L’anima del mondo.
di
Cordelia
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I.
Il cancello di casa Arlandi s’aperse con impeto e un carro carico di pietre, di colore e forme diverse, entrò con fracasso nell’ampio cortile.
Una donna di mezza età, alta, dalle forme opulente, con una veste da camera color melanzana, comparve sulla porta della casa e, vedendo il carro, disse con modo dispettoso agli uomini che l’avevano guidato:
— Chi vi manda? È certo un errore; noi non abbiamo ordinato nulla.
— Scusi, signora Savina, — disse il conduttore del carro levandosi rispettosamente il cappello, — è un carico che viene dalla Germania ed è diretto al professor Ugo Arlandi.
— Infatti mio figlio mi annuncia una spedizione d’un minerale prezioso per le sue indagini scientifiche, — disse un signore piccolo, tarchiato, coi baffi brizzolati, che udite le ultime parole era uscito nel cortile.
— E dove dobbiamo mettere tutta quella roba? — chiese la signora Savina.
— Naturalmente nella stanza accanto al laboratorio, come scrive nella sua lettera, — soggiunse il signor Carlo Arlandi.
— Ma sai che è pazzo davvero quel tuo figliuolo!… tutto quel peso lassù, ti pare? cadrà la vôlta.
— Via, non c’è pericolo, la casa ha solide fondamenta; ma tu che fai, Mario? — disse rivolto ad un ragazzo di undici anni, che era entrato improvvisamente nel cortile e si era impadronito d’un mucchio di quelle belle pietre variopinte e si preparava ad adoperarle per i suoi giuochi.
— Faccio un castello per divertirmi, — disse il ragazzo, — vedi? uno scoglio alto alto, e poi, su, una torre ancora più alta.
— Lascia quella roba che non è per te, — gli disse il padre dandogli uno scappellotto.
— Poverino, ha più ragione di Ugo che compra delle pietre per nulla; almeno Mario si diverte.
— Non deve toccare la roba degli altri, — soggiunse impazientito il signor Carlo.
Quella scena coniugale sarebbe certo terminata in litigio, se in quel punto non fosse entrata dal cancello una donna ancor giovane, d’aspetto simpatico, colla faccia illuminata da un sorriso buono, tenendo una lettera aperta in mano.
— Sapete, — disse, — Ugo arriva questa sera, mi raccomanda il suo minerale, ha dovuto raccoglierlo con gran fatica e pagarlo caro.
— Bene spesi quei denari, — disse la signora Savina.
— Pare sulla via d’una grande scoperta, — soggiunse la signorina, continuando il suo discorso.
— Ecco un’altra allucinata, — borbottò Savina rivolta al marito, — tutti e due della medesima razza.
La giovane finse di non udire quelle parole e, vedendo Mario che continuava a trastullarsi colle pietre; si rivolse all’Arlandi e gli disse:
— Ma, Carlo, perchè permetti a tuo figlio di sciupare quel minerale? Sai bene a che alto scopo deve servire, e poi ha molto valore, lo ha scritto Ugo.
Il signor Carlo andò tosto verso il figlio, lo prese per un braccio, e:
— Via, — gli disse colla voce irritata, — va’ a giuocare in giardino, ubbidisci, hai capito?
Il fanciullo si mise a strillare come se l’avessero bastonato, e la signora Savina lo condusse fuori del cortile, dando un’occhiata feroce al marito e alla signorina Giulia, che, come sorella della prima moglie dell’Arlandi, era venuta ad intromettersi nelle loro faccende domestiche.
Giulia crollò il capo in atto compassionevole e disse al cognato:
— Quanto ti compiango! e come devi soffrire nell’assistere al dissidio che continua sempre fra tua moglie e il figlio della mia povera sorella; eppure Ugo è così buono, intelligente e fa onore alla nostra famiglia.
— Tu hai un debole per quel figliuolo; — disse il signor Carlo, — e vai all’esagerazione; non nego che sia studioso, ma finora ha lavorato come un bue, si è sciupato la salute, ha speso una quantità di denaro, e non ha dato nessun risultato. Mia moglie non ha tutto il torto, è un po’ provinciale e certe cose non riesce a comprenderle, ma non mi pare che Ugo sia del tutto equilibrato.
— Voi non capite nulla nè l’uno nè l’altra, — disse Giulia. — Sapete che cosa devo dirvi? Che sono sola a comprendere quel figliuolo; e invidio quel suo amore alla scienza, quella sua costanza nel desiderio di riuscire, che se lo lascerete in pace gli apporterà gloria, quattrini e vi farà onore.
