L’isola dell’aepyornis.nota 1
di
H. G. Wells
tempo di lettura: 17 minuti
— Delle orchidee? – mi chiese l’uomo dal viso sfregiato E incominciò a osservare attentamente i fiori che avevo deposto sul tavolo.
— Sì.
— Dei cypripediums?nota 2
— Sì, qualche cypripediums.
— E qualche specie nuova? Ne sarei stupito, perchè or sono venticinque anni, anzi, ventisette anni, ho visitato da cima a fondo quell’isola e non vi ho lasciato gran che!
— Ma non saprei dirvi…. Del resto io non sono cultore di queste piante.
— Io ero giovane, – seguitò a dire quell’altro, – mio Dio! e come! Ero giovane e robusto! Ero stato due anni nelle Indie Orientali, sette anni nel Brasile e quindi nell’isola di Madagascar. Vi ero andato per conto di Dawsons….nota 3 A proposito, non avete mai sentito parlare di un certo Butcher?
— Butcher? Butcher?
Quel nome non mi parve nuovo; pensai un poco, indi mi ricordai perfettamente ed esclamai:
— Come! foste voi che naufragaste sopra un’isola deserta e vi rimaneste quattro anni?
— Precisamente!
— Narratemi un po’ come vi successero tante peripezie.
— Volentieri…. Avete mai udito parlare di aepyornis?
— Un poco. Ho sentito dire che, ultimamente, hanno trovato un femore di quell’animale. Pare che quell’osso misurasse un metro di lunghezza! L’animale doveva essere un vero mostro gigantesco!
— Lo credo! Era un mostro enorme! Ma quand’è che fu trovato quel femore?
— Due o tre anni or sono…. E perchè mi chiedete ciò?
— Perchè? Mio Dio! perchè venticinque anni or sono io ho fatto la medesima scoperta! E credo, anzi sono certo che sarà stato nello stesso luogo, cioè in una specie di stagno a novanta miglia circa al nord di Atanarivo. Conoscete quei posti? Vi si va in barca costeggiando l’isola. Ve ne ricordate forse?
— No, non me ne ricordo; ma mi hanno detto che fu trovato il femore in uno stagno.
— Sarà precisamente il medesimo stagno da me visitato. Sapete anche se hanno trovato delle uova? Io ne trovai parecchie. Alcune avevano circa un piede e mezzo di lunghezza! Mi ricordo benissimo che eravamo in una barca, – in una di quelle così dette piroghe, – io e due indigeni. Scandagliavamo il fondo dello stagno con lunghe bacchette di ferro per trovare le uova. Generalmente l’uovo si trova rotto e quasi mai intero. Chissà quanto tempo è trascorso dal giorno in cui vivevano questi aepyornis! Noi avemmo la fortuna di trovare delle uova intere. Sì, intere, e, vi assicuro, fresche come se fossero state fatte in quell’istante! Perchè dovete sapere che uno dei miei indigeni ruppe un uovo lasciandolo sbadatamente cadere sopra un sasso. Ebbene, l’uovo era freschissimo! Non il minimo odore. E sì che la femmina doveva essere morta da almeno quattrocento anni! Naturalmente maltrattai quell’imbecille di indigeno, che si scusò dicendomi che un miriapodonota 4 l’aveva morso, ad una mano, e dal dolore aveva lasciato cadere l’uovo. Fortunatamente ne trovammo ancora delle altre intere; e secondo me, furono le sole ed uniche fino a quel giorno, ed anche fino ad oggi! Perchè quando, molti anni più tardi, andai a Londra e visitai il Museo di Zoologia, vidi bensì delle uova di aepyornis, ma in quale stato! La più parte erano rotte, ed a quelle poche intere ne erano stati a bella posta incollati i vari pezzi. Mentre quelle da me trovate erano perfettamente sane!
— E che cosa ne avete fatto di quelle uova? – gli chiesi finalmente.
