L’invincibile

di
Carlo Dadone

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Nel gabinetto del giudice istruttore sir Lovelace erano adunati, insieme con questi, il direttore delle carceri, signor Bochmayr, l’ispettore di polizia Edward Bloomfield, il cancelliere e due poliziotti. I due ultimi ed il cancelliere, uomini scelti e fidati, seguivano muti, attentissimi, la strana conversazione dei loro superiori.

— Diteci pure succintamente il vostro pensiero, qualunque esso sia, e narrateci quanto sapete, caro Bochmayr; – continuò il giudice istruttore Lovelace, vòlto al direttore delle carceri, – perchè non solo è necessario che sull’avvenimento stranissimo facciamo luce completa; ma è anche indispensabile agire, per conseguire lo scopo, con quell’assoluta cautela richiesta dalla stessa gravità del fatto veramente incredibile.

— Avete ragione, – gli rispose il vecchio direttore lisciandosi la barba bianca e scotendo il capo – perchè, vedete, io sono convinto che non ne faremo nulla; onde sarà bene che tutto quanto potrà succedere o venire alla luce intorno a quest’affare, rimanga fra noi senza che nulla, assolutamente nulla trapeli fuori da queste pareti.

— Perdonate, – osservò l’ispettore di polizia Edward Bloomfield, un bell’uomo bruno, alto, nervoso, che stava in piedi appoggiando le mani sul tavolo al quale erano seduti il giudice ed il direttore, – perdonate, signore: ma se giungeremo a scoprire tutto, risultato del quale io non dubito, come va che, a vostro giudizio, non riesciremmo a concludere nulla?

— È semplicissimo: vi ripeto ch’io mi sono fatta la convinzione assoluta che Gastone O’Connel non è un uomo di carne e d’ossa, che è un essere soprannaturale, un mago, un diavolo o che so io, come meglio a voi piacerà chiamarlo; e non sorridete, per carità, non credetemi nè pazzo nè allucinato: sono nella pienezza della mia ragione, nè alla mia età, e dopo tutto ciò che ho visto per la posizione che occupo, mi lascerei vincere da superstiziosi terrori o da apparenze effimere!

«Domando io: mi giunge alle carceri codesto Gastone O’Connel, arrestato il giorno prima perchè presunto reo di un orribile delitto, ed io, non appena su di lui furono compiute le solite formalità dell’Ispettorato carcerario, insieme con due carcerieri vado a trovarlo in cella aspettandomi di vedere un volgare tipo di delinquente, o, nell’ipotesi della sua innocenza, un uomo disperato e fuori di sè perchè ingiustamente sospettato di un terribile delitto. Invece mi trovo dinanzi un perfetto gentiluomo sorridente, tranquillo, vestito con semplice eleganza, il quale, posato su d’un foglietto di carta un lapis che teneva fra le dita, mi porge una piccola mano bianca, sottile, delicata come quella di una fanciulla, e mi guarda fisso negli occhi: uno sguardo vivo e penetrante che tosto mi turba, che mi affascina mio malgrado, così che debbo farmi forza per conservarmi padrone di me. Mi rimetto subito, sì, e intanto vi confesso che non so come principiare, cosa dirgli, se non la consueta frase sacramentale: «Sapete di che delitto siete accusato?» e l’altro, quell’essere straordinario sorride, non ha il più lieve turbamento nel volto sempre pallido, e mi risponde con molta famigliarità:

« — Via, caro signor direttore, non ne parliamo, non ne vale la spesa: io so e non so, dico ciò che voglio dire, e faccio quanto a me pare e piace. Tanto è vero, che se io sono qui, gli è perchè mi ha vinto la curiosità di vedere come sono fatte le prigioni, come si vive in esse, e come s’iniziano e si svolgono i processi; ecco tutto: altrimenti non mi sarei lasciato arrestare.

« — Sareste fuggito?

« — Neanche per sogno! Ho detto che non mi sarei lasciato arrestare; non parlo abbastanza chiaro? Se non fosse così me ne andrei: credete forse ch’io continui a restar qui vostro prigioniero per farvi piacere?

«E finisce così, con questa interrogazione rivoltami sorridendo, con fare canzonatorio. Io mi stizzisco, immaginando di aver da fare con un pazzo, o, peggio, con un astuto burlone di quella brutta specie che non vi dà tregua girandovi al ridicolo le cose più serie; e siccome i due carcerieri che mi accompagnano sorridono, io mi faccio seriissimo, severo, e, pur non osando guardare in faccia il prigioniero, lo rimprovero aspramente:

« — Abbiatevi riguardo, signore; non aggravate la vostra posizione già terribile per sè stessa; qui non si scherza. Volete rispondere seriamente e diffusamente alla mia prima domanda? Se sì, fate presto; se no, compiuto il mio dovere, vi lascio, e sarà peggio per voi.

«Ebbene: l’interrogato non si turba affatto; mi guarda fisso con quei suoi occhi penetranti ed ammaliatori che a certo punto paiono dilatarsi ed accendersi in modo straordinario, e sempre sorridente, ma con voce dura ed imperiosa, risponde:

« – Quando entraste, signor direttore, io ero intento a risolvere un calcolo interessantissimo ed a trascrivere materialmente certe formule di gran valore per la risoluzione definitiva di un problema che mi occupa la mente e mi soggioga più che le vostre vane storie di giustizia, di delitti o di castighi: quindi, vi prego, lasciatemi in pace al mio lavoro.

