Nativo di Fano (Pesaro, 1934 – 1996), come il più anziano Fabio Tombari (morto nel 1989), come Giuseppe Bonura (indimenticabile il suo “La ragazza dalla luna storta”) e come il mio amico Lucio Angelini, autore di fiabe e traduttore in Italia per l’editore Fazi di alcuni romanzi di Hans Christian Andersen (qui troverete stralci di lettere indirizzategli da Anselmi), l’autore fanese fu uno scrittore prolifico e giornalista. Tra le sue opere meritano di essere ricordate “L’epistolario” di Marcel Proust, di cui fu curatore e un ritratto biografico di Georges Simenon, al quale si sentì molto legato. Il commissario Boffa è la sua creatura più celebre, presente nei suoi libri, ambientati nella cittadina marchigiana. Alcuni titoli: “Niente sulla piazza” del 1960, “Gramignano”, 1967, “Un viaggio”, 1969; “Il caso Lolli”, 1970, “L’ospite”, 1971, “Il Palazzaccio”, 1972, “Piazza degli Armeni”, 1982, vincitore del Premio Pisa.
“Il fantasma Maratéa” è del 1971.
Come avviene nei romanzi di Conan Doyle, le indagini del commissario Boffa sono raccontate dal suo assistente: là è il dottor Watson, qui un amico antiquario che resterà senza nome.
La scrittura è secca, non ha fronzoli o sbavature: perentoria. Certi passaggi sono eliminati, per cui, ad esempio, se Boffa decide di andare dalla vedova Maratéa, una riga più sotto si trova già in casa sua. I personaggi, pure essi, sono descritti nella loro essenzialità. Boffa, in fatto di cultura, ne sa poco. Nella casa della vittima (il professore Giuseppe Maratéa, insegnante di fisica e matematica al liceo, uscito di casa il giorno dopo Ferragosto per comprare un pacchetto di sigarette e rinvenuto cadavere il 2 settembre, portato sulla spiaggia da una barca di pescatori) c’è un libro di Stendhal, “Luciano Leuwen”, e Boffa domanda al suo compagno chi sia questo Stendhal. Tuttavia conosce Balzac.
Come succede nei gialli, le indagini stentano in principio per poi delineare un percorso assai più preciso, che infine condurrà alla verità.
Boffa è un commissario brusco, grasso, con un testone che agita ogni tanto, sbuffa, è impaziente. L’amico che gli fa da spalla è una specie di parafulmine e di suggeritore della strategia dell’indagine. Ovviamente, il commissario è convinto di fare tutto da sé, di dovere tutto al suo acume. L’amico glielo lascia credere. Il loro legame è nato dalla stima e dalla simpatia reciproca. Nei gialli, spesso sono le coppie che ne decretano il successo, più che la trama dei delitti. Sherlock Holmes e il dottor Watson sono forse la coppia più celebre in letteratura. Anche Maigret e la moglie, lo sono. Al cinema una coppia celebre è quella del tenente Colombo e sua moglie, che nessuno ha mai veduto, né se ne conosce il nome.
Anselmi batte le stesse strade. C’è la coppia, e in più c’è la trama asciutta, in sintonia con la scrittura. Poco sangue viene immesso nelle vene dei personaggi, niente emerge della loro vita fuori dall’ambito ristretto delle indagini.
Ci sono autori che arricchiscono la storia con divagazioni di varia natura, spesso divertenti, finalizzate ad allentare il clima teso della narrazione, a concedere un momento di relax al lettore. Anselmi non è tra questi. La trama è diretta alla sola finalità possibile della storia: conoscere la verità. Un uomo è stato ripescato cadavere su una spiaggia del litorale Adriatico, e a questo punto niente più conta della realtà se non la scoperta di che cosa abbia determinato quel fatto.
Anselmi, però, con la verità ama giocarci. La fa apparire e sparire. La verità può anche confonderci, può anche lasciare tracce di una mascheratura che viene scambiata per verità. E quando, alla fine la verità si manifesta per ciò che è realmente, la mascheratura resta, ne ha preso il posto presso la gente e nessuno riuscirà a scalzarla mai più. La verità allora paga un po’ la sua sicurezza e la sua superbia, si affermerà, infatti, solo presso i pochi privilegiati, in questo caso il commissario Boffa e il suoi più stretti collaboratori, e dovrà accontentarsi di uno spazio tanto minimo quanto inatteso.