— Qui sta appunto il lato più strano del mio racconto, – mi rispose l’uomo dal viso sfregiato. – Mi rimanevano ancora tre uova perfettamente sane e fresche. Le deponemmo in fondo alla barca e sbarcammo sulla spiaggia vicino alla nostra tenda per preparare un po’ di caffè. Mi ricordo che ero intento a far bollire dell’acqua colla mia lampadina a spirito. È una cosa che ho sempre fatto da me stesso in tutte le mie numerose spedizioni. Guardai per caso lo stagno illuminato dagli ultimi raggi del sole di ponente, e mentre ero assorto ad ammirare i riflessi sanguigni nell’acqua, immobile e nerastra, fui scosso da un rumore strano dietro di me. Mi voltai rapidamente e vidi i miei due indigeni nella piroga, distanti forse venti metri dalla spiaggia, che si allontanavano remando. Capii subito la loro intenzione. Essi volevano abbandonarmi lasciandomi solamente il vitto per tre giorni, un bariletto d’acqua ed una tenda di tela! E il mio fucile era appunto sotto la tenda; ma anche se l’avessi avuto lì sotto le mani, non mi avrebbe servito gran che, perchè non avevo più cartuccie a palla. Me ne erano rimaste solamente di quelle a pallini. Fortunatamente avevo in tasca una piccola rivoltella; la estrassi rapidamente e mi avviai di corsa sulla spiaggia urlando a squarciagola: «Tornate indietro! tornate indietro!» Ma quei due birbanti non solo non mi davano retta, ma si facevano beffe di me, ridendo e gesticolando. Presi di mira quello che teneva il remo, sparai, ma il colpo fallì. E quelli a ridere sgangheratamente! Sparai un secondo colpo e vidi il mio uomo trasalire. Non rideva più! Sparai un terzo colpo, e questa volta la palla andò a segno perchè l’indigeno cadde nell’acqua, e con esso il remo. Per un colpo di rivoltella, a quaranta metri di distanza, era un bel colpo! Non so se morì affogato o ucciso dalla mia arma, il fatto si è che sparì nell’acqua, e più non lo rividi. Urlai allora, al superstite di ritornare a riva senza perdere tempo; ma invano, perchè non ebbi nessuna risposta. Sparai inutilmente due o tre colpi ed incominciai a capire che lì facevo una gran figura da imbecille! Solo, come un cane sopra un isolotto, avevo alle spalle l’immensa palude; davanti, il mare e quella piroga che seguitava ad allontanarsi da me. Davvero che non c’era da stare allegri! Urlai a perdifiato, e dopo aver ben urlato mi buttai in acqua, fermamente deciso di raggiungere a nuoto quella maledetta piroga. Nuotai con tutta forza, tenendo fra i denti il mio coltello da caccia. Dopo sforzi inauditi, raggiunsi finalmente la barca. E questa mi apparve nera nera in mezzo al mare fosforescente e luminoso. Il sole era già calato da parecchio tempo, e quelle miriadi di bestioline luminose davano all’acqua un aspetto come di un’immensa estensione di fuoco liquido e movente. Entrai cautamente, nella barca dalla parte di poppa; il negro rimasto era a prua e pareva addormentato. Nondimeno afferrai il mio coltello pronto a qualunque attacco da parte del nemico. Ma questi non si mosse nè parve accorgersi della mia presenza nella piroga.
«Dopo un po’ di tempo, vedendo che egli non si svegliava, incominciai a chiamarlo per nome. Non si mosse, ed io, troppo stanco per espormi al rischio di destarlo e forse lottare con lui, mi addormentai affranto dallo sforzo che avevo fatto nel nuotare. Quando mi svegliai, dopo circa due ore, mi accorsi che il mio compagno era morto. Ai piedi suoi stavano le tre uova dell’aepyornis e qualche ossa, un bariletto di acqua dolce, un po’ di caffè in una scatola aperta e qualche biscotto incartato nel *Giornale del Capo*. Più in là, in mezzo alla barca, un recipiente pieno di spirito. Osservai attentamente il morto e vidi che aveva la faccia stranamente gonfia e violacea. Conclusi che la sua morte doveva essere stata cagionata da qualche serpente o scorpione, oppure da qualche miriapodo. Senza por tempo in mezzo, afferrai quel cadavere inutile e lo buttai in mare. Mi rifocillai con un biscotto e un po’ d’acqua del bariletto, e incominciai ad osservare intorno a me. Ero in mezzo al mare, tranquillo come l’olio, ma nulla mi si presentava alla vista. Nè terra, nè bastimenti, nè roccia, nè vela. Dove diavolo era io dunque? Vi accerto che non provai molta gioia nel vedermi in tal modo abbandonato in mezzo all’Oceano! Ed almeno avessi avuto un remo! Questo prezioso istrumento era sparito in acqua col mio primo negro! In che direzione poteva dunque essere l’isola di Madagascar?
