Solstizio invernoRari sono coloro che potranno comprendere questi canti, con la loro trascendenza che continua a crescere all’infinito. Essi richiedono un altro occhio, per il quale gli oggetti tangibili non sono che apparenze». Così scriveva Oswald Spengler nelle sue Riflessioni sul lirismo, in una pagina citata, molto a proposito, da Roberto Roversi in esergo alla sua postfazione a Solstizio d’inverno (Book Editore, Castelmaggiore 2008, pp. 96, euro 12,50), la seconda raccolta di Simone Salandra, giovane poeta bolognese.

In effetti, l’»oscurità», l’intrinseca «difficoltà», il carattere talora arduo, dissonante, scontroso, di questa poesia non nascono da un cerebralismo sterile e compiaciuto: essi sono, piuttosto, simili a quella virtuosa ed essenziale obscuritas – necessaria perché dettata dalla densità e dalla tensione del pensiero, del travaglio, della visione – che è di Persio come di Mallarmé, di Scève come di Valéry, di certo Rilke come di Celan.

La storia, gli eventi parrebbero, di per sé, rinviare ad una metastoria, ad un ordine superiore, ad una predeterminata concatenazione di ere, cicli, evi – ad una, in termini filosofici, «storia ideal eterna» o «astuzia della ragione». Eppure, ad uno sguardo acuto e disincantato, «l’incuria degli dei si fa palese». La superficie evenemenziale del divenire storico non sembra sorretta da nulla, né rinviare a nulla – o meglio, direbbe Heidegger, sembra evocare e rappresentare, appunto, il nulla – essere fondata sul vuoto, sulla mancanza, sull’insensato. La storia è racconto, parola, scrittura – dunque assenza, intangibilità, simulacro, filo di canto sospeso sul silenzio.

Come l’archeologo (si pensi al D’Annunzio della Città morta, o alla grecità franta, disseminata, semisepolta di Seferis o dell’ultimo Quasimodo), il poeta ascolta e ripete «la segreta lezione delle cose che passano»; il suo discorso tende alle colonne d’Ercole o all’ultima Thule dell’oblio e del silenzio, al «punto limite / dove le ore tacciono». «Parole ed ombra, quello che la memoria / molto spesso lascia / è un parlare in absentiam». «Oltre i lidi il vuoto ascolta».

Le ideologie e le parole d’ordine non sono, ormai, che «codici cifrati al limitare del sentiero» – cioè precari, transeunti, sempre orlati dall’ombra che li insidia. «Anche le civiltà finiscono / mormorano i misteri» («muoiono le città, muoiono i regni», recita un verso del Tasso, davanti alle rovine dell’»alta Cartago» – e Ungaretti aggiunge, nell’angoscia, che «anche il cielo stellato finirà»).

Non è, quella di Salandra, «storia antiquaria», e men che meno «monumentale» – ma neppure «storia critica» in una qualsiasi accezione ideologica. Il poeta è, al contrario (e ben più di tanti minimalisti postmoderni), consapevole della finis Historiae, del crepuscolo dell’Occidente, dell’ingresso in un’era post-ideologica, tarda, declinante – quasi, direbbe Verlaine, da «Impero alla fine della decadenza».

Non è casuale la sua predilezione per una certa latinità argentea e postclassica, da Lucano a Rutilio Namaziano – senza, peraltro, alcun morboso compiacimento estetizzante per la fosforescente pourriture di una lingua in graduale, brulicante disfacimento.

L’immagine del confine, del margine, della frontiera, del limite – del «recinto sacro» inviolabile, eppure sempre lambito e insidiato dalle ali gelide del tempo – fa pensare al Cesare lucaneo che, varcato il Rubicone, lasciatesi alle spalle le «onde del fiume infranto», si abbandona, conscio, ai tragici fati, da lui stesso plasmati, della repubblica morente – o a Rutilio che, dopo aver salutato l’alma Roma, nonostante tutto (ma ancora per poco) sempre gloriosa pur nel declino della civiltà, deve «sciogliere l’abbraccio della città amata» e incamminarsi, mesto, per vie di rovine.

E si potrebbe citare ancora Spengler – l’idea del «divenuto» come esito irrimediabile del «divenire», la convinzione (che era già di Seneca discepolo di Cleante) che «fata volentem ducunt, nolentem trahunt», il destino guida dolcemente chi lo accetta, e trascina a viva forza chi recalcitra di fronte al pungolo (nel che sta l’essenza dello stoico, e poi nietzscheano, amor fati, della ferma, eroica, supremamente consapevole, accettazione ed interiorizzazione della sorte già segnata).

«La densità di un culto si misura meglio / al disfarsi di un impero» – «nel caos delle forme», «nei vaticini / disgiunti di una fede». Una scrittura aforistica amara, lucida, classicamente matura (che può riecheggiare la sentenziosità marmorea, metatemporale, di un Marco Aurelio come di un Guicciardini o di un Pascal) fissa e deposita sulla pagina la sostanza di una visione della storia segnata dall’immobile divenire, dall’»immoto andare» di una fatalità inflessibile.

La brevitas, la concisione densissima e ardua non è, allora, esito di un pensiero angusto, dal respiro breve e discontinuo, ma, semmai, cristallizzazione depurata e filtrata delle lunghe meditazioni che alimentano questa preziosa, parsimoniosa e finissima vena poetica.

La classicità non è più, come voleva il vecchio umanesimo retorico, «fons iugis aquae», sorgente di valori universali e perenni. Essa stessa soggiace al divenire della storia; proprio nella sua transitorietà, nella sua lontananza, risiede la sua lezione ormai fioca. Essa è al di sopra, al di fuori del tempo proprio perché al di là di esso, solcata e velata da uno iato millenario, da uno sconfinato vuoto, da un’alterità assoluta. «La condanna dell’ora, i silenzi del testo, / contra-dire il tempo è, in un certo qual modo, / divenire classici e finire / al di là di dove / è più di un transito il passaggio».

Dire il tempo a ritroso, rinominare la storia dopo la sua fine, «risalire alle fonti» lungo un corso spezzato, ormai intorbidato ed irrimediabilmente impuro: tale la condizione di classicità (maturità ultima, che precede di poco la putredine) in cui questa stessa poesia si colloca, proiettando e rispecchiando, solo un poco più limpida, la decadenza presente nel declino (già consumato, e per ciò stesso eterno ed inviolabile) dell’antico.

Ma quelli che precedono non sono che brevi, parzialissimi appunti. Nelle pagine di Salandra (quasi come in Celan o in Heidegger) sembra che ogni riga, ogni verso, ogni parola si dischiudano, febbrilmente, a germinazioni e fioriture sconfinate, tendenti all’infinito – fin quasi a volere, uno ad uno, come infinite rifulgenti monadi, «aboutir à un Livre».

Matteo Veronesi

Alcune poesie di Simone Salandra:

http://www.bibliomanie.it/poesie_dentro_salandra.htm

Per acquistare il libro:

http://www.ibs.it/code/9788872325926/salandra-simone/solstizio-inverno