Il diario dei sogniDopo “La mania dell’alfabeto”, del 2007, Candida torna, a distanza di un anno, con questo “Il diario dei sogni“, edizioni Las Vegas, e con “Domani avrò trent’anni”, editore Eusmewil.
Il diario dei sogni” è il libro di cui ci occuperemo.
Tenere un diario dei propri sogni per capire se stesso e la vita non è cosa facile, giacché non si tratta mai di raccontare, ma di scendere nel ventre delle parole suscitate dalle immagini. La parola è gonfia come una nutrice, pregna dei simboli dei suoi tanti significati. Come servirsene utilmente e senza sbagliare? È possibile?
Che Candida abbia un vero culto per la parola è ormai una qualità già appurata nel romanzo di esordio, che sin dal titolo fa capire questa passione, al limite della mania. Ma anche nelle prime pagine del “Diario” troviamo: “probabilmente non lo so nemmeno più io a quante rinunce sono andato incontro, per rimanere in casa a scrivere”. La scrittura di Candida è, dunque, senza dubbio, il frutto di una fede, di una devozione.
Lo scrittore Giulio Mozzi lo ha scoperto e gli ha pubblicato per Sironi il romanzo di esordio. Non è un caso. Vi è una qualche somiglianza tra Mozzi e Candida e sta nel puntiglio e nella cura dei particolari, nel gioco ripetitivo, quasi morboso, dei contrasti tra finzione e realtà, colto nel momento in cui esse stanno per congiungersi e spietatamente si dividono. Allo stesso modo che accade tra Marco e Verino, tra Veronica e Monica, tra Mattia e Marcello (ove il loro rapporto è quello di essere uni e distinti, e lo si vedrà bene alle pagine rispettivamente 155, 109 e 165/169). Si noti pure, nella narrazione, il rapporto rovesciato Verino/Veronica e Marco/Monica, i quali congiungono e accoppiano finzione e realtà. Se Mozzi è senza dubbio un punto di riferimento per il giovane Candida, certo è che vi è una corrispondenza molto spontanea e naturale. Il loro, ossia, è un incontro scritto nelle cose. Il sogno del 25 dicembre 2006, che troviamo a metà del libro, che vede protagonisti Marcello e Monica, e il successivo sogno dell’amico Gioacchino del 31 marzo 2007, in cui Marco va in giro con una Opel corsa 1400 appena comprata, sono un altro bell’esempio di questa affinità.
L’operazione che si prefigge l’autore appare ben descritta in questa nota, la cui costruzione stilistica può essere anche un ulteriore esempio della parentela con lo scrittore padovano, di cui si diceva: “Le scritte stanno sulle pareti, dentro i quadri e sulle porte per il verso corretto, ma ai miei occhi appaiono voltate nel senso contrario. Io so – sono consapevole di questo – che le scritte stanno sulle pareti, dentro i quadri e sulle porte per il verso corretto, ma contemporaneamente non posso che leggerle alla rovescia – e se voglio interpretarle non posso che farlo rivoltandole dentro la mente.”
Non è, dunque, un puro esercizio di scrittura, questo libro, o una specie di vanitoso esperimento, ma una dolorosa analisi della sfida che la realtà pone ad ogni essere umano, in modo mai uguale, e sempre rivolta alle specificità, alle debolezze, alle paure, alla visionarietà del singolo. Vi è rappresentato lo smarrimento di chi riesce ad intuire e ad accorgersi di questa sfida, di fronte alla quale misura la sua insufficienza. È la tortura dell’impotenza di fronte alle astuzie, ai sadismi, agli specchi deformanti, alle lusinghe, agli inganni della realtà. Con questi strumenti, che non possono mai trovare un riscontro della stessa perversione ed intensità nell’essere umano, la realtà cattura e impegna in un corpo a corpo impari, colui che, per le sue speciali doti di percezione e di sensibilità, riesce a varcare la soglia dell’ordinario. È forse la sfida più minacciosa e terribile a cui l’uomo possa andare incontro. In mezzo alla moltitudine che non avverte nulla di tutto ciò e passa indenne perché scartata, ecco che ci sono uomini che ogni giorno sostengono una tale sfida dolorosa e all’ultimo sangue. Candida ce la rappresenta affinché anche noi che non la conoscevamo, ne siamo fatti partecipi.
Scopriamo così che i temi che si pone l’autore con queste sue prime opere, non sono mai banali, e affrontano il disagio dell’uomo laddove è più spietato e sanguinante: nell’intimo più nascosto, riservato e forse anche inconfessabile.
Nell’accudire e approfondire il personale culto della parola, ossia del suo valore di rappresentazione e di comunicazione, l’autore arriva perfino a prospettarne il superamento con l’accedere ad un linguaggio universale da tutti compreso. L’alternativa che pone è quella del ricorso ai numeri: “si potrebbero utilizzare i numeri al posto delle parole.” e arrivare così ad “una lingua perfetta a base numerica e non alfabetica.”