— E se non riuscisse a far nulla? — disse il signor Arlandi.
— Non è possibile, ogni fatica deve avere la sua ricompensa; in ogni caso non fa male a nessuno, mia sorella lo ha lasciato ricco e può spendere il suo denaro come gli piace; preferireste che lo spendesse al giuoco o in gozzoviglie? No certo; dunque dà retta a me, guarda le cose come sono e non lasciarti suggestionare da tua moglie, che per lui è una vera matrigna, specialmente dopo la nascita di Mario; ma tu devi proteggerlo, difenderlo, il tuo Ugo, almeno per la memoria della povera Ada che ti ha reso tanto felice…. Via, non commuoverti, ora, cerca di far mettere a posto quel minerale; io vado a casa perchè, se Savina ritorna, non posso tacere…. Verrò questa sera quando arriva Ugo.
Appena Giulia si fu allontanata, il signor Carlo diede ordini ai suoi uomini di portare il minerale nel laboratorio del figlio, che occupava tutta l’ala destra della casa, e stette assorto ripensando alla sua vita passata. Dovea confessare a sè stesso che i più begli anni erano stati quelli che avea vissuto colla prima moglie.
In quel momento, mentre collo sguardo seguiva gli uomini che salivano le scale carichi di minerale, egli ripensava a quei tempi, che gli sembravano tanto lontani ed erano passati per sempre. Egli rivedeva la sua dolce Ada, più mite e timida della sorella, colla faccia da madonnina, che quando la rievocava colla mente ancora gli si inumidivano gli occhi, rivedeva Giulia ch’era allora una bimba e gli riempiva la casa di allegre risate, e si divertiva a far giuocare il piccolo Ugo, minore di lei di pochi anni, che come un raggio luminoso era venuto a rallegrargli l’esistenza.
Giulia era orgogliosa d’essere la zia di quel bimbo roseo e paffuto, dagli occhietti vispi e intelligenti. Essa abitava, col padre, il villino Giulia, diviso dalla casa grande, villa Ada, soltanto da un filare di ippocastani, ma ai tempi del suo primo matrimonio formavano quasi una sola famiglia ed erano sempre uniti ed in adorazione del bimbo.
Quel tempo felice era durato dieci anni.
Poi vennero i giorni tristi.
Ada fu colta da una malattia che i medici non riuscirono a diagnosticare, ed egli ebbe lo strazio di vederla deperire tutti i giorni, finchè reclinò il capo stanco sulle sue spalle, come un povero fiore avvizzito, ed esalò l’ultimo respiro senza ch’egli potesse fare nulla per tenerla in vita. Poi passò un lungo tempo accasciato, colla mente senza pensieri, vivendo quasi in un sogno, facendosi forza per amore del suo Ugo, poi anche il suocero si ammalò e Giulia, per dedicarsi al padre, lo lasciò nell’isolamento.
Ne approfittò la signora Savina che abitava in paese ed era irritata di veder passare gli anni senza trovar marito. Incominciò a frequentare la casa dell’Arlandi, ad esser prodiga di parole di conforto per lui, di premure e carezze per il bambino, e a poco a poco cercò di rendersi utile, quasi necessaria, con modi graziosi, insinuanti, come sapeva fare quando volea raggiungere uno scopo prefisso, ed egli quasi senza accorgersene s’era lasciato soggiogare da quella donna, al punto che, persuaso di non poter vivere nell’isolamento tutta la vita, che in casa era necessaria una persona che s’occupasse delle faccende domestiche e badasse al bambino, si decise a sposarla. S’accorse subito dello sbaglio fatto quando, divenuta signora e padrona, Savina si mostrò sotto il vero aspetto di donna imperiosa e senza cuore. Incominciò subito a tormentare con rimproveri ingiustificati il povero Ugo, al punto che l’Arlandi per aver pace fu costretto a metterlo in collegio. Terminati gli studi, il figlio ritornò a casa timido, modesto, tutto dedito alla scienza; ma la matrigna, che intanto aveva avuto un figlio, Mario, e non vedeva che per i suoi occhi, divenne per lui più acre e più ingiusta, il che dava origine continuamente a nuove questioni e la quiete era scomparsa dalla sua casa.