«Passai una notte davvero poco gradevole in quella piroga, e quando venne l’alba e il sole incominciò a dardeggiare, mi trovai nell’identica posizione del giorno prima: mare da tutte le parti, mare tranquillo come l’olio, ma niente in vista. E il sole diventava insopportabile! Dio mio! Credetti a un punto che il mio cervello incominciasse a cuocere. Mi bagnai la testa con l’acqua di mare, e i miei sguardi caddero sul *Giornale del Capo*. Mi sdraiai allora in fondo alla barca e cominciai a leggere, facendomi schermo con quel foglio dai cocenti raggi del sole tropicale. Benedetto giornale! Mai mi era successo fino a quel giorno di leggere così attentamente. Figuratevi che lessi quel vecchio giornale almeno una ventina di volte, tanto per passare il tempo! Nella barca il catrame incominciava a scaldarsi ed a fumare, tanto era il calore, ed io credetti varie volte di morire. Lo credereste? Per dieci giorni e dieci notti vagai in mezzo all’Oceano in quella piroga. È cosa da nulla il narrare queste cose; ma vi accerto che ogni giorno mi parve l’ultimo della mia esistenza! Il sesto giorno una nave a vapore mi passò poco distante. Mi ricordo che a bordo di quella nave suonava una musica allegra. Gridai, feci dei segnali, ma nessuno mi vide. Passai gli altri giorni non so come, nutrendomi con i pochi biscotti rimasti. Finalmente, non avendo più provviste, mi decisi a mangiare un uovo. Infatti ne ruppi uno ed avidamente ne ingoiai il contenuto. Non posso dirvi che fosse squisito, oh no di certo! Ma non era il caso di fare lo smorfioso. Quando nell’ottavo giorno, ruppi il secondo uovo, fui colpito di meraviglia e di spavento. Sì, di spavento! Perchè se pensaste che quelle uova erano rimaste per ben trecento anni in mezzo al fango della palude, e se vi dicessi che appena rotto il guscio mi apparve la testa di un uccello vivo, voi sareste al pari di me colpito dalla paura! Eppure non m’ingannai. I miei occhi videro bene. Avevo davanti a me, in mezzo a quell’uovo, un pulcino vivo e sano! E che pulcino! grosso come una grossa gallina! Ed era nato lì, in mezzo all’Oceano Indiano, in fondo ad una piroga, dopo trecento anni almeno d’incubazione!! Ah! se il vecchio Dawsons l’avesse saputo!
«Per mia fortuna, dopo il decimo giorno (vissi gli altri due giorni mangiando il terzo uovo), per mia fortuna, dico, scorsi finalmente un isolotto. Alla meglio, vogando colle mani, mi avvicinai a quella terra per me benedetta, e dopo molti sforzi potei sbarcare sopra una di quelle isole formate da un banco di corallo, lungo circa quattro miglia e largo due, con qualche albero, una sorgente d’acqua dolce e con molti frutti marini sulla spiaggia. Com’è triste però un banco di corallo! Quando ero bambino non potevo immaginare nulla di più dilettevole delle avventure di Robinson Crusoè; ma l’isolotto sul quale ero sbarcato mi parve triste e monotono al pari di un libro di prediche!
«Andai in giro cercando qualcosa da mangiare e ragionando. Ma prima che terminasse il primo giorno ero già annoiato a morte. Pareva destino! lo stesso giorno che sbarcai il tempo cambiò. Un temporale veniva dal nord spingendosi verso l’isolotto, e durante la notte si scatenò un vero diluvio, una rumorosa tempesta! Come potete immaginare, non occorse molto tempo per capovolgere il mio canotto.
«Io dormivo sul canotto e l’uovo stava fortunatamente nella sabbia più alta, sulla spiaggia. La prima cosa che mi ricordo fu un rumore come di un centinaio di pietre, scagliate contro il battello; poi una colonna d’acqua mi passò sul corpo. Stavo sognando in quel momento di Atanarivo; mi alzai e mi voltai verso la dea Intoshi per domandarle che diavolo accadeva; nello stesso tempo mi precipitai sulla sedia ove, a casa mia, si trovavano ordinariamente i fiammiferi. Soltanto allora mi ricordai dove mi trovavo. C’erano come dei vaghi esseri fosforescenti che mi gironzavano attorno come per mangiarmi; tutt’intorno invece la notte era nera come inchiostro. Il vento soffiava dolcemente, le nubi bassissime parevano essere quasi sul mio capo, e la pioggia imperversava come se il cielo si fosse aperto.