« — È vero, non ci pensavo più: entrando vi ho sorpreso a scrivere. – E rivolto ai carcerieri: – Che cosa fece l’Ispettorato? Il prevenuto non fu perquisito minutamente? Impadronitevi tosto di quella carta e di quella matita, e qui, in mia presenza, riperquisite scrupolosamente quest’uomo!

«I carcerieri ubbidiscono visitando da capo a piedi il carcerato che lascia fare con molta degnazione, limitandosi a sorridere ed a lanciarmi certe occhiate che non saprei immaginare le più canzonatorie, dicendomi poi:

« — Dunque, non mi avete trovato assolutamente nulla addosso, perchè in realtà nulla mi fu lasciato nella visita all’Ispettorato; ciò nonpertanto, fino a quando mi piacerà rimaner qui prigioniero, non mi mancherà mai nè carta nè matita. E passando ad altro, caro signor direttore, ditemi: siete libero in casa vostra, che certamente come direttore delle prigioni sarà qui vicina, questa sera alle ventitrè precise?

« — Perchè? – non potei a meno di osservare, sminuendo con la mia curiosità e mio malgrado, la serietà che m’ero imposta.

« — Perchè conto di farvi una visita…

« — Basta, basta, signore! Non ho tempo da sprecare. – E accenno ai carcerieri che è l’ora di andarcene, ma l’altro, l’O’Connel, con il più franco de’ suoi sorrisi, mi dice lietamente:

« — Confessate che avete paura, signore! Non è forse vero che non osate guardarmi negli occhi?. Questa sera alle ventitrè precise sarò da voi: aspettatemi alzato perchè non vi rechi troppo disturbo…

«E fattomi un leggero inchino siede al tavolo… con in mano la matita, ed un foglio di carta bianca davanti.

«Mi volto furibondo ai carcerieri:

« — Quella matita, quella carta! Ma non glie l’avete tolta, perdio?!

«I carcerieri, spauriti, mi mostrano l’altra carta e l’altra matita… Poi, ad un mio cenno imperioso ritolgono al prigioniero la seconda carta e la seconda matita, per rivedere subito dopo nelle sue mani l’una e l’altra, cioè altra carta ed altra matita. Vidi ciò, badate, con questi miei occhi, non ostante le due perquisizioni fatte al prevenuto, spogliandolo persino nudo e visitando i suoi abiti fin nelle cuciture!

«Io allibisco; un principio di sgomento mi assale e pur facendomi forza ricomando ai carcerieri di fare anche questa volta il loro dovere ritogliendo carta e matita al prigioniero: e mentre essi ubbidiscono, questi, avvicinandosi a me dopo avere, con molta noncuranza, dato gli oggetti ai carcerieri, mi dice, osando persino battermi benevolmente su d’una spalla:

« — Mi dimenticavo, caro signore; se volete che stasera alle ventitrè precise io venga a farvi una breve visita, indicatemi almeno la strada per giungere al vostro alloggio…

«Esasperato da tanta baldanza e dalla incomprensibile moltiplicazione di carta e di matite, e più ancora dal vedermi per la prima volta soggiogato da un uomo che non riuscivo a capire, e che mi faceva uscire dalla mia solita calma, gli rispondo d’un fiato, come a sfida:

« — Ma sì: venite da me alle undici precise: passate attraverso a questa porta massiccia e ferrata, passate nel corridoio sul corpo di quattro sentinelle ed attraverso le sbarre di tre cancelli; scendete nella corte, scavalcate un muro di cinta alto sei metri, saltate nel giardino, forzate cinque usci e venite da me, pazzo che non siete altro!

«Ed uscii da quella cella insieme con i carcerieri; ma voltandomi ancora istintivamente prima che uno di questi ne chiudesse la porta, vidi, con raccapriccio, che quell’uomo straordinario aveva in mano un nuovo pezzo di carta ed una matita… Non dissi più nulla: non ne avevo più il coraggio, e non so se anche i carcerieri se ne sieno accorti.

«Feci ancora, proforma, qualche altra visita a poche celle, e rientrai nel mio ufficio che, come sapete, è nell’ala a ponente delle carceri, prospiciente il giardino, e fa corpo con il mio alloggio.

«Non so come passai quella mezza giornata; sentivo sempre fissi ne’ miei quegli occhi maledetti; sempre mi ronzava nelle orecchie quella voce d’un timbro sonoro e squillante, indimenticabile; e telefonai quà e là: alla Prefettura, al Direttorato di polizia, al giudice; consultai questi e quelli, e intorno al mio prigioniero non ebbi che notizie contradditorie, le une più strane, o puerili, o maravigliose delle altre, cosicchè finii per non capire più nulla di nulla, per non cenare, io, così normale e metodico, e per aspettare quell’ora – le ventitrè – in cui il prigioniero mi aveva promesso la sua visita. Ebbi, è vero, momenti di ribellione contro la mia paura e la mia sciocca esaltazione, ma intanto disposi affinchè il prigioniero fosse scrupolosamente sorvegliato a vista, dai miei più fidi… e non mi coricai, com’ero solito di fare, alle ventidue!