La scoperta di un linguaggio comune creerebbe una nuova solidarietà tra gli uomini, un avvicinamento delle solitudini, una forza più consona e vigorosa per sopravvivere.
Allineato a questo obiettivo sta l’altro legato ad una storia d’amore e di tradimenti, che è una storia a senso unico, dato che Verino/Marco è stato ingannato sin dal primo momento dalla sua ragazza, di nome Veronica, che si propone soltanto di “facciamolo diventare matto, hai detto nel quarto mese di frequentazione con Marco, nel letto del suo migliore amico”.
Una comunicabilità, quindi, tra esseri umani, inceppata, frastornata, fatta di incomprensione, di possessione e perfino di cattiveria: “Marco appartiene a quel tipo di persone, come tu dici, quelle persone che assorbono tutto l’odio del mondo, che si attirano tutte le forme di antipatia, quel tipo di persone che si prendono tutto il male delle altre persone, che ricevono ovunque e da tutti del male.”

Ci sono persone che ti vogliono fare la festa è un’espressione presente nel diario, scritta a caratteri rovesciati come in uno specchio (il sogno non è forse uno specchio di ciò che siamo?) ed è significativa del modo antagonistico in cui l’autore pone il se stesso protagonista di fronte alla realtà.
Viene in mente il doloroso convincimento espresso, in un contesto assai diverso, dallo scrittore lucchese Guglielmo Petroni nel suo capolavoro “Il mondo è una prigione”, secondo il quale non ci sono speranze di sfuggire la propria solitudine per conquistare la partecipazione e la solidarietà degli altri.
E il sogno? Che cosa rappresenta per l’autore? La chiave per capire la propria esistenza, costruita dall’insieme delle parole che compongono e raffigurano il sogno.
Parole e sogno, dunque, sono l’universo formativo e interpretativo con cui è possibile appropriarsi della propria vita. Dopo “La mania per l’alfabeto” è, ancora una volta, un’opera di forte ricerca, di ansia e di smarrimento, quella che ci presenta Candida: “il diario di una persona che si racconta attraverso l’affresco deformato dei suoi sogni”; “i sogni possono costituire un metro per farsi un’idea precisa su una persona – forse addirittura per entrare completamente dentro a quella persona.”
Significativo a proposito il primo dei due sogni del 6 aprile 2006 (quello dello Zingarelli, il dizionario, e del cane di stoffa dai quali estrae oggetti e persone, un’immagine che si ripeterà alla fine nei confronti dello stesso diario, in cui – al contrario questa volta – farà entrare, anziché uscire, oggetti e persone).
Caos e confusione potranno mai trasformarsi in ordine e cognizione di sé?
A Candida non interessa, come non gli è interessato ne “La mania per l’alfabeto”, raccontare una storia per filo e per segno, con magari una forte presa sui lettori, così come si usa fare oggi per accaparrarsi il mercato e ingraziarsi le influenti Case editrici; piuttosto è interessato a mettere sossopra la propria mente a mo’ di cavia, assumendosene in prima persona tutti i rischi, affinché il bizzarro e complesso mistero che governa il rapporto dell’uomo con se stesso e con gli altri uomini venga aggredito senza quartiere e, uscendo allo scoperto, pur forse vincendoci, il mistero sia costretto ad offrire a tutti noi la possibilità di conoscerlo e misurarlo.
Una delle manifestazioni più subdole e pericolose del mistero è l’insicurezza che ci prende di fronte alla vita che gira intorno a noi. Basterebbe convincerci che il disordine che ci appare è solo “apparente […], sembra disordine, ma tu sai dove stanno le cose, le controlli talmente, le hai talmente dentro di te, (sono una parte di te), non hai bisogno di tenerle in ordine, in un ordine comprensibile a un terzo, perché ordinare è un po’ disinteressarti, non sentire più le cose dentro, invece non hai bisogno di fare questo, (sono una parte di te), le tue cose respirano con te, e se una scompare, appena scompare, lo senti, come sentiresti se ti tagliassero i capelli o le unghie, a volte come se ti tagliassero un piede.”
Ma non è facile giacché si devono combattere “i cani [che] ti abbaiano dagli angoli del cervello – forse è dal tuo cervello che si aprono le bocche e cominciano ad abbaiare”. La condizione precaria in cui la società di oggi ha gettato l’uomo, e più ancora i giovani, senza lavoro e senza un futuro, è l’humus in cui il mostro che digrigna i denti dentro la nostra testa trova la forza di confonderci e di smarrirci. La debolezza dell’uomo si moltiplica sempre allorché la società contribuisce ad accrescere il mostro che si annida dentro ciascuno di noi.
Che cosa abbia spinto l’autore a comporre un’opera che, mediata dal sogno, in realtà si presenta come una feroce diagnosi della condizione individuale nella società moderna, lo dice lo stesso autore nella nota posta al termine del libro. Sembra un paradosso, e non lo è: è il desiderio di amore, quell’amore che è il solo che abbia la chiave magica per rimettere equilibrio ed ordine in noi stessi e nel mondo.

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