«Io ero inquieto sulle sorti dell’uovo e lo cercai a tastoni. Nonostante le furiose ondate era ben conservato. Dio! che notte! Prima che spuntasse il giorno l’uragano cessò. Nessuna traccia di nubi nel cielo quando sorse l’aurora, qua e là sulla spiaggia eranvi dei pezzi di legno o, per meglio dire, lo scheletro del mio povero canotto. Tuttavia ciò mi diede qualche occupazione perchè, approfittando di tali pezzi di legno, costrussi con essi una specie di ricovero contro la tempesta. E in quel giorno l’uccello uscì completamente dall’uovo!
«Sì, signore! e mentre io stavo dormendo! Udii un colpo vigoroso, distinsi un lieve garrito, e mi alzai. Era il pulcino che fuori dall’uovo completamente e con una piccola testa scura mi guardava come in atto di curiosità.
«— Oh! – esclamai, – siate il benvenuto!
«Era veramente una bella e buona bestiola, della grossezza all’incirca di una piccola gallina, rassomigliante molto alla maggior parte degli altri piccoli uccelli, ma un po’ più grossa.
«Aveva, la lanuggine scura ed un leggero strato di penne. Non posso dirvi come ero contento di vedere quella bestia. Certamente Robinson Crusoè non ha fatto parlar abbastanza della sua solitudine. Io almeno avevo un compagno interessante. Mi guardava strizzando gli occhi col capo rivolto indietro come una gallina, pigolò e si mise subito a beccare qua e là come se non fosse successo niente all’infuori di essere nato con trecento anni di ritardo!
«Fortunatissimo di vedervi, signor Venerdì,– gli dissi, perchè avevo naturalmente scelto questo nome. Non ero però senza pensieri per il suo nutrimento; gli diedi subito dei pesciolini. Li mangiò, ed aprì il suo becco per chiederne ancora. Io ne fui contento, perchè se fosse stato capriccioso, non avrei avuto altro da fare che mangiarlo.
«Voi non potete immaginare che interessante animale era quel pulcino di aepyornis. Si mise a seguirmi fin dal primo giorno, mi stava ordinariamente a lato mentre pescavo, come per assicurarsi di aver la sua parte di tutto quanto potevo prendere. Ed era anche delicato di gusto! Sicuro! Sulla spiaggia vi erano spesso dei piccoli vermi verdi come citrioli conservati; egli ne assaggiò uno; ma lo gettò subito via; da allora in poi non si degnò più di guardare un tal genere di cibo. Ingrossava a vista d’occhio. Siccome io non fui mai molto socievole, la sua tranquillità e la sua affezione per me mi piacquero in un modo meraviglioso; dopo circa due anni noi eravamo completamente felici come si poteva esserlo in quell’isola. Là io non avevo da pensare menomamente agli affari, perchè i miei stipendi venivano regolati da Dawsons. Rare volte vedemmo qualche nave; ma nessuno approdò. Mi divertivo ad adornare il mio dominio con dei ricci di mare e dei gusci di tartaruga di varii disegni e forme.
«Scrissi «Isola d’Aepyornis» a caratteri cubitali tutt’intorno a quello spazio ristretto, precisamente come si vede in Inghilterra, nelle stazioni ferroviarie.
«Ma la maggior parte del mio tempo era impiegata a sorvegliare quel benedetto uccello che gironzava sempre e cresceva, cresceva….
«Perchè dovete pensare che, una volta che fossi uscito da quell’isola, avrei potuto trarre da lui il mio sostentamento, esponendolo qua e là nelle fiere. Dopo aver cambiato il primo pelo, divenne grazioso, gli spuntò una cresta e un bel pizzo verdognolo, non che un bel ciuffo di penne verdi sul dorso. Ed io chiedeva a me stesso se Dawsons avrebbe avuto o no qualche diritto di reclamarlo. Durante i giorni di uragano e di stagione piovosa, noi stavamo rinchiusi sotto l’asilo che avevo costrutto colle tavole del vecchio canotto. E gli parlavo di casa mia e dei miei amici. Dopo una tempesta facevamo insieme un giro attorno all’isola per vedere se vi era qualche resto di naufragio. Era, insomma, una specie di idillio. Se avessi avuto soltanto un po’ di tabacco, sarebbe stato semplicemente un paradiso.
