Conosco l’autrice di persona. Ha già scritto “Roma nascosta” (Newton Compton, 1984) e “Matrioska” (Pironti, 2001). Cura la pagina settimanale “Scritture & pensieri” per il quotidiano “Corriere Nazionale”. Il giornalismo è la sua passione, in sintonia con il suo carattere, risoluto, forte. Anche nella vita, non si è mai piegata alla sventura. Il suo motto è guardare sempre avanti, non arrendersi, combattere. Non so, infatti, capacitarmi come sia riuscita, con tutto il daffare che ha, a scrivere questo romanzo. Spende la sua vita tra l’Italia e la Francia, ciò che le ha consentito una visione più ampia e meno provinciale della realtà.
Apro la pagina e nelle prime righe leggo che un personaggio, un ingegnere, ha il mio stesso cognome, Di Monaco. Mi illudo che, al di là delle imprese di costui, sia un omaggio alla nostra amicizia. Del resto il mio cognome è tipicamente meridionale, essendo mio padre (e anche mia madre) originario del Sud, e precisamente di San Prisco, un paesone a sei chilometri da Caserta, dove ancora vivono i miei parenti amatissimi.
È lui a scoprire in via Duomo, una strada attigua a quella famigerata di Forcella, in un appartamento testé acquistato e in corso di ristrutturazione, i due scheletri che danno il titolo all’opera. Li fotografa con una Nikon, che è, pure lei, una macchina fotografica che possiedo, oggi regalata a mio figlio Stefano.
L’autrice, narrandoci questo fatto di cronaca, ci fa rivivere la sua esperienza di giornalista negli anni ’70 presso la redazione del “Mattino”, il quotidiano fondato da Matilde Serao e dal marito Edoardo Scarfoglio, e “che per i napoletani era come la tazza di caffè al risveglio.” I ritmi frenetici del giornale, la spasmodica ricerca della notizia di cronaca che aiuti a vendere più copie e a battere la concorrenza, la passione per l’indagine al servizio della verità, “fottendosene delle indagini della polizia”, i metodi usati per conquistarsi la confidenza della gente, l’attesa in redazione dell’articolo da incastonare nel menabò, sono altrettanti reticoli che accompagnano una lente di ingrandimento posata su di una Napoli ricca di umori e di fermenti.
In un palazzo, la portinaia è la detentrice di molti segreti. Cominciare le indagini da lei, da Maria, anzi da donna Maria, è un dovere sacrosanto. Maria è la classica portinaia napoletana, che non aspetta altro che di poter raccontare. Basta saperla prendere per il verso giusto. È un’arte che un cronista, soprattutto di nera, deve possedere. Maria sa che cosa si può dire e che cosa si deve tenere per sé; da buona napoletana deve stare attenta che sul giornale non compaia mai la parola camorra, e per il resto via libera, ma sempre con giudizio. Che il suo nome appaia sul “Mattino” sarà per lei un’occasione d’oro, un momento da vivere come un’autentica star.
Nardini ha vissuto a Napoli molti anni, in qualche modo si ritiene una napoletana verace; ne conosce, oltre i vicoli e i segreti, l’anima antica.
Donna Angelina vende cianfrusaglie a Forcella, è un donnone che sta sull’uscio del negozio e vede ogni cosa, astuta anche lei come la portinaia Maria; una “radio speciale” trasmette a richiesta degli ascoltatori canzoni napoletane, ma chi fa la richiesta in realtà manda messaggi camorristici in codice; per le strade girano venditori che vogliono farti “il pacco”, ossia venderti roba fasulla come se fosse un affare; dovunque ti giri c’è odore di superstizione (si veda la bella figura della “cummare Schiattamuorti”); ogni fatto viene trasfigurato nel culto del gioco del Lotto: sono aspetti di una Napoli che non cambia, la città del “munaciello” che resta popolana e arruffona, che ha nel suo disordine regole non scritte e immutabili: “Il disordine della mia città. Che amavo, odiavo, ma non rinnegavo.”
