L’esempio

di
Grazia Deledda

tempo di lettura: 13 minuti


Fra i due, il cacciatore e il cane, questo sembrava il più felice. Era veramente una cagna, da presa, piuttosto anzianotta, grassa, con una faccia buona ma di una bruttezza da vecchia beghina: ipocrita, però, perché quando si trattava di caccia si trasformava in un ferocissimo leopardo. Ne aveva l’aspetto e l’agilità snodata, rimbalzante, quasi elettrica, quella mattina del tardo gennaio che sembrava una mattina di aprile. Da sei mesi il padrone non s’era più mosso dal paese, anzi da casa sua, come fosse malato o precocemente rimbambito e imbecillito: sempre accanto al fuoco, nella grande stanza da pranzo che sembrava una sala d’armi, tanto era piena di moschetti, archibugi, fucili, coltelli da caccia, corni e cartucciere; fumava la pipa e sputava sulla fiamma che si ritraeva indietro indignata. Per conto suo Dama, la cagna, avvilita e annoiata, dopo essergli stata un po’ accanto, sbadigliando e stiracchiandosi inutilmente, se ne andava nell’attigua cucina, a rosicchiare gli ossi, a subire l’umiliazione delle pedate della vecchia serva o, peggio ancora, le attenzioni della servetta, che pretendeva di farle leccare gli avanzi del suo caffelatte; finché, stanca di questa miserabile vita, si era data anche lei ai facili e disonorevoli amori della strada, rimanendo pregna di un sudicio cane da pastore.

Era stata l’unica volta, durante quegli ultimi mesi, che il padrone, uscito dalla sua apatia come da una prigione di malfattori, aveva dato in escandescenze tali, con insulti e vituperi non solo alla cagna ma anche alle serve ed a persone che fortunatamente non erano presenti, che persino la vecchissima zia sorda e paralitica, che abitava l’opposta ala della casa, aveva domandato se nella strada c’era una rissa. L’aveva domandato all’altro nipote, il fratello del cacciatore, che la curava e sorvegliava perché il testamento di lei era tutto in suo favore: ed egli, facendole capire che gli urli erano del fratello, si era battuto l’indice sulla fronte. Pazzo, sì, da qualche tempo; infatti quell’altro dava segni di esserlo: e zia e nipote ne sapevano il perché.

Ad ogni modo Dama fu lasciata partorire, e i cagnoli bastardi buttati nel precipizio sotto il paese: tutto il giorno e anche la notte, la cagna si aggirò disperata nella cucina, ove le donne la tenevano chiusa, raspò gli usci, rifiutò da mangiare. Si temette che diventasse idrofoba. Fu allora che il padrone si decise di portarla a caccia.

E caccia grossa avrebbe dovuto essere, poiché egli si sentiva un cuore nero da prendere leoni. Anche Dama, dopo essersi trascinata fiutando nelle straducole la traccia dov’era passata la servaccia col cesto dei cagnolini buttati nel precipizio, appena fuori del paese diventò un’altra. Si sollevò, si snodò con movimenti felini, balzò sui margini della strada campestre, fra i poggi e la valle, e fermandosi su un dirupo abbaiò.

L’eco ripeteva l’avviso; veramente pochi altri segni di allarme rispondevano dagli uliveti della valle e dalle macchie dei poggi. E nessun altro cacciatore disturbava il luogo. La stagione non era adatta: faceva troppo caldo; si vedevano i campi già verdognoli di grano precoce, e i mandorli fioriti; soffi di scirocco venivano dalle lontananze marine, e il cacciatore, preso a salire l’erto poggio, cominciò a sudare miserevolmente: anzi, d’un tratto si abbatté su un masso, e sputò sui cespugli come faceva sul fuoco di casa sua. La cagna parve guardarlo disorientata e avvilita: ed egli, quasi per farle dispetto, trasse e accese la pipa. Questo era il colmo: Dama abbassò le orecchie e cercò qualche cosa da poter sbattere col muso, come quando la servetta le offriva il fondo del caffelatte. Sembrava, sì, che il padrone si beffasse di lei, che l’avesse portata a spasso solo per farle prendere aria come usava donna Palmira col suo cagnolino coevo di Matusalemme. Il cacciatore fumava, sputava, coi grossi piedi affondati in un cespuglio d’euforbia: pareva lui un volpone preso dalla trappola.