A questo pensava il signor Carlo, egli che tutto avrebbe sagrificato per amore della pace e adorava Ugo che gli rammentava la sua dolce Ada, e desiderava rivederlo dopo la sua assenza; ma nello stesso tempo temeva che l’arrivo del figlio fosse causa di nuovi litigi ed inquietudini. Aveva in animo di proteggerlo e difenderlo dall’ingiustizia della moglie, si proponeva di uscire dalla sua apatia e far sentire la sua voce autorevole, ma quando vedeva davanti a sè Savina, coll’aspetto altero e la faccia arcigna, non osava più dir nulla, oppure parlava timidamente, a bassa voce, nel timore di esacerbarla, come uno scolaretto che teme le ire del professore.
E in quel momento, quando dopo aver ricondotto Mario, la vide davanti a sè, ritta, colla faccia accesa e lo sguardo tagliente come una lama, non seppe dirle nulla e guardò verso la strada bianca fuori dal cancello come assorto ad osservare gli uomini che avevano portato il minerale e s’avviavano verso la stazione.
Fu la signora Savina che incominciò a parlare, e:
— Povero bambino, — disse, — se non ci fossi io a proteggerlo, lo faresti morire di noia…. Nemmeno giuocare gli si permette alla sua età.
— Non c’è bisogno di toccare quello che non gli appartiene, può ben giuocare coi suoi giuocattoli; ne ha tanti!
— Dio mio! Quanto chiasso per un po’ di sassi.
— Ma sono di valore; poi Ugo gli ha comprati per i suoi studî ed ha diritto di ritrovarli, quando arriva.
— Ben spesi quei denari, — mormorò la signora.
— Meglio spenderli per la scienza che in gozzoviglie, — disse il signor Carlo, ripetendo una frase della cognata.
— Per conto mio, preferirei che spendesse il suo denaro per divertirsi; sarebbero cose più adatte alla sua età, invece quelle sono pazzie, e finirà per recare lo scompiglio nella nostra casa tranquilla. Perchè non l’hai lasciato andar ad abitare dalla zia Giulia?
— Perchè un figlio deve stare col padre, e poi questa è casa sua.
— È vero; lui è ricco e noi finiremo nella miseria, quando gli avrai lasciato sprecare la fortuna colle sue meravigliose invenzioni.
— Basta! — disse l’Arlandi un po’ irritato, — non voglio che tu dica male di Ugo, hai capito? Pensa piuttosto a fargli mettere in ordine le stanze e a dire a Vincenzo di andar questa sera alla stazione a mettersi agli ordini del suo padrone.
Savina non fiatò più; non era abituata a veder il marito assumere quell’aria di comando e rimase sorpresa, e pensava di star zitta per poi ritornare alla carica in un momento più opportuno.
Le dava anche noia doversi privare dei servigi di Vincenzo, che Ugo avea scelto come assistente e nello stesso tempo come suo domestico particolare, avendolo trovato un ragazzo intelligente che s’interessava alle sue scoperte e lo aiutava con amore. Essa però si mostrò premurosa di dar ordini, affinchè Ugo trovasse al suo arrivo ogni cosa al suo posto, e per rabbonire il marito disse:
— Infine Ugo non dà noia a nessuno; basta che non si lasci montare il capo da quella pazza di sua zia; non sai che si è fitta in mente di dividere le rendite delle sue terre coi contadini che le coltivano e, dopo qualche anno, lasciargliele in proprietà?
— Sono idee socialiste, ma delle sue terre può fare quello che vuole; sono cose che non mi riguardano.
— Ma, e l’esempio per i nostri?
— Lascia fare, — disse il signor Arlandi, — non occupiamoci degli affari altrui, pensiamo piuttosto a ricevere degnamente il nostro Ugo; mi raccomando che il laboratorio sia in ordine, perchè è impaziente di riprendere i suoi esperimenti.
Sì dicendo, entrò in casa non volendo continuare un discorso che lo turbava; e la signora Savina lo seguì collo sguardo, crollando il capo e cantarellando a bassa voce.
— Sono una razza di squilibrati, di pazzi! Basta, speriamo che Mario abbia giudizio per tutti e che finisca per esser lui il padrone.
II.
Il villino di Giulia era allegro, civettuolo, tutto inghirlandato di rose e circondato da un giardino non molto grande, ma pieno di ombra e di fiori.
