Ho ormai una felice consuetudine con i romanzi di questo autore, che ho conosciuto e del quale mi onoro di essere amico. Persona affabile, squisita, per nulla sussiegosa, nonostante la sua indiscutibile bravura. Altri avrebbero potuto assumere una certa prosopopea, squadrarti dall’alto; non così Marino, che nella propria modestia ha un’altra delle sue peculiarità.
Ogni anno scende in Italia dall’Olanda, dove vive, per parlare del suo ultimo libro e succede sempre allorché nel mio giardino i bei tulipani dai molti colori sfioriscono. Ma quando tra fine marzo e fine aprile sono nel loro massimo fulgore, fermandomi ad ammirarli, penso sempre a lui, che passeggia sulla riva del mare di Ijmuiden.
Siamo nei mesi di febbraio e marzo del 2008. Jan Martin Van der Linden, “il codino e gli orecchini”, è stato incaricato, sotto la copertura di essere un archeologo inviato da una rete televisiva olandese, di far luce su un dirottamento di fondi europei verso la costruzione di un megaporto privato. Egli rimpiazza il precedente investigatore, Pangloss, che ci ha rimesso la vita.
Nel calarsi in certe grotte situate nella Liguria di ponente rinviene “un mestolino d’argento di stile arabo con cui due ufficiali napoleonici e disertori di Marengo avevano bevuto i loro decotti a base di hascisc e menta.” La grotta è chiamata “La Tana degli Alberibelli” e Jan scopre presto che essa è legata anche ad un mistero che risale al periodo della Resistenza.
La sua presenza è stata notata e Jan si sente pedinato: “Un gruppo di veterani della Resistenza lo faceva tenere d’occhio. […] temevano che indagasse su certi fatti, cose poco chiare, accadute, probabilmente, durante la resa dei conti.” Il periodo dell’ultima guerra costituisce uno dei temi divenuti assidui e cari all’autore. Coi suoi romanzi (da ultimo “Quella notte a Dolcedo”) Magliani cerca di stendere una rete di sensori che possano captare le risposte che ancora mancano alla storia di quei luoghi da lui amati. Questo libro diventa, così, un’ulteriore tessera importante, e quasi certamente non l’ultima. Ciò ne accresce l’interesse, e spinge il lettore che già non l’abbia fatto, a procurarsi i precedenti libri di Magliani così da avere una visione e una comprensione complessive del suo percorso. Sebbene l’autore avverta che la narrazione si avvale di personaggi e accadimenti di pura fantasia, essi sono pregnanti di storia e resi, sotto questo profilo, assai vividi e significativi.
In realtà, Jan lavora per conto di un’agenzia belga, e l’operazione, denominata Waterprofile, è stata commissionata da un Bureau europeo antifrode. In Liguria, nella zona di Santaleula si sta, infatti, costruendo un porto privato destinato a diventare il più grande del Mediterraneo: “Un prato di fiori che aveva attirato sciami d’api, ditte, faccendieri, speculatori, procuratori, architetti.” Il sospetto che la costruzione si avvalga dolosamente di fondi europei destinati ad opere pubbliche è forte, ma non è facile arrivare alla verità. Addirittura, con il ritrovamento in mare del cadavere di Pangloss, l’indagine viene momentaneamente sospesa, ma Jan riceve l’ordine di restare sul posto e di continuare le ricerche di tipo archeologico che lo hanno portato al ritrovamento del mestolino. Deve, insomma, irrobustire la sua copertura, fino a che non arriveranno tempi migliori. Ciò lo aiuterà anche a coprire le indagini che ha autonomamente avviate circa la morte del partigiano Iliev, ucciso nel ’44 nei pressi della Tana degli Alberibelli in circostanze poco chiare. I partigiani del posto si sono messi alle sue calcagna e non lo mollano, giacché temono che Iliev abbia lasciato all’interno della grotta “un messaggio per arrivare ai suoi assassini, una storia di tradimenti, di conflitti mai risolti.”
