti di impazienza. – Stagô già tut ’l dí ’mpicà a l’ôspidàl.
Intanto Pucci trovava il tempo per gli appuntamenti. Una sera che scappò via in automobile, senz’aspettarlo, Masin tornò in casa furibondo e spaccò l’uscio rinchiudendolo e alzò la voce e svegliò padre e madre e imprecò all’ospedale e tornò a uscire. Il giorno dopo, non potendone piú, andò sul mezzogiorno a cercar l’innamorata.
Salí in quella casa – via Santa Chiara, quinto piano, cortile largo tre metri – e a metà scala ricordò che a quell’ora Pucci andava all’ospedale. Fece dietro-front, fu in strada, poi pensò che non sapeva la corsia, bestemmiò, risalí di corsa, s’informò e tornò a discendere lento, ruminando.
Gli dispiaceva tornare all’ospedale – ricordava sua mamma – ricordava il primo effetto macabro della corsia e ci pensò tanto che ne esagerò l’impressione e quando arrivò e passò tra i letti, andò spigliato come fosse stato di casa.
Arrivò al letto della madre di Pucci. Una donna grassa che opprimeva il materasso e teneva i capelli tutti in disordine, non come quando gli veniva aprire in via Santa Chiara con mala grazia, coll’aria di una portinaia che riceve un inquilino povero. Allora madama Tecia aveva avuto una gran pettinatura elaborata, con spille e cornicioni.
Pucci non c’era. Masin strinse i pugni e si mostrò alla donna. La salutò: – Cóm’a va, madama? – L’altra aprí due occhi spaventati e con tono piagnucoloso riconobbe Masin. – Eh, sôma sí.
— Maria a l’a dime ch’a va mej, – fece Masin per entrare in argomento e tacitare l’antica avversaria.
— Oh, Maria, a treuva sempre ch’a va mej. I dôtôr maj, tuti j dí ’m fan la pôntura. Dassí ’m lassô pi nen seurte.
Masin s’appoggiò al letto. C’era sul comodino un vetro pieno d’orina. Dalle finestre grandi filtrava un po’ di sole pallido, una giornata azzurra di dicembre, freddissima. Masin guardò fuori e pensò a Pucci, che chiamava Maria.
— Ch’a staga ’n gamba, madama, j dôtôr sôn pia ’n tla testa –. Si fermò. La donna si mosse un poco e mugolò. – Maria a la cudiss, no? – le chiese poi brusco.
Madama Tecia era domata e istupidita. Rispose: – A l’è sí Maria, l’è ’ndaita giú a pieme ’d pôrtugaj për bagneme la gôla. La frev… – Continuò a spiegare i suoi mali. Masin guardava intorno e la gran rabbia della notte cominciava a cadere. Nella corsia passava qualcuno, lontano, tra i letti si sentivano parole in sordina. L’ansito di una respirazione strozzata cominciò a martellarlo da qualche parte.
Madama Tecia parlava di Pucci: – A l’è ’na brava fija Maria. Lon ch’a travaja, porta tut ’nte cà, menô ’l fumè. Chiel ch’a van d’acorde, ch’a preuva a dije ch’a fuma nen tan. Mi già, j lô diraj pi nen.
Masin chiese di Maria. Volle sfogare in qualche modo a se stesso la sua furia. Disse che ognitanto lei s’eclissava in macchina.
Gli occhi della malata si fecero duri poi lacrimosi. – L’è so travaj côllí. L’aveissa mach la testa a post, Maria. Côla volta… – e si fermò.
— Cosa a l’è staje? – incalzò Masin.
Venne fuori a pezzetti una storia. Maria qualche anno prima aveva stretto relazione con una carogna, «n’avôcàt dle bale». Soldi, automobili, tabaren, ville, Maria aveva lasciato una scrittura con una buona compagnia e s’era inoltre innamorata. Gite a Milano, in Riviera, appartamenti. E dopo un po’ l’avvocato si era scoperto un truffatore e per poco anche lei non era finita in galera. – Lajàn dën lajàn, mach ’d parole, mach ’d boria…
Masin fu piú calmo. Strano, non provava irritazione contro Pucci, solamente una gran voglia di strozzare il passato rivale.