Ma ecco d’improvviso si scuote, si drizza sull’alta persona massiccia, e un’ombra vermiglia gli passa sul viso barbuto: ha vergogna di essersi lasciato sorprendere seduto frollo su una pietra, come una donnicciuola venuta a far legna nel bosco: balza su, si tira sul ventre la casacca di velluto rossiccio, solleva il fucile sulla spalla e fischia al cane, con un sibilo di uccello da preda che si converte nel brivido col quale tutto il corpo di Dama risponde.

Eppure l’uomo che scendeva dalla svolta del sentieruolo era un vecchietto con una logora sacca sulla gobba e un bastone di legno fresco: sembrava un mendicante, e un po’ lo era, perché vivacchiava girando per gli ovili ospitali dei pastori di pecore e di porci. Ma un tempo era stato servo in casa del cacciatore e conosceva la storia sua e del fratello, rimasti presto orfani, ma in breve diventati forti, virili, uniti da un affetto, più che di fratelli, di amici. Un dramma aveva devastato la loro giovinezza. Una donna già quasi vecchia, di cattiva fama, un’esperta maliarda in amore, aveva stregato e si era fatta sposare dal primogenito; il fratello e la ricca zia materna si erano separati da lui, rinnegandolo per l’eternità: adesso, dopo solo qualche mese di matrimonio, egli aveva cacciato via di casa la donna; ma la sua vita gli sembrava un edificio crollato dopo un incendio. Sdegnava però ogni commiserazione, ogni riadattamento col prossimo: il disprezzo altrui, il dolore proprio se li divoravano il suo orgoglio e un poco anche la sua forza fisica: ma se li risentivano, come di un pasto da belva, di carne cruda sanguinante. Per digerirli, andava a caccia, e nelle soste solitarie in casa sua fumava tabacco forte e beveva vino come quello, diceva la vecchia serva, che beve Lucifero nella cantina dell’inferno.

Da alcuni mesi, però, sembrava cambiato: non usciva più e beveva meno: solo la pipa fumava sempre fra le sue labbra come il piccolo cratere di un vulcano.

L’omuncolo col bastone gli fu davanti senza dare molta importanza all’incontro: parve più interessato delle rimostranze di amicizia che la cagna, riconoscendolo, gli faceva.

— Andiamo a caccia, eh? È da tanto che non ci si andava. Ma abbiamo avuto qualche disavventura amorosa, eh?

Per chi parlava? Il cacciatore non si degnò rispondergli, se non quando il vecchietto disse:

— Fai bene ad andar su: in valle non ci sono che passeri.

— E per passeri sono uscito — rispose allora, dispettoso: perché neppure in fatto di caccia voleva pareri e consigli da nessuno. Il vecchietto tuttavia insisté:

— Tu, passeri? Ricordi, Gregorio, l’anno della grande bufera? Con tutto quel diavolio sei andato su, fino alla conca di Pietranera, e hai cacciato un’aquila. Adesso i pastori hanno visto un cinghiale, ma non riescono a prenderlo: se ci vai tu lo prendi col solo fiuto.

Il cacciatore sorrise, di traverso: tant’è, l’adulazione consola anche i disperati. E Dama, nel capire di che si trattava, si drizzò sul vecchio, quasi per ascoltarne meglio le parole: le grandi orecchie le tremavano come quella volta, al grande vento, quando Gregorio aveva preso l’aquila.

Ma il padrone era subito ricaduto nella sua ombra. La gloria non serve a niente, quando non si ha più nel cuore l’amore per gli uomini. Ma il vecchio era testardo: aveva piantato il bastone fra due pietre e lo guardava, come aspettando di vederlo d’improvviso germogliare.

— Capisco, Gregorio: non ci hai neppure la cartucciera, neppure il carniere né la zucca dell’acquardente. Ma a te, che ti fa? Hai le gambe di puledro e le pietre si scostano per farti passare. Va su, dammi retta. Pare sia una femmina, perché è rossa e nera: sono più onorevoli da cacciarsi, le femmine del cinghiale. Va, va: non è la giornata della grande bufera, quando anche le querce si schiantarono: ma le belle giornate sono più onorevoli, per un bravo cacciatore. Va, va: andate con Dio.

