Racconto d'inverno
Racconto d’inverno

L’autore, classe 1963, è leader di un gruppo musicale romano, “Arpia”, e il libro – il suo esordio nel romanzo – è parte di un progetto multimediale che include anche il nuovo cd degli Arpia, che ha lo stesso titolo ed è uscito per l’etichetta francese Musea.
C’è una misteriosa guerra tra due bande rivali. Nel tentativo di fuggire, il protagonista scopre nella boscaglia una casa diroccata, forse una residenza estiva di una famiglia nobile, in disuso da molto tempo. Ne è attratto. Vi abita uno strano individuo dallo “sguardo di civetta” (sapremo che è un bambino), il quale si propone di guidarlo in un luogo sicuro lontano dalla guerra. Inizia così un viaggio tra realtà e sogno, in cui i piani interpretativi diventano molteplici e carichi di un simbolismo dai molti significati. Uno di questi è la fuga da una realtà rapace e eternamente conflittuale verso un destino incognito, al quale ci conduce un percorso intriso di mistero. Un’avventura dello spirito da cui la ragione si lascia avvolgere e guidare. Un abbandono tanto più necessario in quanto è il solo che possa aiutarci a oltrepassare un confine, di cui al momento riusciamo a percepire soltanto il respiro liberatorio. La scrittura, un po’ sofferta in principio per qualche residuo di impurità, a poco a poco si adegua al viaggio e ne assimila i contenuti onirici. Occorre, infatti, una lunga consuetudine con un mondo che non può essere mai del tutto esplorato. Non è facile dare ai sogni un senso che tracci un percorso netto e illuminante anche per il lettore. Spesso la carica di simbolismo è tale da rischiare di introdurlo dentro un autentico labirinto, il cui esito è quasi sempre un addensarsi di intuizioni e sensazioni variamente interpretabili. L’uomo-bambino che fa da guida al protagonista ha subito delle atrocità nella sua casa, in conseguenza della guerra; i suoi genitori sono stati massacrati, e lui stesso è sfuggito per miracolo alla morte; la sorella invece è riuscita a scappare. Questa sorella incombe nella storia, e la sua presenza arriverà a dominare e ossessionare i pensieri del protagonista, che non ha un nome, come senza nome sono tutti i personaggi.
Dentro la casa, infatti, la stanza di “lei“, nascosta in qualche parte, sembra attrarlo in virtù di una forza misteriosa che si è impossessata della sua mente (“Il mistero era solo un mio incubo privato”). La fuga dalla guerra, dunque, si interrompe di fronte al mistero di quella casa.
Lasciato solo dalla guida-bambino (“lui“), egli inizia un’ispezione scrupolosa, nel corso della quale paure, ombre, presentimenti, allucinazioni diventano i simboli di una ricerca: la ricerca di un’aspirazione sopita e che le circostanze della guerra hanno ridestato. La sua intimità, ossia, atterrita dalla guerra, aspira a rifugiarsi dentro uno spazio non più misurato dal tempo, una “non vita“. La casa si trasforma, così, nell’inconoscibile che si offre a noi come una prova, di cui resta incerto l’esito finale. Un po’ di “Shining” (nella casa si è consumata una tragedia, di cui si avverte ancora l’occulta presenza) e un po’ de “Il posto delle fragole” (un orologio senza le lancette) sembrano inserirsi nella fervida e orrifica (si pensi al lugubre cimitero in cui capita il protagonista) fantasia dell’autore, in un vortice di immagini, in cui ogni visione sembra dirigersi e frantumarsi dentro un ingranaggio subliminale: “Ero sdraiato sul materasso maleodorante della mia camera mentre cercavo di ripensare alla casa nella forma che aveva preso corpo dentro di me.
La casa si rivela un labirinto immerso nell’oscurità, come d’altronde lo è anche la vita; essa diventa metafora del rapporto che ciascuno di noi ha con la propria esistenza (“La mia via dunque era solo una fuga; eppure non sapevo bene né da cosa, né tanto meno verso che cosa.): ritornano il mistero, il buio, l’ansia e l’angoscia che accompagnano la vita di ognuno. Il riferimento ad Edgar Allan Poe è obbligatorio in tutte le opere che, come questa, interiorizzano la ricerca del proprio io.
Le descrizioni dei paesaggi assumono valenze surrealiste, con scorci la cui orrificità è il riflesso di una immaginazione scossa e allucinata: “Eppure i larici scheletriti mostravano dita ostili, e solo piccoli fiori bianchi, della stessa insolita specie, sbocciavano tra le pietre. L’aria grigia, muta della voce degli uccelli, conservava nel fondo valle deserto una bellezza scomposta.”
La seconda parte, che è anche la migliore e stilisticamente più matura, va acquistando a poco a poco una coloritura gotica, dentro un percorso che avviene quasi interamente nel buio scantinato della casa, dove la guida è andata a nascondersi per compiere strani rituali. L’autore usa minutamente descrivere i propri movimenti, così che non ci abbandona mai l’impressione del labirinto interiore in cui, sebbene vi compaiano ogni tanto deboli riflessi di luce, essi non riescono mai a scalfire la sensazione di paura e di solitudine che accompagnano il protagonista. Una “sterminata” biblioteca piena di libri antichissimi e ammuffiti, confinati nell’oscurità, tracciano il segno di un decadimento della civiltà prodotto dalla guerra, la quale assedia e tramortisce la mente. Probabilmente quei libri “rappresentavano l’unico tramite di un universo in cui si sarebbe potuto ancora credere sotto l’assedio della guerra”. Mandarli in rovina voleva dire “far perire nella maniera più dolorosa possibile la causa stessa di quel sogno, di quella speranza, di quella fede.”
Quando arriveremo alla parte finale e scopriremo la stanza di “lei“, ci renderemo conto che abbiamo percorso una storia di morte, in cui speranze, attese, paure, desiderio di fuga, si sono bruciati e ricomposti in un amalgama nuovo e immemore: “Né so cosa sia la vita; la guardo da quaggiù, da questo interregno senza nome che chiamo non vita. È il luogo migliore da cui poter raccontare la mia storia solo per far sapere che un giorno ho cessato di esistere.”

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