Il progresso non può mutarla, infatti, essa lo inghiottisce e lo piega a sua misura. Gli uomini e le donne, i ragazzini e i vecchi hanno gli occhi e il viso dei secoli passati: “La gente dormiva fuori i bassi sulle sdraio.” Negli abiti moderni, nei cenci di oggi, un occhio abituato li riconosce, vengono da lontano, hanno attraversato le rivoluzioni, il brigantaggio, gli onori e gli oneri di essere cittadini della capitale di un Regno povero, governato da crapuloni e buontemponi, ignari del popolo; hanno attraversato le guerre, “I cento bombardamenti del ’43, le sirene, i rastrellamenti.” Si riesce a vivere, ieri come oggi, solo arrangiandosi, mettendo al servizio della miseria la propria scaltrezza e la forte aspirazione alla sopravvivenza. L’inestinguibile contrabbando di sigarette ne è il marchio, l’emblema.
Attraverso il lavoro di un cronista, intento ad indagare su di un mistero, noi, in realtà, avvertiamo di fare conoscenza con ambienti e uomini che non ci sono estranei, si disegnano e vivono anche dentro di noi. La scrittura semplice e viva dell’autrice produce questa specie di miracolo, rendendoci protagonisti, pure noi, di una città. Un romanzo che mi riporta alla mente “Scala a San Potito”, di Luigi Incoronato, del 1950.
Sembra che la chiave del giallo dei due scheletri giri attorno alla figura di un certo professore di latino, Arturo Pirone, uomo solitario, riservato, ora defunto, che aveva abitato l’appartamento di via Duomo e un giorno, all’improvviso, lo aveva abbandonato trasferendosi altrove, addirittura in Piemonte, ad Alessandria, dove lo aveva preceduto la donna amata.
Dopo la sua morte, l’appartamento aveva avuto altri proprietari fino ad arrivare all’ingegnere Di Monaco, che aveva scoperto i due scheletri.
Andando avanti nella lettura, ci rendiamo conto sempre più che attraverso il minuzioso lavoro di giornalista il giallo degli scheletri si viene trasformando in una rappresentazione di Napoli, non paesaggistica, bensì intima, spirituale, fatta di ansie, di debolezze, di sofferenza, di voglia di vivere pur contro enormi avversità. L’indagine del cronista, in realtà, si rivela un percorso all’interno della parte più intima della città di oggi, al fine di mostrarci l’eterno collegamento con il suo passato, turbolento, sofferente, ma fascinoso. Napoli sarà sempre così, immersa nella sua storia immutabile. Un po’ come i gattopardi di Tomasi di Lampedusa: “La gente a Secondigliano, in quelle case strane, si era portata le edicole votive, i lumini, e i peperoncini contro il malocchio.”
L’amore per il giornalismo e l’amore per Napoli sono così i percorsi fondamentali di questo romanzo, e si impongono all’attenzione del lettore, più che la curiosità di scoprire il mistero degli scheletri ritrovati. Il quale fa da motore della storia, ma gli assi portanti sono proprio Napoli coi suoi colori e profumi antichi e il lavoro di cronista con la sua frenesia e la sua passionalità, ricordato anche con un po’ di nostalgia: “Era in gioco quella morale che un tempo i giornali non si imponevano, perché era nei fatti, nei comportamenti, nello stile. La morale passava attraverso il rispetto per la notizia, che andava verificata, accertata prima di essere trasformata in parole impresse col piombo.”; “Un fatto a Napoli ha un impatto diverso che altrove. Diviene un modo per comunicare, per trasmettere valori da condividere, per giocarsi i numeri e prendersi un caffè.”
Uno dei personaggi, Barbablù, in punto di morte, vent’anni dopo, rivelerà la verità e il motivo del suo lungo silenzio: “quando tu hai scritto quell’inchiesta stavi restituendo alla città la sua anima più autentica. La gente che giocava i numeri, gli scheletri erano come ‘o munaciello, o il principe di Sansevero! Mentre stavano distruggendo la città la gente stava prendendo fiato con quel nuovo mistero, aveva smesso di vivere sotto l’effetto di quell’anestetico che aveva il potere di omologare anche le contraddizioni più umane. Se avessi parlato avrei rotto un incantesimo.”
Barbablù, il depositario della verità, si era dunque fermato allorché attraverso il lavoro del cronista aveva visto risorgere la Napoli antica, la Napoli che mai muore, che cova sotto la cenere, pronta a fremere e a tornare a vivere con il suo onusto e nobile carico di anni.