«Non avevano ancora finito di sonare le ventitrè al pendolo della mia camera, che mi guardai intorno, istintivamente; e poi, ad un tratto, mi sentii forte e sicuro, non so come, quasi avessi vinto la mia esaltazione, quando… quando quegli occhi di nuovo si fissarono ne’ miei, come parecchie volte m’era accaduto poco prima… Ma adesso erano vivi, là, e si dilatavano, e splendevano, ed insieme con gli occhi, a poco a poco il sorriso, quel sorriso, ed il volto pallido, e le forme… tutta la persona, lui, insomma, davanti a me, in carne ed ossa!

«Dopo un inchino in segno di saluto, disse con molta cortesia

« — Eccomi, sono qui: ho il piacere di augurarvi la buona notte.

«Rannicchiato nella mia poltrona, in un accasciamento assoluto, guardavo con gli occhi sbarrati quell’apparizione ed ero come annientato; poi, con uno sforzo supremo, mi alzai per iscacciare l’apparizione, il fantasma; ma lui, Gastone O’Connel, mi battè su d’una spalla chiamandomi amico, ridendo, assicurandomi che proprio di sua sola volontà se ne stava in carcere. Ed intanto, non sapendo bene ciò che mi facessi, toccai il bottone elettrico per chiamare un servo e quindi guardie e carcerieri proprio nel momento in cui la campana delle carceri e le trombe del corpo di guardia davano l’allarme che un prigioniero era fuggito.

«Ed il fuggitivo, manco a dirlo, era quel meraviglioso O’Connel che avevo dinanzi eternamente sorridente, tranquillo, e direi quasi padrone della mia volontà e del mio pensiero! Egli tosto seguì docile guardie e carcerieri sopraggiunti alla mia chiamata, lasciandosi ricondurre nella propria cella da dov’era uscito senza che si fosse aperta una porta, o schiuso un cancello, proprio sotto gli occhi delle guardie che mi giurarono concordi, allibite, che non si accorsero della sua sparizione… se non quando era già sparito!

«Ecco perchè dico a voi, signor Lovelace, ed a voi, ispettore Bloomfield, che tutto quanto è inerente a questi fatti mostruosi e al delitto di cui cerchiamo scoprire l’autore, almeno per ora deve restare fra noi, in gran segreto; perchè non riusciremo a nulla; perchè quell’uomo non sarà mai nostro, e non lo vinceremo mai! Ah, fossi stato io solo a vedere, a udire, direi che fui allucinato, o che divenni pazzo! Ma vi sono guardie e carcerieri che hanno visto, che hanno udito… e che hanno giurato di tacere!

«Ed ora a voi, signor Lovelace; io vi auguro quella vittoria alla quale assolutamente più non credo. –

Il vecchio direttore delle carceri tacque, mentre il giudice e l’ispettore scotevano il capo, il cancelliere guardava il soffitto come un idiota, e le due guardie sembravano in preda ad un vivo desiderio di lotte misteriose che le faceva fremere.

— A tutta prima quanto ci narraste, caro signore, appare straordinario, non lo nego, – disse finalmente Lovelace – ma io, pur non sapendolo ancora spiegare, intuisco nel fatto stesso un curioso fenomeno di autosuggestione: ma ne verremo a capo e smaschereremo il ciurmatore. Intanto, dite, caro Bochmayr: e l’altro prevenuto per lo stesso delitto, il marito della vittima, il nominato Peter Makulay?

— Oh, quello è un uomo comune! – rispose pronto il direttore delle carceri alzando la mano con un gesto quasi di conforto per non aver più da ricordare, almeno per un istante, l’altro prigioniero. – Il Makulay passa dalla più completa disperazione che sfoga con scatti pazzeschi di ribellione, fino alla prostrazione più dolorosa ed estenuante. È una vera pietà. Però con me e con tutti, fin dal suo primo giungere in carcere, si è chiuso nel più assoluto mutismo, e soltanto ieri ha dichiarato che avrebbe fatta la più completa confessione al giudice istruttore, dimostrando però la propria innocenza del crimine di cui lo si vuol reo… Potremo ora, dopo averlo interrogato, passare al suo confronto con l’O’Connel? Io… ho paura che ne nasca qualche guaio…. Il confronto, forse, sarà meglio farlo più tardi….

— Ma questo, – osservò rispettosamente l’ispettore Bloomfield, – dipenderà, mi pare, dall’esito delle confessioni del Makulay!

— È vero, – soggiunse sir Lovelace, – intanto, caro direttore, i due nostri strani accusati sono qui in guardina ben separati, che aspettano. Siete certo che l’uno non sa dell’altro?

— Certissimo in quanto al Makulay, il quale non dubita affatto di essere tanto vicino all’O’Connel: quanto a costui, non rispondo di nulla.

Il giudice sorrise ironicamente e riprese:

— Non vi riconosco più! Ma discuteremo poi. Adesso è meglio non isprecar tempo. Cancelliere, state attento a non perdere neanche una parola; e voi, Simpson e Favart, lesti a prendere il nominato Peter Makulay, ed a condurlo qui.

Il cancelliere distese i fogli di carta, provò la penna e fu pronto mentre poco dopo, dinanzi al giudice istruttore compariva il prevenuto Makulay.

Era un bell’uomo sui quarantacinque anni, dall’apparenza di persona agiata e tranquilla che non ha mai avuto a che fare con la giustizia; vestiva di nero da capo a piedi, e su quel nero di gran lutto spiccava il suo volto pallido e magro, illuminato da due occhi vivi, sì, ma che vagavano spauriti, come in cerca di uno scampo che non riescivano a trovare. Era ammanettato, e le sofferenze più morali che fisiche di pochi giorni di carcere preventivo lo avevano tanto accasciato che si reggeva male in piedi, come febbricitante.