Giulia, dopo la morte del padre, rimasta assoluta padrona di quella villa, ne avea fatto oggetto di tutte le sue cure, e si compiaceva di renderla sempre più comoda e bella. L’idea dell’arrivo del nipote la rendeva irrequieta e girava su e giù pel giardino, cogliendo fiori che poi collocava nei vasi di cristallo lunghi e stretti secondo il nuovo stile; ora entrava portando i vasi pieni di fiori, ora usciva per coglierne di nuovi, ora si fermava pensosa a guardare la strada.
L’aspettazione le dava un eccitamento piacevole che le impediva di star ferma e di dedicarsi alle consuete occupazioni. Le piaceva occuparsi continuamente per non pensare al passato pieno di tristi ricordi.
— Il mio passato è un cimitero, — soleva dire, — non vedo che tombe.
Infatti, ancora bambina, aveva perduta la madre, poi Ada, la sorella diletta che ne avea fatto le veci, poi il padre e il fidanzato, un giovane capitano caduto sul campo d’Adua. Questo fu pel suo cuore un colpo tanto crudele, da non poter più darsene pace, in modo che rifiutò tutti i partiti che le si presentarono. Di carattere fermo e risoluto, voleva serbare la fede e l’amore al di là della tomba e decise di combattere sola le battaglie della vita.
Non si era lasciata abbattere dalla sventura e pensò di popolare la sua solitudine di opere buone e di crearsi una tal quantità di occupazioni per non lasciare tempo ai tristi pensieri di prendere il sopravvento.
Erede di una metà dei vasti possedimenti del padre, aveva alla sua dipendenza una quantità di coloni e si era proposta di adoperare il suo ingegno e le sue ricchezze per renderli contenti. Studiava il modo migliore di aiutarli, adoperava le sue rendite a fabbricare per loro case sane e pulite, non badava a spese per migliorare le terre, affinchè potessero dare un raccolto copioso, visitava i casolari, prodiga di denaro e consigli salutari, soccorreva gli ammalati, spronava allo studio e al lavoro i neghittosi, e già studiava il modo di rialzare le sorti dei lavoratori dei campi, togliendoli dalla loro miseria per avviarli ad un migliore avvenire. Questo era uno dei suoi ideali: l’altro era quello di proteggere il nipote che amava come un figlio e riguardava come un retaggio lasciatole dalla sorella.
Era attratta ad amarlo anche dalla propria inclinazione, ne condivideva le idee, prendeva interesse ai di lui studi e si sentiva della stessa stirpe.
Avea qualche anno più del nipote, ma appariva più giovine in grazia della vivacità del suo spirito e della sveltezza dei movimenti, ed Ugo invece, per la vita dedicata allo studio, col volto serio e pensoso, sembrava più vecchio di quello che fosse realmente. In ogni modo era per Giulia come un compagno della stessa età e un amico col quale si può discorrere liberamente a cuore aperto; le pareva impossibile che un bimbo, che aveva veduto giocherellare per la campagna, si fosse mutato in breve tempo in un giovane serio, simpatico, che si andava acquistando un bel posto fra gli uomini dedicati alla scienza.
Essa lo avrebbe voluto sempre al villino, ma egli non voleva abbandonare il padre, nè villa Ada, dove si era fatto il suo laboratorio e dove aveva i ricordi d’infanzia. Però, quando sentiva il bisogno d’un po’ d’affetto e di simpatia, correva al villino Giulia, nella casa allegra e piena di sole, dove si sentiva come riscaldato da un affetto sincero e dove il sorriso della zia lo incoraggiava alle confidenze e lo agguerriva per le battaglie della vita; ed egli le apriva l’animo suo, le narrava le sue speranze e le sue aspirazioni; ed essa stava in ammirazione ad ascoltarlo e si riprometteva di aiutarlo, se avesse trovato degli ostacoli a impedirgli di percorrere il suo cammino luminoso.
Pensando alle ore che le avrebbe dedicate, vere oasi della sua vita solitaria, cercava di render gaio il salottino arredato semplicemente con mobili di stile moderno, dalle linee corrette, severe e non tormentate da curve bizzarre. Erano di tinta verde-chiaro, in gruppi di sedili e tavolini disposti sapientemente che invitavano al raccoglimento e alle intime conversazioni, e sui tavolini e sulle mensole erano disposti artisticamente vasi con bellissimi fiori, libri legati, giornali, riviste, e in un angolo una cesta piena di lavori femminili. Si compiaceva quando Ugo le lodava la disposizione dei mobili e, sdraiandosi sulle poltrone comode e soffici, diceva:
— Come si sta bene in questa pace! Come si riposa in questa casa amica e ospitale!
