(voce di Luca Grandelis)
Rimandiamo all’ottimo articolo di Anna Masera, su La Stampa, per l’approfondimento: http://www.lastampa.it/_web/CMSTP/tmplrubriche/giornalisti/grubrica.asp?ID_blog=2&ID_articolo=1239
La nostra opinione al riguardo è comunque molto semplice: il tentativo di dilatare a 95 anni la durata del copyright è un atto da farabutti. Avete presente i delinquenti che rubano e accoppano chi osa opporsi? Ecco, stessa risma, stesse finalità: arricchirsi alle spalle degli altri, approfittando in modo parassitario delle risorse collettive. Di questo si parla.
Il diritto esclusivo di sfruttamento economico su un’opera è un male, che noi accettiamo per incoraggiare artisti e intellettuali a cimentarsi nella produzione di libri, film, ecc. e per garantire loro l’indipendenza economica, che è anche premessa necessaria (ma purtroppo non sufficiente) all’indipendenza di pensiero. E’ comunque un male. Idealmente, tutto ciò che è cultura dovrebbe essere libero.
Non per non pagare l’autore (ribadiamo l’utilità che siano economicamente autosufficienti), ma per consentire all’opera di crescere. Un’opera libera da diritti può essere distribuita (anche a pagamento) da tutti, consentendo concorrenza fra gli editori. Può essere arricchita da qualsiasi apparato critico (innescando una sana competizione tra i curatori più esperti e capaci, nonché più indipendenti e autorevoli). Può essere rielaborata e reinventata, per farne infinite opere derivate (lo sapevate che il “magico mondo Disney” nasce da una rivisitazione brillante e originale dell’opera di Dickens?).
Da qualche decennio però il diritto d’autore non è più diritto d’autore. E’ diritto di multinazionale. La quasi totalità delle opere che leggiamo, ascoltiamo e guardiamo è stato acquistato da 4-5 multinazionali, che vivono idealmente in eterno, e mal sopportano che dopo un certo numero di anni debbano smettere di lucrare su ciò che loro non hanno realizzato, non hanno incoraggiato, non hanno migliorato, ma hanno solo comprato e spremuto oltre il ragionevole, oltre il decoroso, oltre l’umana misura delle cose.
Quando un’opera finisce nel pubblico dominio, invece, si apre alla concorrenza. Tutti la possono stampare, e se l’editore X vuole continuare a vendere bene la sua edizione del libro Y, deve sforzarsi di farla meglio di tutti gli altri editori. Questa concorrenza è ottima per noi consumatori, è ottima per l’economia, perché favorisce le aziende più competenti e più sane, ma è pessima per i farabutti monopolisti.
Che hanno molti soldi, e si comprano i politici come le caramelle al supermercato (chi segue la politica italiana sa molto bene come funziona la compravendita di politici).
I cialtroni farabutti che vogliono derubarci, che vogliono soffocare la concorrenza e l’economia, vanno fermati. Il Parlamento Europeo, istituzione nata a difesa degli interessi del popolo europeo, e non di quatto farabutti, invece di discutere su come dilatare il copyright deve ragionare su come ricondurlo alla ragionevolezza. Deve ragionare su come vietare alle multinazionali i contratti di esclusiva. Micidiale arma con la quale le multinazionali ricattano e sfruttano gli autori [nota 01] (gli stessi autori che ipocritamente dicono di voler difendere con le loro leggi spregiudicate).
Fate girare questa notizia, i farabutti hanno paura del dibattito pubblico. Non è un caso che certe porcate finiscano in Parlamento in piena estate.
Nota 01: il funzionamento del ricatto operato grazie ai contratti di esclusiva è molto semplice: si impone all’autore un contratto capestro, con la promessa di portarlo sotto la propria ala. Ogni gruppo musicale emergente, ogni scrittore, in generale ogni artista o intellettuale sa che o viene distribuito da una multinazionale, o è artisticamente morto. E questa condizione di esclusiva sul mercato non è ottenuta dalle 4-5 multinazionali in virtù della propria superiore efficacia (si pensi a quanto è stata maldestra, incompetente e retrograda la reazione all’avvento della musica digitale), ma grazie a leggi compiacenti, debolezza delle authority per la concorrenza, assenza (se non peggio) della politica.