— Fatelo sedere e toglietegli le manette, – comandò il giudice istruttore. Poi, rivolto all’accusato:

— Le vostre generalità?

— Peter Makulay, d’anni quarantaquattro… vedovo… – e disse quest’ultima parola con voce tremante, mentre il suo sguardo si smarriva lontano e gli occhi gli si empivano di lacrime.

— Sapete di che cosa siete accusato?

Il prevenuto aperse bocca, ma non potè parlare, e cominciò a piangere silenziosamente, a capo chino.

— Via, fatevi coraggio, – continuò il giudice, senza mostrare di commuoversi. – Voi siete accusato di aver ucciso vostra moglie Kate Merival, mediante strangolamento.

— Ah, non è vero, non è vero! – gridò il Makulay alzando il capo e tergendosi furiosamente le lacrime. – Io sono innocente, signor giudice, innocente! – e ricadde nel suo accasciamento come se lo scatto improvviso lo avesse esausto, rigettandolo nella sua muta disperazione.

— Provateci questa vostra innocenza! – ribattè sir Lovelace, con voce molto benigna. – Non vi domandiamo di meglio. Le apparenze, anzi diremo le prove, sono tutte contro di voi, e finora rimaneste muto, con un’ostinazione che in verità non parla troppo in vostro favore! Però, qui il direttore delle carceri, ci ha fatto or ora sapere che siete pronto a parlare, a confessare.

— È vero…. Non ho potuto prima… no, non avrei potuto. La mia orrenda disgrazia mi aveva reso come pazzo…. E poi, sono fatti così straordinari, così incredibili nella loro diabolica concatenazione, che non solo temevo di non essere creduto, narrandoli, ma avevo paura mi si giudicasse pazzo, e come tale rinchiuso per sempre in un manicomio dove sento che sarei realmente impazzito. Ora questa tema non l’ho più; il mio corpo è ancora debole, ma il mio spirito, nel silenzio della cella, si è fortificato, e penso che la verità unica e sola mi potrà salvare… –

Tacque un istante, stringendosi la fronte fra le mani, mentre ognuno lo guardava con curiosità ed il cancelliere chino sulla carta attendeva con gli occhi ben aperti.

Poi riprese con voce chiara e calma:

— La mia rovina ebbe principio quel giorno in cui fatalmente conobbi il più straordinario e diabolico uomo che esista sulla terra; un essere soprannaturale certamente, il cui solo ricordo mi fa fremere di sgomento e di orrore… perchè, non so come, ho paura di vedermelo ricomparire dinanzi da un momento all’altro, per la mia suprema rovina.

«Quell’uomo si chiama Gastone O’Connel. Lo conobbi in una trattoria dove insieme con mia moglie mi ero recato a pranzo. Mia moglie! – ed al nominarla di nuovo il prevenuto Makulay si commosse profondamente. – Oh, era bella, sapete! Una bionda maravigliosa, di forme perfette: tutte le grazie erano in lei; e virtuosissima, innamorata di me come io di lei. Ne ero gelosissimo perchè essa rappresentava la mia felicità, la mia vita.

«In quella trattoria, adunque, mentre seduti ad un tavolo pranzavamo tranquillamente, in un altro accanto venne a prender posto un giovine signore elegantissimo, estremamente pallido, capelli bruni ed occhi neri che avevano lampi capaci di turbare chiunque. Me ne accorsi subito dal turbamento onde fu agitata mia moglie in seguito ad un lungo sguardo rivoltole da quell’uomo; ed io pure, mio malgrado, ne subii il fascino; non ebbi nè la forza nè il coraggio di schermirmi subito. Sebbene intuendo istintivamente un nemico mi feci amico di quello sciagurato rispondendo a certe sue domande banali che mi rivolse con una grazia fascinatrice incredibile. Ci si rivelò tosto coltissimo, ci disse di essere irlandese e forestiero a Londra; e seppe insinuarsi così bene nelle nostre confidenze, che nonostante la ripugnanza istintiva ispirataci nel primo momento, poco dopo, lasciata la trattoria, uscimmo tutti insieme, dirigendosi a casa, a casa mia.

«Ivi passammo ore deliziose, perchè la conversazione di quell’uomo era un incanto, una fonte viva di brio e di sapere; e quando finalmente ci lasciammo gli promisi che sarei andato a trovarlo a William Park, nella piccola palazzina ch’egli aveva preso a pigione.

«Appena partito, mia moglie mi disse che le pareva di averlo già visto altra volta quel signore, e che ne aveva provato un invincibile senso di raccappriccio, pur non lasciandosi menomamente intimorire dal suo sguardo straordinariamente vivo e penetrante; anche lei, come me, si mostrò entusiasta del suo ingegno, pregandomi però, in fine, di non riceverlo più, nè di più rivederlo, perchè, asseriva lei, dinanzi a lui io non ero abbastanza forte.

«Ah, se avessi ascoltato i consigli della mia diletta! Ma non lo feci; anzi, il giorno dopo, mi pareva che una forza arcana mi spingesse a rivedere quell’uomo; e fu con vera ansia, quasi si trattasse di un proibito e pur desideratissimo convegno amoroso, che mi recai a trovarlo, che mi feci umile, ubbidiente dinanzi a lui, diventato mio padrone assoluto.