Essa pensava che, dopo tanti mesi di assenza, Ugo ritornava finalmente e sarebbe stata ancora orgogliosa di sentire ripetere quelle parole. Nella sua impazienza, le ore quel giorno le sembravano eterne; avea tentato di prendere in mano un lavoro, ma non poteva far nulla; prese un libro, ma il suo pensiero andava lontano, in uno scompartimento ferroviario che s’avanzava a tutto vapore verso la campagna lombarda; ogni tanto guardava l’orologio e contava le ore e i minuti che mancavano all’arrivo del treno.
Per passare il tempo, si fece portare il pranzo, e così passò una mezz’ora; poi andò a ravviarsi i capelli e ad aggiungere qualche fronzolo al suo semplice vestito di lana; e finalmente si coperse le spalle con una mantellina e si avviò verso villa Ada, il palazzo, come lo chiamavano i contadini, perchè era grande, maestoso, formato da un corpo centrale e due ali ai lati che sporgevano come due braccia verso il cancello che chiudeva l’ampio cortile, un vero casolare di campagna; e lo chiamavano così, per distinguerlo dal villino elegante di Giulia.
Quando la fanciulla fu davanti al cancello, la carrozza di casa Arlandi usciva per andare alla stazione; essa s’arrestò incerta se dovesse andare incontro al nipote, poi pensò che la signora Savina forse ci avrebbe trovato da ridire ed entrò in casa.
Una lampada pendeva dalla vôlta e illuminava la tavola, in una vasta sala piena di ombre. Intorno alla tavola, il signor Carlo leggeva un giornale, Mario con una matita in mano riempiva di geroglifici un volume illustrato. La signora Savina, con una cesta da lavoro accanto, con tanto d’occhiali sul naso, accomodava una giacchetta del figlio. Da brava donna di casa, aveva in mano continuamente un lavoro utile, che quasi sempre faceva terminare dalla cameriera.
Quando entrò Giulia, alzò gli occhi dal lavoro, e disse:
— Brava, in tempo per accogliere il figliuol prodigo.
Quella sera voleva essere amabile, ma si capiva che faceva uno sforzo.
— Buona sera, Carlo, — disse Giulia al cognato, — pare che quel giornale sia molto interessante.
— Leggo per passare il tempo, quantunque non vi sia nulla di nuovo: ma presto Ugo dovrebbe esser qui, — disse guardando l’orologio, — basta che non ci sia qualche ritardo.
— Con queste ferrovie non si è mai sicuri, — disse sentenziando la signora Savina.
Giulia fremeva nel veder Mario che continuava a riempire di sgorbi il volume illustrato, ma non osava dir nulla per non interrompere la pace che sembrava regnare in quel momento in casa Arlandi. Fu il signor Carlo che, data un’occhiata al figliuolo, gli disse:
— Ma che cosa fai, piccolo vandalo? Perchè sciupi quel volume? Puoi ben prendere un pezzo di carta per i tuoi disegni.
— Questo, sai, diverte di più, ci sono le figure e fingo d’averle fatte io.
— Zitti, — disse Giulia, — una carrozza, è lui certo.
Il signor Carlo fece per alzarsi, ma la signora Savina non lo lasciò uscire dalla stanza dicendo che avrebbe potuto prender freddo.
Intanto la carrozza s’era fermata e in un minuto Ugo era fra le braccia del padre.
Era un giovane alto, pallido, snello, colla fronte alta e il volto serio, illuminato da due occhi pensosi.
Quando vide Giulia, le andò incontro colle braccia aperte e la faccia sorridente, poi stese la mano a Savina, che fu molto amabile, come non si sarebbe aspettato. Volle che mangiasse qualche cosa di caldo per ristorarsi e gli fece un caffè forte come piaceva a lui.
Mario gli chiese se poteva regalargli qualcuno di quei sassi belli e lucenti arrivati la mattina, ma Ugo invece aperse la sacca da viaggio, tolse un automobile che montando una molla correva per la stanza con una velocità vertiginosa, lo regalò a Mario e per un momento formò la consolazione di quel bimbo irrequieto.
Ugo s’informò appunto del suo minerale, se era stato messo a posto bene, poi raccontò i suoi viaggi, i suoi studi e parlò d’una scoperta che avrebbe portato la rivoluzione nel mondo.