E tirò un’orecchia alla cagna, che guaì di gioia e poi abbaiò verso il padrone. E fu adesso il padrone a sentire un brivido: come in un miraggio di vapori fulgenti rivide tutto il suo passato; l’adolescenza selvaggiamente bella, la prima gagliarda e audace giovinezza, la caccia all’aquila, le feste col fratello, il canto e gli amori. Poi tutto sparve; la sua ombra deforme, ai suoi piedi, gli pareva la sola vera sua persona: ma quando il vecchio se ne andò, tirandosi su la sacca dalla quale, nella sua povertà e nel suo ricordo fedele, aveva gettato il buon seme della carità umana, il padrone ricordò anche il giorno della grande bufera, quando aveva lottato coi venti e con le aquile.

Ed egli va su, su, oltre il poggio, fino alla località del monte detta della Pietranera.

Questa pietra, nera davvero come un enorme blocco di carbone minerale, stava affondata tra i rovi, nel centro della grande conca; e fra esili graniti bianchi, simili a stele, pareva il demonio fra anime innocenti. Si diceva, infatti, fosse un monolito caduto al tempo della rivolta degli angeli, quando anche le stelle, travolte dalla caduta dei ribelli, s’infransero: e che, a sollevarlo, ci si trovasse sotto un’entrata all’inferno. Il luogo era certamente strano, covo di bestie selvatiche, rifugio di uomini banditi e cacciati dagli altri uomini, meta di pastorelli in cerca di avventure sovrannaturali. Anche le querce si erano fermate sull’alto delle rupi, sull’orlo della conca, quasi diffidando di crescervi dentro: e il sole lo sfiorava, girandovi intorno, illuminando solo, dall’alto dello zenit, la pietra misteriosa.

E il cacciatore, che aveva ripreso tutte le sue antiche energie, guardò anche lui dall’alto della conca, come quando, nel bere il vino forte, guardava dentro la coppa che lo distoglieva dai suoi bassi pensieri: di nuovo si sentì dritto e audace; si tolse il berretto, scosse indietro i capelli inselvatichiti come il puledro liberato dal freno.

— Cerca — disse alla cagna; e quella si slanciò giù volando sulle rocce; sparì, infiltrandosi fra i cespugli e le macchie come un uccello; riapparve in fondo, intorno al masso nero; si vedevano i suoi occhi scuri scintillare diabolici, quasi per il riflesso della pietra, e il padrone a sua volta ne sentiva il riflesso nei suoi. Scese anche lui e si appostò a metà della conca, col fucile pronto: se il cinghiale c’era non gli sarebbe sfuggito certo, fosse la femmina, o il maschio ipocondriaco che difende la sua libertà anche assalendo l’uomo come una belva del deserto. Il cacciatore però si sentiva anche lui un po’ belva: anche lui, come appunto il cinghiale, aveva cacciato via dal suo covo la femmina, dopo aversela goduta, e adesso difendeva la sua miserabile libertà con le armi selvagge della solitudine. Belve, del resto, tutti: la donna che gli aveva bevuto il sangue, lo stesso fratello che gli rubava la sua parte di eredità e stava in agguato presso la zia selvatica aspettandone la morte, come egli adesso il passaggio del cinghiale.

La cagna intanto non ricompariva e non se ne sentiva neppure il leggero fruscìo. Tutto intorno era immobile, in un silenzio freddo e pesante, sotto il cielo di un azzurro di diaspro, che aveva anch’esso qualche cosa di pietroso. Cominciando a inquietarsi, l’uomo ricordò certe leggende, di uomini e bestie che sparivano nella conca, senza che più nulla se ne sapesse: neppure le ossa si ritrovavano: egli non ci credeva, o meglio credeva che, più malefici dei diavoli nascosti come vermi sotto la pietra, uomini malvagi combinassero quelle sparizioni. Il primo sospetto che qualche lesto e poco scrupoloso pastore gli avesse accalappiato la cagna lo infocò tutto: allora sentì davvero sapore di sangue, e un senso di odio contro tutta l’umanità gli calò come un avvoltoio sul cuore. Sentì che, se la cagna avesse sofferto il minimo danno, la sua vendetta si sarebbe estesa come un incendio che da lungo tempo cova: contro tutti; la donna, il fratello, la madre stessa se fosse stata viva.

E la cagna davvero non ricompariva; ed egli fischiò, urlò, riempì di echi belluini quel cimitero di pietre.