«Ciò che vidi in quella casetta semplice e pur piena di misteri non saprei ridire: un gabinetto chimico dei più ricchi; un museo di oggetti rari, strani, curiosissimi, ed un’officina di piccole macchine e di utensili di cui assolutamente non seppi indovinare l’uso. Quanto al misterioso O’Connel, che si diceva irlandese, ma che non poteva essere persona di questo mondo nè aver patria alcuna, fu correttissimo con me; e poichè ero ignaro di spiritismo ed incredulo materialista, egli m’apparve spiritista meraviglioso e medium di eccezionale potenza.

«Dinanzi ai miei occhi ed alla piena luce del sole, senz’apparati, senza tavolini parlanti o scriventi, mi rivelò prodigi ch’io non posso ricordare senza che ancora adesso ne fremi di ammirazione e di sgomento. Così, a poco a poco, mi conquise completamente e fece di me, prima incredulo, spiritista convinto, cosa sua nelle sue mani, al punto che sentivo di non aver più una volontà, poichè la mia anima era passata nella sua, e il mio cervello pensava e voleva soltanto attraverso e per volontà del suo.

«Egli veniva tutti i giorni a casa nostra, od io mi recavo a casa sua; e questo reciproco visitarci era compiuto con una famigliarità troppo spinta, onde ben presto, per quanto fosse in me cecità assoluta, mi accorsi che O’Connel erasi perdutamente innamorato di mia moglie, la quale non solo non lo incoraggiava, ma non subendo più il fascino di lui nè la sua potenza come io li subivo, lo respingeva, lo trattava alteramente, e tentava tutti i mezzi per sottrarmi al suo potere misterioso, per trarmi dal precipizio in cui ero caduto. Tutto però fu inutile: io giuravo per colui, e pur morso dalla gelosia, e pur cominciando a odiarlo disperatamente, non potevo abbandonarlo, non potevo vivere un giorno solo lontano da quel mio nemico che oramai mi dominava completamente.

«Mia moglie, dunque, era ferma, risoluta, e dinanzi a questa tenacia vittoriosa l’O’Connel si disperava, impazziva. Io, che non avevo più volontà alcuna, incatenato fra i prodigi che ogni giorno mi rivelava quell’uomo straordinario, e fra l’amore immenso per la mia Kate adorata, vivevo una vita soprannaturale di misteri e di passioni che non mi pareva più di questo mondo; e nei rari istanti di lucidità che ancora mi erano concessi, folle di disperazione, intuivo il baratro che mi si spalancava ai piedi, per ricadere poi subito nell’oramai mia abituale ignavia.

«Un giorno – ed erano passati tre mesi da quello in cui avevo conosciuto O’Connel, – questi, dopo una lunga seduta spiritica avuta con me da solo a solo, in cui aveva fusi, in una sola potenza, chimica, fisica e spiritismo per svelarmi vie nuove al bene, come diceva lui, ed alla felicità suprema che soli avremmo potuto raggiungere giungendo in pari tempo alla verità infinita, prendendomi per le mani, mentre io, rapito, estasiato, vivevo nel mondo dei sogni, e fissandomi negli occhi, ardentemente, mi disse con uno schianto di voce imperiosa che mi fece tremare verga a verga:

« — Tua moglie deve essere mia, capisci? Sarà mia!

« — Sì, sarà tua! La mia Kate sarà tua! – gli risposi, soggiogato, mentre il cuore mi si spezzava ed ogni forza veniva meno in me, in un annientamento assoluto della mia coscienza e della mia volontà: – La mia Kate sarà tua!

« — Così va bene. Tu dovrai indurla ad esser mia… Io la voglio! Se tu sapessi come l’amo! Ma il mio è un amore terribile, sai? Oh, perchè quella donna ha voluto resistermi finora? Che volontà perfetta, ferrea, la sua! Una di quelle volontà che resisterebbero ad un martirio!… Vincere questa volontà sarà per me una gloria; e vincerla per forza di volontà, chè per forza soprannaturale, per prodigio, già l’avrei vinta! E tu, mio caro Makulay, fingi di non più amarla, trattala con durezza, spingila fra le mie braccia, e sarai grande, te lo giuro: vi farò felici tutti e due, dopo: te e tua moglie: vieni, vieni a vedere!…

«Mi prese per mano, come un fanciullo, e mi condusse in un’ampia sala terrena, in mezzo alla quale stava fermo un automobile di lusso ch’io a tutta prima non giudicai dissimile dagli altri già visti altrove.

« — Vedi questo automobile? Esso, per una mia scoperta meravigliosa, è dotato di una forza nuova, potente, d’una semplicità senza pari, che non costa nulla. Questa forza nuova – nuova per noi ma vecchia quanto il mondo – può sostituire qualsiasi genere di forza motrice: non pesa, non ha volume, non consuma, non si vede! Il padrone di essa sconvolgerà il mondo; vuoi vederla alla prova? Prendi posto qui, accanto a me, così: ed ora, via!..

«Salimmo sull’elegante veicolo; quel mago toccò un bottone, e quindi un altro, e poi un terzo accanto alla ruota del timone, e l’automobile uscì dalla sala, attraversò il giardino, comparve sull’ampia strada piena di sole, e via, d’impeto, come portato dal vento, senza il più leggero stridìo di ruote o di catene, come in un sogno.