«Però, alla fine circa del secondo anno, il nostro piccolo paradiso divenne meno piacevole. Venerdì era alto circa quattordici piedi fino al becco, con una testa grossa e larga quanto una zappa, e due occhi neri cerchiati di giallo disposti come quelli di un uomo, anzichè dai lati della testa come le galline. Le sue piume erano sottilissime, – non come quelle da mezzo lutto dello struzzo, – ma molto somiglianti per forma e per colore a quelle del casoaro. Incominciò prima di tutto a ribellarsi, a prendere un tono insolente e a manifestare le traccie di un cattivo carattere. Infine, un giorno in cui la mia pesca era stata infruttuosa, venne vicino a me in un modo assai strano che mi dette da pensare. Dubitai allora che avesse mangiato dei citrioli marini o qualcos’altro di cattivo: in realtà invece era malcontento di me, e mi manifestava la sua collera in tal modo. Anch’io però ero affamato, e quando finalmente presi un pesce, credetti di poterlo riservare per me. Quel mattino il nostro umore non era buono, sia da una parte che dall’altra. Venerdì colpì il pesce col becco e se ne impossessò, ed io lo colpii alla testa por fargli abbandonare la preda,. Allora egli si rivolse contro di me.
«Ed ecco cosa mi fece sul viso (l’uomo mi indicava la cicatrice). Poscia mi diede delle zampate che erano come calci di cavallo; io mi alzai, e vedendo che non intendeva finirla, fuggii proteggendo il mio volto colle braccia incrociate. Egli mi inseguì correndo goffamente ma più veloce di un cavallo da corsa, e mi diede sulla testa, alcune pedate forti come colpi di martello. Mi diressi allora verso il mare e mi vi immersi fino al collo. Egli si fermò perchè aveva orrore di bagnarsi i piedi, e cominciò a fare un chiasso simile a quello di un pavone in collera, ma con voce più rauca. Poi si allontanò lungo la spiaggia pavoneggiandosi. Riconobbi che francamente mi sentivo meschino davanti a quel diavolo fossile che mi signoreggiava! Grondavo sangue dal capo, dal viso, e, cospetto! il mio corpo non era più che un ammasso di ferite. Decisi di avanzarmi verso la maremma e di lasciarlo solo per un po’, fino a che la sua collera si fosse calmata. Mi arrampicai sul più alto dei palmizii, mi sedetti sopra un ramo, e ripensai a quanto era successo. Non credo di aver mai provato nè prima nè dopo un tal dolore. Dolore morale più che fisico, poichè era l’ingratitudine della creatura verso il suo benefattore! Io ero stato più che un fratello per quell’uccello, io l’avevo, dirò così, covato e l’avevo allevato. Un uccello oltremodo sciocco! Ed io, un essere umano, erede del secolo scorso!… Mah! Poi pensai che lui stesso penserebbe come me e si rammaricherebbe della sua condotta. Mi domandai se dovevo prendere alcuni pesci e andarglieli a porgere con indifferenza; ciò potrebbe fargli buona impressione. Mi occorse molto tempo per convincermi come possa essere implacabile e ritroso un uccello di razza estinta…. Che rancore! Non voglio raccontarvi tutti i piccoli stratagemmi che dovetti usare per lusingarlo; non lo potrei. Ancora adesso mi viene la collera pensando ai colpi e alle zampate ricevute da quella curiosità infernale. Provai la violenza. Gli lanciai da lontano dei pezzi di corallo, ma egli non fece altro che inghiottirli. Provai a prenderlo colla fame, e cessai di pescare. Ma egli trovò sulla spiaggia a bassa marea dei vermi da ingoiare, e continuò a vivere in tal modo discretamente. Metà del mio tempo lo trascorrevo immerso nell’acqua fino al collo, e il rimanente in cima ai palmizii. Uno di quegli alberi era alto sufficientemente perchè l’animale, appena scortomi arrampicato, potesse venire a divertirsi a danno dei miei polpacci. Ciò divenne insopportabile; io non so se avete mai provato a dormire su un palmizio; ciò mi cagionava delle tremende visioni. Pensate anche al ridicolo! Ecco dunque il rappresentante di una razza estinta regnare come un despota nella mia isola, non permettendomi di por piede a terra. Più volte piansi di dispetto e di rabbia. Gli dissi che non intendevo essere perseguitato oltre da quel maledetto anacronismo nella mia isola deserta. Gli dicevo di andare a beccare ed annoiare i naviganti della sua epoca; ma egli per tutta risposta faceva stridere il suo becco. Oh! l’orribile uccello tutto gambe e collo!
«Non voglio dirvi quanto tempo continuò quello stato di cose. Ah! certamente se avessi potuto trovare il mezzo l’avrei ammazzato! Tuttavia immaginai finalmente un mezzo per effettuare il mio progetto.