È proprio la Tana degli Alberelli ad incuriosire Jan, visto che i libri sulla Resistenza la descrivono composta da solo due stanze, mentre dai documenti rinvenuti addosso ai due ufficiali napoleonici risulterebbe composta da tre stanze. Che fine ha fatto, dunque, la terza stanza?
Ecco che Magliani, in poche pagine, con una scrittura come al solito asciutta, incisiva ed efficace, ha disteso i fili della sua trama, che ci guiderà su di un percorso tra speculazione edilizia e fatti di guerra. Una ulteriore conferma che Magliani è un narratore d’impegno che fa del romanzo il suo strumento di analisi e di denuncia.
La curiosità che Jan prova circa le cause della morte di Iliev (“Oh lui era un Dio“, gli avevano raccontato) fa da motore alla narrazione, accompagnando e anche sovrastando l’indagine sui lavori del nuovo porto privato per la quale era stato mandato a sostituire Pangloss.
Si raccontava che Iliev fosse stato ferito dai “saloini” e ucciso prima che potesse rifugiarsi nella Tana degli Alberibelli. Allora perché una Volvo bianca lo sta seguendo e i suoi occupanti, un uomo e una donna, domandano in giro a che cosa si interessi veramente e se abbia fatto domande sui partigiani? Dirà poi: “Che la Volvo fosse di gente mandata dai partigiani ormai era chiaro.” Anche i carabinieri stanno seguendo le sue mosse, e sono in contatto con un uomo importante, detto il Cavaliere, un vecchio partigiano, che chiede di essere informato costantemente. Costui è protetto da un personaggio politico, “un moderato, con importanti incarichi, sottosegretario in un paio di governi”.
Le ricerche mettono in evidenza una Liguria arcigna, carsica (“l’acqua scappava in un passaggio scavato nella pietra e si perdeva per sempre.”), fatta di grotte umide, nascoste da una vegetazione che cela ancora memorie dell’ultima guerra. Tra i rovi, coperta di polvere e di terra c’è la “la lapide di ardesia” che ricorda i quattro partigiani che, si racconta, si sono suicidati; ma niente rammenta invece il nome di Iliev.
Molti sanno “che i partigiani erano uguali agli altri, e ne avevano fatte di peggio…” Come per altri romanzi di Magliani, la sua ricerca obiettiva della verità fa ricordare Beppe Fenoglio, che, fra l’altro, viene anche nominato. Dice il padre al figlio Pietro (un cacciatore del posto che si interroga pure lui sulla morte di Iliev): “i fascisti dicevano che qualcuno gliel’ha portato su un piatto d’argento.”
In realtà le due indagini parallele, quella relativa alle speculazioni edilizie intorno al nuovo megaporto privato (“C’è di tutto nel porto di Santaleula”), e quella relativa al partigiano Iliev riescono a mettere a confronto due Ligurie differenti: la Liguria sommersa e devastata dalla modernità, movimentata e frenetica, e la Liguria antica, silenziosa, chiusa in se stessa, segreta, che la guerra ha reso perfino misteriosa.
È un occhio vigile, quello dell’autore, e la bellezza della sua scrittura risiede proprio nel fatto che il filo principale della storia (che annoda tra di loro il caso Iliev e la speculazione edilizia: “Non c’era quasi momento in cui cercava gli assassini di Pangloss che non ragionasse anche su Iliev”) è costellato di annotazioni mai invadenti che descrivono con precisione paesaggi e uomini di questa dura terra, così che la Liguria resta sempre la vera protagonista: “Tornando in Val Venanzio ci passò davanti al convento dei frati, un muro giallo in una ragnatela secca di rampicanti e un campanile.”; “Vallate interne, lapidi di battaglie partigiane, negli slarghi dei tornanti. Poi gole fredde e buie.“; “Il lampione illuminava una stradina di terra e verdura abbandonata, capanne di fagioli che la pioggia aveva ormai decomposto, capanne di lamiera, vecchi pollai.”; “Sul ponte di Leive si fermò ad osservare in basso le rocce nude e secche. Non scorreva quasi acqua.” Quando arriva la primavera, fa dire a un suo personaggio, Bacì: “Le giornate rimangono incastrate nelle pietraie, d’ora in avanti sarà dura far venire la notte”. Il cacciatore Pietro racconta: “Da bambino […] gli scogli di Robavilla erano schiene di balene.” Sono solo alcuni esempi.