«Così, in una corsa vertiginosa di due giorni, destando stupore ed entusiasmo di contea in contea, senza che mai il mio straordinario compagno alimentasse comunque la forza del nostro veìcolo; senza che mai ne aprisse la cassetta centrale chiusa ermeticamente, dove immaginavo doveva esser chiusa la diabolica e potente energia.

«Ah, provai istanti di ebbrezza indicibile, ed altri di sgomento inenarrabile! A tratti pensavo che una forza ultraterrena fosse chiusa nell’automobile che volava attraverso alle campagne solitarie; e seduto accanto a quell’uomo che mi aveva rapita l’anima e che ora mi avrebbe rapito la moglie, l’amor mio, l’unica mia felicità, a fianco di quell’uomo, ero vinto da un terrore accasciante che in certi momenti mi faceva desiderare la morte come una suprema liberazione.

«Fu in quegli istanti che mi balenò nel pensiero l’idea di ammazzare il mio nemico, di annientarlo subito, là, mentre l’automobile volava come un drago infernale verso un ignoto destino; e vòltomi istintivamente a guardarlo, mi parve, rabbrividendo, di leggergli negli occhi scaltri, attraverso le lenti della sua maschera di automobilista, il mio pensiero; mi parve che avesse indovinato il mio folle proposito, e chinai gli occhi ricadendo smarrito nella mia miseria.

«Da quell’istante fu una lotta tenace dentro me stesso, di ogni ora, di ogni minuto. Uccidere O’Connel, uccidere quel formidabile mostro che era parte di me stesso e dal quale altrimenti non avrei potuto liberarmi, pure avendo ora la certezza della mia imminente, irreparabile rovina.

«Tornammo a casa dopo un’ultima corsa vertiginosa di cui serbo come un vago ricordo di pericoli per miracolo scampati. Fisso nel tormento della mia criminosa risoluzione non avevo più detto una parola al mio compagno, nè più lo guardavo per tema che in me morisse quel poco di coraggio che ero riuscito a ridestarmi; e mentre egli, chino sull’automobile in mezzo alla sala terrena si compiaceva della sua opera regolando non so quali viti o chiavette, io, in piedi, nel delirio della tentazione di soffocare il mio nemico, pensavo a mia moglie, che da due giorni avevo lasciata senza neanche salutarla; pensavo che lei, fatalmente, assistendo alla mia ignominia ed al mio sfacelo, già doveva disamarmi, per poi cadere nelle braccia di colui, di quel maledetto… al quale l’avevo promessa! Il furore della tentazione si accrebbe in me, mi acciecò… Anche avrei potuto, dopo, diventare il padrone assoluto di quella forza misteriosa e potente che animava l’automobile, e diventare io il dominatore del mondo!…

«Del mio nemico, sempre curvo sull’automobile, vedevo la nuca bianca, e la persona elegante, fine; ma sotto quell’eleganza, indovinavo una musculatura ferrea, una forza fisica forse indomabile, certo superiore alla mia. Pure, trattenendo il respiro e adunando le mie forze per l’istante supremo, me gli avvicinai con gli occhi ardenti fissi su quella nuca bianca, con le mani alzate a ghermire la preda…

«Ma ad un tratto O’Connel si voltò, strinse le labbra sottili ad un sorriso beffardo, si alzò quant’era alto nella potenza del suo genio misterioso e mi afferrò per le braccia, come in una morsa, avvicinando al mio il suo volto pallidissimo, guardandomi negli occhi, a lungo, con quel suo sguardo felino, ardente, che uccideva in me ogni volontà, ogni coscienza; poi, non so se avesse o no indovinato il mio proposito di strangolarlo, mi disse, con la sua imperiosa voce squillante:

« — Ed ora andiamo a casa tua, da tua moglie, amico mio; ricorda la promessa: io ricorderò la mercede.

«Mi teneva ancora strette le braccia fra le sue mani guardandomi sempre negli occhi; ma in quel momento, con uno sforzo potente, potei sfuggire al suo fascino terribile e lo ghermii alla gola ruggendo come una belva, riuscendo a rovesciarlo sull’automobile; poi cademmo sul pavimento, ferocemente avvinghiati.

«Fu allora che avvenne il fatto orrendo e spaventoso: la gola del mio avversario cedeva in modo arcano sotto la mia stretta, come scomparendo a poco a poco, mentre i suoi occhi si dilatavano sconvolti nelle convulsioni dell’agonia, e da neri che erano diventarono azzurri… poi, tutta la fisonomia già illividita subì una tremenda, subitanea metamorfosi, sì che sotto ai miei occhi di pazzo comparve il volto di lei, della mia Kate: i suoi capelli biondi, la sua bellezza disfatta nelle ultime convulsioni dell’agonia. Urlando, rallentai la stretta, ma anche il volto di mia moglie scomparve, e fra le mani non strinsi più nulla, nè più c’era il mio nemico. Esterrefatto e con i capelli irti mi guardai intorno nella solitudine di quella sala, davanti a quell’automobile; poi caddi bocconi con le mani rattratte, nello smarrimento assoluto di chi sta per morire.

«Non so se quelli siano stati minuti od ore: quando potei, finalmente, mi rialzai con la irresistibile brama di riveder subito mia moglie, di correre da lei; e volai a casa, aprii gli uscii, cercai mia moglie in ogni dove, con ansia disperata, con l’angoscia di un assassino che vorrebbe risuscitata la sua vittima, e la trovai nel salotto, lunga distesa sul tappeto del pavimento, morta, strangolata… Un urlo, e mi gettai su quel cadavere abbracciandolo; vidi rosso, il sangue mi salì al cervello con un fischio acutissimo negli orecchi e svenni.