«Questo mezzo era il laccio dell’America del Sud. Legai capo a capo tutte le mie lenze con dei filamenti di alghe marine, e feci una forte corda lunga circa dodici metri, attaccandovi alla estremità due pezzi di corallo. Ciò naturalmente mi tenne occupato per molto tempo, perchè stavo rifugiato a volte nell’acqua, a volte sugli alberi, a mio talento, cioè a talento di quel demonio. Un giorno appunto che stavo nell’acqua, lanciai con forza il mio laccio contro il nemico. La prima volta il colpo fallì; ma la seconda la corda aggrappò le gambe e vi si avvolse attorno perfettamente. L’animale barcollò. Lo trascinai allora nell’acqua, e quando vi fu giunto fino a metà corpo, cadde, si annegò, e gli tagliai il collo col mio coltello, per finirlo completamente. Ancor adesso il solo pensarvi mi rattrista. Mentre compievo tale lavoro, mi consideravo come un assassino, quantunque la mia collera fosse realmente violenta. Quando balzai su lui, quando vidi il suo sangue sulla bianca rena, le sue belle e grosse gambe ed il suo collo scuotersi per l’agonia…. ah!…
***
«Dopo quel dramma la noia della solitudine mi opprimeva come una maledizione. Ma voi non potete immaginare il vuoto che mi lasciò. Mi sedetti sul suo corpo, piansi su lui, tremavo volgendo lo sguardo intorno al mio isolotto silenzioso e desolato. Mi ricordai che bellezza di uccellino era quando uscì dall’uovo, e come mi aveva allettato colla sua graziosa astuzia. Forse risparmiandogli la morte avrei potuto ricondurlo a sentimenti migliori! Se avessi potuto scavare una fossa nel mio banco di coralli l’avrei sepolto; ero profondamente commosso come se fosse stato un uomo…. tanto è vero che non potevo decidermi a mangiarlo. Lo buttai nella maremma, dove i pesci vennero a sbranarlo poco per volta. Non salvai nemmeno le penne.
«Accadde in seguito che un individuo il cui battello navigava dalle mie parti, ebbe la fantasia di vedere se il mio isolotto esisteva sempre: non venne troppo presto perchè io era desolatissimo, ed esitavo soltanto se dovevo buttarmi in mare e finire in tal modo la mia esistenza, oppure mangiare i piccoli vermi verdi.
«Io vendetti le ossa dell’uccello ad un negoziante chiamato Winslow, abitante vicino al British Museum, ed egli dice di averle rivendute al vecchio Havers. Pare che Havers non capisse che tali ossa fossero di dimensioni eccezionali, e fu soltanto dopo la morte di costui che esse attrassero l’attenzione degli scienziati. Le chiamarono ossa di aepyornis semplicemente.
«— Aepyornis vastus, – dissi io, – perchè quando si trovò un aepyornis con una coscia lunga quasi un metro, si credette di aver raggiunto il massimo possibile, e lo si chiamò aepyornis maximum. Poi qualcuno espose un’altra coscia lunga quattro o cinque piedi od anche più, e la si chiamò aepyornis Titan. Poi fu scoperto nella collezione di Havers, dopo la sua morte, il vostro *vastus*, ed allora sorse così un *vastissimus*.
«— Winslow me ne ha dette tante, – disse l’uomo dalla cicatrice. – Se vi fossero ancora degli aepyornis, scommetterei che qualche scienziato vanitoso creperebbe se non riuscisse a superare le scoperte precedenti.
«Però, francamente, è stata una ben strana avventura per un uomo, non è vero?»
Fine.
nota 1 – Aepyornis o epiornitidi, specie di struzzi del Madagascar, ora estinta. Abitava di preferenza vicino agli stagni od alle paludi. Aveva le uova di grandezza fenomenale. Circa 150 uova di gallina possono rappresentare approssimativamente un uovo di aepyornis. Un cappello a cilindro non sarebbe stato bastante per fare da portauovo! (*Nota del Trad.*).
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nota 2 – Specie di orchidee.
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nota 3 – Distinto geologo e paleontologo di Picton (Nuova Scozia).
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nota 4 – Millepiedi.
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TITOLO: L’isola dell’aepyornis
AUTORE: Wells, Herbert George
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Novelle straordinarie / H. G. Wells ; [illustrazioni di Celso Ondano]. - Milano : Fratelli Treves, 1905. - 211 p., [10] c. di tav. : ill. ; 27 cm.
SOGGETTO:
FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)
FIC028040 FICTION / Fantascienza / Brevi Racconti