È un romanzo che non si può leggere in fretta, il lettore dovrà sapersi ritagliare il tempo necessario per godere le nicchie di bellezza che si annidano nella scrittura. Ancora: “Era questo posto, era la Liguria. Se uno non era nato qui, le cose facevano pena. Se uno era nato qui le aveva già dentro.” Non solo: Jan entra in una libreria e compra “Attesa sul mare”, un libro di Biamonti, un’icona, un simbolo, una bandiera di questa terra. Così, con una operazione semplicissima e di squisita dolcezza, Jan non è più un olandese, sibbene un ligure, Jan è Magliani. Che cosa farai per vivere? gli domanda verso la fine la compagna Loredana. Risponde: “Io ho due mani sinistre. Però parlo bene spagnolo, inglese, francese e italiano. Tradurrò qualcosa per gli avvocati, lo facevo un tempo, oppure tradurrò i romanzi di qualche ligure che mi piace, c’è un grande poeta che ha scritto: archeologo dei miei giorni… O certe cose di Biamonti, se qualche editore me l’offrirà…”
Il groviglio degli avvenimenti si fa ancora più intricato per Jan. Gli stessi interessati alla speculazione del porto cercano di accaparrarsi anche il monopolio dell’acqua. Si coltiva sui monti, in luoghi resi inaccessibili, perfino la marijuana.
Jan viene a conoscenza di tutto questo, cerca di darsi delle risposte, ma ciò che continua ad assillarlo è il segreto racchiuso nella Tana degli Alberibelli. Si mette alla ricerca di un vecchio partigiano superstite, soprannominato Bacì, “alto e magro”, da cui spera di carpire la verità sulla morte di Iliev. Prima però Bacì viene rintracciato dai due occupanti la Volvo, un uomo e una donna, e quest’ultima informa subito il Cavaliere, il quale a sua volta comunica la notizia anche al maresciallo dei carabinieri Bonellu. Forse si sono assicurati l’omertà di Bacì: “Con Bacì era tutto a posto.” Come vedete, Magliani sa creare la giusta atmosfera di suspense, tutto si sta trasformando in una corsa contro il tempo. Inoltre, qualcuno lascia degli oggetti davanti alla sua porta come se volesse comunicargli un messaggio. Nessuno sa chi sia. Lo scopriremo solo alla fine. Lo stesso maresciallo Bonellu sembra celare un segreto (“il maresciallo sta al gioco con qualcuno…” sospetta Jan).
Magliani mostra di saper condurre lucidamente una trama complessa e sempre più serrata e districarla poi a poco a poco come neve che si sciolga. Finché sulla carta, sulle ultime pagine, oltre al nome del colpevole, resterà il suo pensiero, nitido, chiaro: una denuncia, e più ancora resterà il coraggio di aver messo il dito su una piaga scomoda che, se ha segnato ignominiosamente il passato, allo stesso modo, per un’omertà tenace, un colpevole silenzio, segna il presente. Non per nulla in una nota, nel capitolo 51, l’autore, nel ricordare il nome di una via, via Cascione, scrive: “Felice Cascione, medaglia d’oro al valore, era stato dottore e partigiano, il grande capo della Resistenza imperiese, ucciso anch’egli in circostanze poco chiare.” Lo stesso accadde a Lucca, negli anni subito dopo la guerra, quando verrà trovato misteriosamente impiccato nella sua casa uno dei migliori partigiani italiani, Manrico Ducceschi, conosciuto come “Pippo”.
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