«Quando ritornai in me ero già nelle mani della polizia; nessun altro poteva essere entrato in casa mia ad assassinare la mia Kate; io solo ero l’assassino, io che nelle unghie avevo ancora il sangue della vittima… Ma non avevo io ucciso il maledetto O’Connel? Ma come avevo potuto strangolare mia moglie mentre strangolavo lui? Pure il volto di lei, i suoi capelli biondi… Dio, Dio!… Perchè non diventai pazzo, perchè?…

«Non so dirvi altro, signori. Vi ho narrato tutto, tutto. Io sono innocente, non è vero? E pure il volto di lei, la sua agonia… Oh, perchè non muoio, perchè? –

Makulay, sempre in piedi, aveva così finito il suo racconto gestendo e trasformando a tratti la propria fisonomia; poi risiedette abbandonandosi alla sua muta disperazione.

Il giudice, il direttore delle carceri, l’ispettore di polizia, il cancelliere e le guardie parvero risvegliarsi ad un tratto da un sogno. Sembrava che niuno osasse parlar primo, e seguì un istante di silenzio rotto solo dal respirare affannoso del Makulay.

Quindi sir Lovelace parlò con voce lenta, della quale invano tentava nascondere il turbamento.

— Ora, – disse. – che abbiamo sentito voi, disgraziato che vi lasciaste suggestionare al delitto da un miserabile impostore, sentiremo anche questi, il nominato O’Connel, e sùbito, in confronto.

— Ah! – gridò il Makulay balzando da sedere e stringendosi le mani sul cuore, tremando in tutta la persona. – Lui, lui, ancora lui! No, no… non quì: io non voglio più vederlo… E l’avete arrestato, ed avete potuto arrestarlo? Od è venuto lui?… Ma non l’ho strangolato? Ma è dunque proprio lei, la mia Kate, ch’io… – e ricadde sulla sedia, porgendo le braccia avanti, quasi a respingere una terribile visione.

— Calmatevi, per carità! – riprese il giudice con voce più sicura, ordinando ad una guardia di porgere un cordiale al prevenuto. – Questo confronto è indispensabile e voi rivedrete colui che noi facemmo arrestare, e che è quì, in attesa. Così, speriamolo, potrà scaturire intiera la verità, e brillare la vostra innocenza, se siete innocente. Io ve lo auguro… per quanto sia mia ferma convinzione che voi, cosciente o no, responsabile o meno, siate stato l’assassino di vostra moglie. Oh, il vero colpevole è però certamente colui, O’Connel, il vostro spirito malefico; ed ora invano tenterà di ricorrere alle sue stolte ciurmerie! Ma, non perdiamo tempo, e voi, Simpson e Favart, andate a prendere il nominato Gastone O’Connel: non gli toglierete le manette e lo vigilerete di continuo, scrupolosamente.

Le due guardie ubbidirono, ed un momento dopo rientravano insieme con Gastone O’Connel, che fiero, alto, vibrante di forza e di autorità, strettamente ammanettato, si fece avanti fino al tavolo del giudice istruttore, salutandolo con un leggero cenno del capo, dopo aver guardato di sfuggita il Makulay senza che un’ombra, un sentimento qualsiasi sfiorasse quel suo volto pallido composto ad ironia.

Suo malgrado il direttore delle carceri sussultò, e sir Lovelace aggrottò le sopracciglia per nascondere la propria inquietudine mentre Makulay, inebetito sulla sua sedia, era la vivente incarnazione del terrore, e gli altri tutti, vinti dall’ansia comune, parevano aspettare la rivelazione di qualche terribile mistero.

O’Connel solo era padrone di sè, sereno e dominatore; e con gesto energico, alzate le mani bianche ben strette ai polsi, vôlto al giudice istruttore, prima ancora che questi avesse aperto bocca gli disse:

— Ebbene, che cosa si vuole da me? Le mie generalità, in primo luogo, non è vero? Queste già le avete quali a me piacque darvele. Ho io forse patria, nome, condizione qualunque come gli altri uomini? Forse li avevo… Ma guardatemi negli occhi, sir Lovelace: non mi diceste l’altro giorno che lo spiritismo è una fiaba; non mi diceste…

Ma il giudice, stizzito da quel suo primo istante di debolezza, tosto si rinfrancò, ed interrompendo il prevenuto e battendo un pugno sul tavolo, gridò:

— Eh, con me è perfettamente inutile qualsiasi commedia: non mi farete vedere il bianco per il nero di sicuro! E per tagliar corto, voltatevi, guardate quell’uomo… – e gli mostrò il disgraziato Makulay – e diteci: lo conoscete?

— Non chiamatelo «quell’uomo»! È un essere inferiore, miserevole, forse degno della vostra pietà, non certo della mia attenzione. Sì, lo conosco; e poi?

— Egli ha confessato tutto, or ora.

— Lo so, lo vedo: pare debba cader morto da un momento all’altro… Ed è risultata la mia innocenza o la mia colpevolezza? – domandò con un sorriso beffardo, guardando di nuovo il giudice negli occhi.

— È risultato che voi, abusando delle vostre imposture avete sconvolto il cervello di questo disgraziato, facendo di lui un volgare assassino!

