(voce di SopraPensiero)

«Chiamatemi Ishmael»: chi non ha mai sentito quest’incipit, alzi la mano. Si legge e si rilegge Moby Dick – sfidandone la mole, non solo in senso metaforico – per tanti motivi. Perché è un capolavoro, e di quelli con la maiuscola, non c’è dubbio. Per la musicalità della sua lingua (che conserva, paradossalmente, l’armonia anche quando il suono cede il posto al rumore – come nel ticchettio lancinante, ma ben presto irrinunciabile, del tallone d’avorio del capitano Ahab sul ponte del Pequod). Per la densità dei temi filosofici che affronta: dal confronto con la morte e con le ragioni del vivere (che richiamano istintivamente un altro incipit, quello del Mito di Sisifo di Camus), a quello con l’origine e il mistero. E c’è tanto, tanto altro.
Ancor più volentieri si riscopre tutto questo, quando la traduzione si pone come obiettivo fondamentale – oltre alla fedeltà all’originale, che si dà per scontata (qualunque cosa possa significare questa parola, in un ambito in cui «tradurre» fa sempre rima con «tradire») – quello della più grande fluidità: obiettivo centrato perfettamente da Einaudi, che ha affidato l’arduo compito a Ottavio Fatica – traduttore e insegnante della pratica del tradurre perugino, che ha lavorato per i più grandi editori d’Italia, già vincitore dei premi Mondello e Monselice (nonché del Premio Nazionale per la Traduzione), che ha tra l’altro tradotto le opere di Joseph Conrad, William Faulkner, Henry James e curato quelle di Rudyard Kipling, Flannery O’Connor, Jack London.
L’esito di questa impresa (che non teme il confronto con la «classica» traduzione di Cesare Pavese per Adelphi) è un prodotto di qualità altissima, caratterizzato dall’attenzione verso una resa testuale della massima attualità: spiccano in tal senso la scelta di lasciare intatti i nomi dei protagonisti (del resto non siamo più nell’epoca in cui di traduceva in «Emanuele» il nome di Kant; né siamo più al tempo in cui si ignorava la pronuncia dell’inglese, ragione per la quale era necessario scrivere «Achab»), per cui leggiamo finalmente di Ishmael e di Ahab; e l’assenza di termini desueti e di difficile fruizione.
Per le caratteristiche intrinseche del contenuto, oltre che per le rifiniture del volume, la lettura è fortemente consigliata.


H. Melville, Moby Dick, ed. Einaudi, 2015. Traduzione di Ottavio Fatica.

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Paolo Calabrò
Laureato in scienze dell'informazione e in filosofia, gestisco il sito ufficiale in italiano del filosofo francese Maurice Bellet. Ho collaborato con l'Opera Omnia in italiano di Raimon Panikkar. Sono redattore della rivista online «Filosofia e nuovi sentieri» e membro dell'associazione di scrittori «NapoliNoir». Ho pubblicato in volume i saggi: – Scienza e paranormale nel pensiero di Rupert Sheldrake (Progedit, 2020); – Ivan Illich. Il mondo a misura d'uomo (Pazzini, 2018); – La verità cammina con noi. Introduzione alla filosofia e alla scienza dell'umano di Maurice Bellet (Il Prato, 2014); – Le cose si toccano. Raimon Panikkar e le scienze moderne (Diabasis, 2011) e 5 libri di narrativa noir: – Troppa verità (2021), romanzo noir di Bertoni editore (2021); – L'albergo o del delitto perfetto (2020), sulla manipolazione affettiva e la violenza di genere, edito da Iacobelli; – L'abiezione (2018) e L'intransigenza (2015), romanzi della collana "I gialli del Dio perverso", edita da Il Prato, ispirati alla teologia di Maurice Bellet; – C'è un sole che si muore (Il Prato, 2016), antologia di racconti gialli e noir ambientati a Napoli (e dintorni), curata insieme a Diana Lama.