L’autrice è insegnante di Lettere. Nata a Bergamo, ha studiato a Torino (teatro di alcuni di questi racconti), vive a Lucca. Questo è il suo primo libro: una raccolta di cinque racconti, arricchita da alcune tavole del pittore Romano Masoni. La conosco perché è una collaboratrice della mia rivista d’arte Parliamone. Scrive bene. Una scrittura classica e malinconica alimentata dal ricordo.

L’uomo alla finestra, del primo racconto, voltato di spalle, è un’immagine di desiderio e di aspirazione ad un tempo. Egli guarda oltre la finestra, dove si vedono il mare e degli ulivi degradanti. È un’apertura all’anima, all’infinito. Non a caso il sottotitolo «Reverie su Gustave Caillebotte» richiama un pittore dell’impressionismo. I ricordi, i momenti che gli occhi fermano nel tempo altro non sono che impressioni dell’anima.

I personaggi della Frigerio profumano di un leggiadro romanticismo. In essi vi aleggia una incontaminabile innocenza. Non vi sono lacerazioni destinate a vincere, giacché tutto si ricompone dentro un’età che non è stata mai perduta, quella della giovinezza.

La Filomena che, nel secondo racconto, è ricoverata nella stessa sua cameretta dell’ospedale è strumento analogo a quello rappresentato dall’uomo alla finestra, del primo racconto. Sono ricuciture tese a proteggere l’innocenza: «La Filomena aveva – Padre Pio a parte – una visione totalmente laica della vita e fu per me, nel tempo trascorso con lei, come se avessi vissuto in una novella del Boccaccio, perché lei aveva un’umanità totale che sapeva passare dagli aspetti più infimi della vita, senza timore, senza vergogna, alle vette più alte dello spirito.»

L’amore per una vita riservata, chiusa, quasi del tutto, tra le quattro mura domestiche, nei riguardi del personaggio Eufemia, così come appare nel terzo racconto, «Visita alla vecchia signora», confermano un contatto con la realtà incerto, considerato piuttosto come invasivo e pericoloso. Se in casa capita una vispa cugina, come Dalia, solo allora «riuscivamo a tirar fuori quella parte di noi, più giovane, più allegra che, nella nostra abituale convivenza, restava in gran parte sopita.» Sposata, non è felice con suo marito, ma sente la nostalgia di casa, del fratello Gastone in particolare, con il quale ha condotto una giovinezza raccolta e felice: «Ho proprio la certezza che fossimo felici.»

È un ottimo racconto in cui la scrittura acquista una coloritura multiforme presentando un piccolo microcosmo in cui si annidano molte componenti della vita quotidiana: l’insoddisfazione coniugale, il pettegolezzo, un ipocrita altruismo, la diversità, la falsa e illusoria negligenza del vivere. Eufemia non desidera affacciarsi alla maturità; attende un figlio dal matrimonio contratto con un uomo che non ama, ma anche questa attesa non porta in lei niente di nuovo: «Credeva che un’armonia potesse miracolosamente unire il suo mondo a quello esterno.» Non è così. La frattura con l’adolescenza può diventare netta e irreversibile.

Seppure «rugosa», l’infanzia è lo scrigno in cui l’autrice trova racchiusi tutti i tesori più preziosi della vita. I ricordi di quegli anni ci hanno inconsapevolmente formato e scorrono nel nostro sangue. Da piccola, la protagonista del racconto «L’odore della muffa» (che dà anche il titolo alla raccolta), desiderava fare l’attrice, finché, grandicella, non vede in tv il «Signor Poli», l’attore che con il passare degli anni rimaneva sempre giovane, con una faccia fresca, da eterno bambino, e vuole conoscerlo. Lei ha diciannove anni e se ne innamora. Racconta, in una lunga lettera inviata ad un vecchio amico, questo suo segreto. Fu un amore platonico («ci sono molti modi di fare l’amore»), ma quell’amore è ancora dentro di lei, e dentro la sua «grande casa dove io ormai mi muovo a fatica e dove lui fu solo poche volte, ma che felicità, quelle volte!»

L’autrice continua a cercare l’innocenza, l’incontaminatezza, dispiacendosi di tutto ciò che può averle compromesse. In questo racconto la compagnia di un’anima gemella, come quella del celebre attore Paolo Poli, personaggio chiave della lunga lettera, è il rifugio nel quale ancora è possibile recuperare la sublimazione di un’età che sta divenendo evanescente. Vi si affaccia il pensiero della vecchiaia come occasione anelata per rivolgersi al passato, recuperarlo e riversarlo tutto dentro di sé. I racconti approdano infine – dopo il passaggio della vecchiaia – alla morte, con l’ultimo, «Requiem», che ha qualche contatto con il secondo racconto, «Atto unico». Il marito è disteso sul letto, è morto; la vedova lo osserva, sa che è stato cattivo con lei, ma non riesce a spiegarsi perché ora, guardandolo, ricorda solo le cose belle vissute insieme, specialmente il loro grande amore. Sembra, così, che l’esistenza infelice trascorsa con lui si sciolga a poco a poco per lasciarla entrare dentro un nuovo sogno.

Con questa raccolta, l’autrice fa del vivere un malinconico canto di solitudine. Si potrebbe dire che è proprio verso la solitudine che incammina i suoi personaggi per redimerli, alla ricerca di una purezza che ancora vive dentro di loro.