— Che diavolo! Avrebbe confessato di essere lui l’assassino? Sarebbe strano…

— Sì; ha confessato ciò, ma a suo modo, si capisce. Esso fu un’arma nelle vostre mani e ne avete fatto un assassino obbligandolo ad uccidere sua moglie: questo è risultato dallo sconclusionato suo racconto, e voi…

— Basta, basta, signor giudice: non continuate su questa falsa strada di sciocche supposizioni; io…

— Voi non cercherete d’imporvi oltre, spero: basta questa commedia; ed ora risponderete ad ogni domanda ch’io vi farò. Intanto, cancelliere, leggete intiera la confessione del nominato Peter Makulay.

— Ma non date questo disturbo al vostro cancelliere! So tutto quanto può e non può aver narrato Makulay. Ho detto: basta, basta, perchè davvero in questi pochi giorni di volontaria prigionia mi son fatto un’idea precisa di che cosa sia la povera e cieca giustizia umana, e come siano puerili i mezzi da essa escogitati per scoprire quelle verità… che le fanno comodo; ora io vi dirò tutto, la verità intiera che non potè dirvi costui: io solo fui l’assassino di Kate Merival, io solo! Ah, perchè l’assassinai?! Non l’avessi mai conosciuta! Non mai forza umana mi aveva vinto nel passato, nè mi avrebbe vinto in avvenire! Non più schiavo delle leggi divine ed umane che governano gli altri uomini, padrone dei più intimi segreti della natura ch’io governo a mio talento operando quando voglio quei prodigi che al mondo degli stolti sembrano favole, come se la volontà unita al sapere non facesse muover le montagne, io, grande, puro, austero, mi lasciai vincere dalla bellezza soave di una donna e caddi ginocchioni adorando, chè dal mio cuore non avevo saputo estirpare l’ultimo germe del mal seme di Adamo; e fui vinto da una virtù ferrea che mi rese protervo, feroce, disperato… Perchè in me cominciarono a vivere mostruosamente insieme due anime: una pura, grande, nobile, e l’altra bassa, volgare, degli uomini comuni… quell’anima che ama la donna e che accende i sensi, che arde il corpo e che ci fa simili ai bruti. Oh, lottai tenacemente: una lotta di furori… e poi, sempre più vinto, mi posi a fianco di costui, – e additava il Makulay – per rapirgli l’amore della moglie, della creatura bellissima che avevo giurato di far mia per sempre. Ma la volontà di quella donna era ferma, intangibile come la sua virtù, che per me, grande e potente, era una cosa ridicola, sciocca, e la sentivo tale pur continuando, per mia confusione, ad amare con tutto il furore della mia seconda anima vile. Vincere volevo, ad ogni costo, ma non per forza bruta: vincere e vedere ai miei piedi la sovrana dei miei sensi, implorante amore… Nella lotta l’anima vile soverchiò la prima e mi trascinò al delitto…

«Quando codesta miserevole creatura, – ed accennò di nuovo al Makulay – nel parossismo della sua impotenza credè di essere, per un momento, ridiventato un uomo e padrone di sè, e tentò di strangolarmi, io imposi alla mia volontà lo sforzo supremo, per potere occulto; e come a porte chiuse sere sono visitai qui il signor Bochmayr, in un attimo mi sciolsi corporeamente e fui da lei, dalla Kate, che s’indignò, che non mi volle, ingiuriandomi a sangue. Fu allora che la strangolai con queste mani, mentre nell’istante medesimo Makulay credeva di strangolare me, suo nemico invincibile…

«Ed ora che sapete dell’innocenza di costui, non credete alle mie parole, non è vero? Io sono un impostore, un volgare ciurmatore! Uomini di poca fede che non pieghereste la cervice neanche dinanzi ad un prodigio! Ma sì, sono pronto a firmare tutto quanto vi ho detto: che importa a me, ora, che per me è venuta la liberazione?

«Mi credete vostro? Ah, signori impenitenti nella vostra miserabile ignoranza negatrice di tutto quanto non conoscete! Dimenticate che noi siamo circondati dall’ignoto, e che ogni giorno è un brano di verità che si rivela ai nostri occhi? Sì, porgetemi il verbale ch’io vi lasci almeno una firma… l’ultima vostra consolazione! Ed ora che cosa farete? Che cosa potranno le vostre guardie? –

Esterrefatti, giudice, direttore, ispettore, cancelliere e guardie, balzarono in piedi precipitandosi addosso ad O’Connell, il quale, dette le ultime parole con voce fioca, sparì poco a poco, come in una trasparenza inafferrabile… Soltanto i suoi occhi neri brillavano ancora, nel vuoto, in una lenta ondulazione di pendolo… e poi anche questi sparirono, e le manette, vuote, caddero sul pavimento.

Makulay, in deliquio, era caduto anch’esso pesantemente dalla sedia; gli altri, lividi, tremanti, si guardarono senza un respiro, senza un gesto; poi il giudice sir Lovelace, afferrando per un braccio il vecchio direttore delle carceri, gli balbettò, con voce soffocata:

— Avevate ragione…. Oh, che non si sappia nulla, nulla di tutto ciò…. Nessuno ci presterebbe fede, e saremmo rovinati!….

Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: L’invincibile
AUTORE: Carlo Dadone

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: La forbice di legno / di Carlo Dadone. - Nuova ed. economica. - Milano : F.lli Treves, 1911. - 229 p. ; 20 cm. - (Biblioteca amena ; 817).

SOGGETTO: FIC015000 FICTION / Horror