È vero che molti scienziati francesi se ne occupavano, ma sperava di arrivare prima di tutti e perciò calcolava di mettersi subito al lavoro.
Raccontò d’esser andato sotterra nelle miniere, d’aver visitato grotte profonde e inesplorate, la sua gioia quando poteva trovare un minerale sconosciuto e i tentativi per andare negli abissi più profondi, là dove egli credeva dover esservi l’anima del mondo.
— Perchè non possiamo vivere nelle profondità della terra? — diceva, — perchè vi è una temperatura che ci soffoca ed opprime?
Affermava che il mondo era come un organismo che si mutava e trasformava continuamente, tanto nell’interno come sulla superficie.
Egli avea sentito delle vibrazioni partire dagli abissi profondi e propagarsi per la terra come fremiti ignoti; anche sotterra c’era vita e movimento, le tenebre venivano interrotte da fosforescenze abbaglianti e nel centro della terra c’era non solo il fuoco che squarcia le viscere dei vulcani, ma numerose scintille sparse nei minerali ch’egli volea decomporre e ridurre agli elementi primitivi; avrebbe scoperto quantità infinitesime di nuovi elementi sfuggiti alle masse che dovevano trovarsi nel centro del mondo ed esserne la vita e il calore.
— I popoli primitivi — disse — popolarono di tesori, guardati da esseri fantastici, le grotte e le caverne; noi vi troviamo altre ragioni di vita che forse getteranno nuova luce su fatti che ci sembrano avvolti nel mistero e, invece di gnomi e genietti fantastici, troveremo altri tesori più veri e reali.
— Ah, bello! — interruppe Mario che era già annoiato dell’automobile, — pare un racconto di fate!
— Vedete come è intelligente? — disse la signora Savina, contenta d’interrompere il discorso eloquente di Ugo che l’annoiava.
Quelle parole furono come una doccia pel giovane scienziato, che ammutolì un momento, poi disse, cambiando tono:
— Vi ho forse annoiato, ma quando mi lascio andare ai miei discorsi preferiti non ho misura; continuerò un’altra volta, ora sono stanco ed ho bisogno di riposo.
— Ed io me ne vado, — disse Giulia alzandosi e avviandosi verso l’uscio.
— Ti accompagno, ho bisogno di prendere una boccata d’aria, — disse Ugo, — poi ritorno e me ne vado a letto.
Di fuori la notte era calma, e la luna nuova risplendeva nella vôlta cupa del cielo.
Giulia ed Ugo si fermarono sulla soglia a contemplare la campagna silenziosa.
— Che bella pace! — disse Ugo.
— Raccontami ancora, svelami i segreti della natura, tu che hai studiato e sai tante cose, — disse la fanciulla supplicando.
— No, ora non posso più, domani, un altro giorno; non profaniamo questo silenzio che ci avvolge come in una carezza e calma il nostro spirito.
E silenziosi s’avviarono lungo il viale d’ippocastani, sentendosi uniti in quella notte calma e stellata come da un fluido di simpatia e come se gli stessi pensieri irrompessero nel loro cervello.
Sostarono davanti al villino.
— Vieni domani a colazione? — chiese Giulia.
— A colazione no, non posso, — rispose il professore, — devo mettere in ordine il laboratorio, verrò la sera;… è sempre allegro il villino? Non hai mutato nulla nel salotto?
— È sempre uguale.
— Sono contento, mi fa piacere rivedere le cose famigliari al loro posto, come le ho lasciate e come le penso quando sono lontano. Buona notte, Giulia, — e sì dicendo le porse la mano.
— E perchè non mi chiami zia? — gli chiese la signorina.
— Non mi par giusto, abbiamo quasi la stessa età, penso a te come ad una sorella, e mi pare che tu sia sola a comprendermi…. Il babbo è tanto mutato.
— Quella donna lo ha stregato, è una vipera.
— È stata molto gentile con me, forse non è cattiva, ma non è la mia mamma e mi dispiace vederla a quel posto. Sarà colpa mia se non so farmi amare.
— Sei troppo buono, — disse Giulia entrando in casa, e salutandolo, — a domani.
Ugo rifece la strada contento al pensiero di poter nella quiete della campagna e della casa dove era nato ricominciare le sue esperienze scientifiche, sapendo di avere là accanto una dolce amica, una confidente, nella sorella della madre.
— Ecco, — pensava, guardando la grande casa che si avvicinava come una massa nera in mezzo alle piante; — là il lavoro e qui al villino il riposo.