— …mach pien ’d supa. Maria l’à dime: «Mama, si l’aj fait lon l’è ch’a cherdia ch’a fussa rich, rich… Cosa ’t veule? J’omni sôn mach ’d carogne…» ’Des j dijô nen a chiel…
Masin approvava cogli occhi. Non poteva piú farne a meno adesso, di Maria, cavarla da quella disgrazia, dall’ospedale. «Meno male ch’a l’è saña», pensò tra sé.
In quel momento senti chiamare: – Dotore, dotore! – da una voce trafelante, sforzata. Si volse e non vide nessuno. E dopo un po’: – Dotore, po’ d’acqua, dotore!
Tornò a guardare. La voce veniva da qualcuno dei letti. Ma non c’era nessuno in corsia. Rimase imbarazzato.
Madama Tecia disse: – L’è ’na fômna li ’n facia ch’a l’a gnun, ciama da beive…
— Dotore, dotore!
Masin si mosse. Guardò madama e questa: – Ch’aj daga ’n bicer d’aqua.
La malata che chiamava guardava Masin. Non si sollevava sul letto. Magrissima, mosse una mano a indicare un lavandino di fronte. – Da bere, dotore –. Masin si spigliò. Prese con ripugnanza un bicchiere sul comodino di latta e andò a lavarlo e a empirlo. La malata ansimava.
Masin le porse il bicchiere. Quella non poteva prenderlo. Masin s’accostò di piú e le bagnò le labbra e le vide quasi bianche e le occhiaie livide. – Va bin, parej? – disse poi per dir qualcosa, tentando un sogghigno.
— Ah… – respirò la malata non guardandolo. – Fresco… ghiaccio, dotore –. Masin s’impazienti. Non veniva nessuno.
Tentò allora: – No, no, staga ferma, adesso arriva la suora –. La malata lasciò ricadere la mano alzata e supplicò: – Da bere –. Masin tornò a inumidirle le labbra borbottando qualche cosa. E quella chiuse gli occhi.
— L’a malatia ’d cheur, – gli disse ad alta voce madama Tecia dal suo letto. – Tut ’l dí parej. Mai gnun a cudila.
Masin tornò da madama. Era adesso impaziente, insofferente, voleva Maria.
Il giorno che madama Tecia fu in piedi, Masin andò con Pucci a prenderla all’ospedale. Fu una corvé che Masin fece per politica. Ma entrare un’altra volta là dentro gli puzzava. Attese in portineria e Pucci salí. Solo, Masin fumò; poi si guardò allo specchio: era vestito elegante per la conquista. Era molto cambiato Masin. S’era messo in giro e aveva trovato da fare il piazzista di motori a scoppio. Una posizione.
Quando madama scese al braccio di Pucci, Masin non seppe cosa dire. Meno male che le due donne parlavano di certi torti fatti agli indumenti privati nell’ospedale. Pucci strillava. Madama imprecava e malediva alle suore.
Dopo un poco Masin disse:
— Fa piasí seurte da sí.
E Pucci:
— Oh për ti! ’t ses maj amnuje ’na volta!
E fu qui che la madre lo difese:
— Anvece ’l’è stait tan grassiôs e t’vedeisse che deuit a cudí le malavie! – Madama faceva già i doppi sensi. Masin chiese brusco: – E côla veja ’d côl dí, ch’j l’aj daje da beive: che fin l’a fait?
— Quala?
— Côla ch’a ciamava «dotore»…
— Ah… l’è spirà la neuit. Gnanca ’na sôora a guardeje! Chiel a l’è stait l’ultim ch’a l’a parlaje.
Se l’aspettava Masin, pure rimase male e strinse il braccio di Pucci ben vestita, nel paltoncino maròn. Abbassando gli occhi vide le belle gambe dritte sulle scarpette di serpente, e fu contento e intimidito.

Fine.


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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Ospedale
AUTORE: Pavese, Cesare
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze
TRATTO DA: Racconti / Cesare Pavese. - Torino : Einaudi, [1994]. - 525 p. ; 20 cm.
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)