Da quel momento gli parve di entrare in una specie di allucinazione. Si mosse e andò in cerca della bestia: scivolò, si graffiò tutto, lottando con un rovo che lo tratteneva con morsi di serpente; girò più volte intorno al masso, col desiderio puerile di smuoverlo, come se Dama fosse stata ingoiata dalla bocca infernale. La pietra pareva sorridere: vista da vicino era quasi turchina, con sfaccettature brillanti.

Per quanto esplorasse tutta la conca, il cacciatore non trovò la cagna: esasperato risalì dal lato opposto, deciso di spingersi fino all’ovile dei porcari. Ed ecco, mentre attraversa una breve radura, dolce di verbaschi argentei e di felci nuove, vede Dama sbucare dal limite del querceto e corrergli incontro, poi tornare indietro sui suoi passi, indicandogli la via da seguire. Ci siamo. Ha certamente trovato la tana del cinghiale, e manovra in quel modo per non allarmare la preda. Il cacciatore dunque la segue, ma è di nuovo disorientato perché si accorge che il cane ha un modo insolito di correre, fermarsi, voltarsi, ascoltare, fermarsi ancora ad aspettare il padrone. E poi i suoi occhi sono ritornati buoni, domestici: pare che, invece di trovarsi a caccia di cinghiali, si diverta a giocare nel cortile di casa.

La spiegazione non tardò: poiché in un piccolo anfratto, fra quercioli nani e pietre barbute di rovi, in una specie di nicchia, l’uomo finalmente vide tre cinghialetti che avevano ancora le gambe molli e il pelo giallo e nero umido di sangue: aggrovigliati ancora, come nel ventre materno. Dovevano esser nati da poco, abbandonati momentaneamente dalla madre andata in cerca di cibo.

Il cacciatore si piegò a toccarli, ed essi si sciolsero: i piccoli occhi lo guardarono senza paura: poi uno di essi aprì il muso e leccò l’altro. Avevano fame; e l’uomo, calcolando il tempo dell’assenza della madre, pensò che essa forse era stata veduta e cacciata dai pastori; altrimenti sarebbe stata già di ritorno. Ad ogni modo si poteva aspettarla, caso mai tornasse. Si appiattò dunque di nuovo, a tiro di schioppo, lasciando che Dama, a sua volta, seguisse il suo istinto infallibile: ma, cosa che gli parve straordinaria, si avvide che la cagna si aggirava moscia intorno al covo, fiutando la terra con le orecchie basse come faceva quando frugava nella cucina di casa in cerca di cibo.

Allora pensò che anche lei doveva aver fame; poiché egli era uscito di casa sprovvisto, col solo istinto di togliersi dal suo lungo stordimento, di sfuggire ai pensieri vili che gli piluccavano il cuore come le volpi affamate, quando non hanno altro cibo, si nutrono del frutto del corbezzolo. E, ripreso da propositi che gli sembravano gagliardi solo perché eran feroci, continuò ad aspettare la femmina del cinghiale: l’avrebbe squartata per darne le viscere al cane.

La madre però non torna, e il cane si fa sempre più strano, inquieto, ma di una inquietudine mansueta, come quando lungo la strada fiutava il passaggio dei suo poveri cagnolini buttati nel precipizio. Ed ecco, sotto il sole sempre più alto, il buon sole che illumina anche le pietre maledette, e fa scintillare come fiamme verdi le giovani felci, il cacciatore crede di riprendere a sognare come nelle notti di luna i piccoli pastori erranti.

È un sogno antico, di quando le fate abitavano i boschi, e uomini e bestie si amavano come eguali, sotto la legge dell’innocenza che non conosce né il peccato, né l’odio, e neppure il dolore.

Dopo giri e rigiri simili a quelli di un vortice che attira al suo centro, la cagna si era avvicinata ai cinghialetti, e li annusava: uno di essi, quello che sembrava il più ardito, il primogenito, allungò il muso fino ai penduli acini del ventre di lei: ed essa si stese, e i tre orfani poterono succhiare il latte delle sue mammelle.

Storie da cacciatori? Sarà. Il fatto è che abbiamo veramente conosciuto il signor Gregorio, quando egli aveva ripreso cristianamente in casa la moglie e fatta la pace col fratello.


Fine.


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TITOLO: L'esempio
AUTORE: Grazia Deleddda

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: {Novelle} 6 / Grazia Deledda - Nuoro : Ilisso, \ 1996 - 278 p. - 18 cm. - Bibliotheca Sarda. Fa parte di: Novelle / Grazia Deledda ; a cura di Giovanna Cerina

SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)