E per un istante ebbe l’illusione di esser felice.
III.
Il laboratorio di Ugo Arlandi occupava all’ultimo piano un’ala della casa. Era una stanza chiara, spaziosa, illuminata da quattro grandi finestre che s’aprivano sull’aperta campagna e formavano quasi una parete trasparente, luminosa.
Accanto alla parete di fronte alla porta d’ingresso, c’era un forno con un’immensa caldaia, poi una tavola sulla quale stavano sempre accatastate vaschette, ampolle di tutte le forme e dimensioni, tazze quadrate, cannelli di vetro, filtri e bilance di precisione.
In un armadio chiuso c’erano schierate, in buon ordine, boccette con liquidi di colori diversi ed etichette sulle quali stava scritto la qualità del contenuto; intorno alle pareti scansie a varii palchi, con altri arnesi d’ogni forma e dimensione, di vetro, maiolica e metallo.
Presso l’altra parete fornelli a gas, becchi bunsen, un acquaio con rubinetti pei lavaggi; accanto, una camera oscura per sviluppare fotografie e un ripostiglio destinato a contenere il materiale occorrente per le esperienze e tutto quello che sarebbe stato d’ingombro nel laboratorio.
I primi giorni dopo il suo ritorno, il prof. Ugo dovette occuparsi di porre in ordine quella massa di oggetti disparati e assieme con Vincenzo fu infaticabile nel sistemare ogni cosa coll’entusiasmo di chi si prepara ad un lavoro interessante.
Ed avea fretta di mettersi all’opera; quando si trovava nel suo laboratorio, gli oggetti famigliari gli davano la suggestione del lavoro ed era impaziente di potervisi dedicare senza interromperlo. Si compiaceva di toccare i diversi minerali che s’era procurato con grande fatica e faceva osservare a Vincenzo l’azzurro delicato della celestina, il grigio striato d’argento della pecblenda, il color grigio opaco del solfuro d’arancio, e godeva pensando che quelle pietre variopinte contenevano sostanze sconosciute ch’egli si riprometteva di liberare dalla loro prigione e far uscire agli onori del mondo in tutta la loro purezza primitiva.
Vincenzo era figlio di contadini, ma d’ingegno pronto e svegliato; nelle scuole elementari era stato sempre il primo della classe e avea riportato un grande amore allo studio, e fu contento quando Ugo gli propose di servirlo ed aiutarlo nelle sue esperienze scientifiche. Egli in poco tempo si era tanto immedesimato nelle idee del suo padrone che lo aiutava con intelligenza ed amore, e parlava come un piccolo scienziato al punto che non si sarebbe più acconciato al lavoro dei campi!
— Sono tanto contento che sia ritornato, — egli diceva, — mi piace imparar cose nuove; poi, quando è lontano, la signora Savina mi fa lavorare come un cane a lavare e ripulire la casa; mi tocca giuocare con Mario che è cattivo e mi batte quando non faccio a suo modo; dovrebbe condurmi con sè, quando va in viaggio, sarei tanto contento!
— Sono viaggi pericolosi, in paesi selvaggi; poi dentro nelle caverne dove si muore di caldo, non è un divertimento.
— Dove va il mio padrone, posso andare anch’io e sopportare quello ch’egli sopporta, — disse il ragazzo.
L’affetto e la devozione di quell’essere semplice era un grande conforto per Ugo, e lo riguardava più un compagno che un domestico, e tutti e due, collo stesso entusiasmo, si adoperavano a metter tutto a posto per poter subito iniziare il lavoro.
Dopo le giornate operose era un vero sollievo per Ugo, passare la sera al villino di Giulia e confidare alla zia i suoi pensieri e le sue aspirazioni.
A lei narrava le occupazioni della giornata, come aveva riordinato il materiale e come avrebbe incominciato ad esaminarlo; quei primi giorni s’era limitato a fare semplicemente dei tentativi.
Egli era un idealista della scienza, intuiva le grandi scoperte future, ma era incerto sul modo d’incominciare le nuove esperienze; un po’ impaziente di riuscire, immaginava risultati più rapidi di quelli che conseguiva realmente.
E Giulia stava attenta ad ascoltarlo, qualche volta esprimeva il desiderio di aiutarlo, approvava le sue idee e l’incoraggiava anche nei tentativi più arditi.
— Voglio trovare l’anima del mondo, — egli diceva, seduto nel salottino allegro, vicino alla sua attenta ascoltatrice. — E riuscirò, perchè la intuisco, la sento, la vedo in tutto quello che è conosciuto.
— Ma dove sta nascosta? Raccontami, mi piace tanto sentirti parlare di queste cose, — diceva Giulia.
— Deve essere nel centro del nostro globo, è una forza ignota, un centro di vita che palpita e fa sentire la sua influenza fino alla superficie della terra; è lei che costituisce questa rete magnetica che ci avvolge e che è una forza per chi sa valersene opportunamente, come fece il nostro grande Marconi pel suo telegrafo senza fili. È una forza potente, imprigionata da chissà quali legami…. e vedi, qualche scintilla deve essere sfuggita, ed io la cerco in quei minerali che ho raccolto e, se riuscirò a trovare una traccia, avrò avuto dalle mie fatiche un compenso insperato.
Quando egli era stanco di parlare, era lei che gli confidava le sue idee filantropiche e socialiste. Voleva assolutamente trovare il modo di migliorare le condizioni dei contadini. Vedeva con terrore i ragazzi più intelligenti disertare i campi per le officine, e s’era fitta in capo d’infondere nel loro cuore l’amore alla terra, d’insegnare a coltivarla con intelligenza, in modo da ricavarne frutti copiosi, voleva istituire scuole per insegnare la coltura dei campi in modo scientifico, interessare i lavoratori lasciando loro una parte delle rendite, o compensare i migliori, regalando loro qualche pezzo di terra.
Mentre i giovani s’intrattenevano piacevolmente comunicandosi reciprocamente le proprie idee e aspirazioni, a Villa Ada si occupavano invece di loro e dicevano che erano pazzi.
La signora Savina, il signor Carlo e il dottore, che era spesso invitato a pranzo e oggetto di grandi premure da parte della padrona di casa, non parlavano d’altro che dei discorsi che si sarebbero fatti al villino di Giulia.
La signora Savina aveva un vero odio pel figlio di suo marito, ma procurava nasconderlo sotto una certa aria compassionevole di protezione.
— Non le pare, dottore, che quel figliuolo sia un po’ squilibrato? — chiedeva la signora Arlandi. — Se una persona qualunque, che non pretendesse di essere un genio, dicesse che vuol trovare l’anima del mondo, che cosa direbbe?
— Veramente dubiterei che avesse il cervello a posto, — rispondeva il dottore.
— Vedi, Carlo, non sono poi sola di questa opinione, — soggiungeva la signora rivolta al marito.
— Ognuno ha la propria opinione come la propria fisonomia, a questo mondo bisogna vivere e lasciar vivere; io la penso così e mi pare d’essere più giusto di voi, — diceva il padre.
Alla signora invece dava noia Ugo per molte ragioni: prima perchè era ricco e studioso, come il suo Mario non sarebbe stato mai, poi perchè, quando lui era a Villa Ada, non poteva più servirsi di Vincenzo, poi le sciupava una quantità di biancheria coi suoi pasticci, e finalmente perchè si accorgeva che il marito aveva una certa predilezione pel suo primogenito, e questa cosa la irritava e faceva sì ch’essa cercasse di mettere Ugo in cattiva vista.
IV.
Ugo Arlandi non viveva che nel suo laboratorio, sentendosi invadere dalla febbre del lavoro.
Nella grande stanza era come se ci fosse penetrato un alito di vita.
Il fuoco ardeva nel forno e nei fornelli; il liquido, in ebollizione, gorgogliava nelle caldaie e nelle autoclavi.
Ugo aveva fatto la scelta del minerale e gli acidi che dovevano discioglierlo e rivelargli il segreto della sua composizione.
— Vedi, — diceva a Vincenzo, del quale voleva fare un allievo, — questo è acido cloridrico che verso nella caldaia assieme con questo minerale che ne uscirà, trasformato e sotto altra veste.
E le caldaie bollivano incessantemente, il vapore saliva nell’alto fumaiuolo e si perdeva nell’aria. Ugo e Vincenzo sfidavano il calore che usciva dalle caldaie per vedere sciogliere nel liquido il minerale prezioso.
Pareva che tutto fosse distrutto, Vincenzo sbarrava gli occhi, attonito.
— Ed ora che cosa si fa? — chiedeva, — non v’è più nulla, soltanto liquido.
— Attenti! — rispondeva Ugo, — è inutile star a vedere, l’operazione avviene lo stesso, prepariamo qualche altro ingrediente.
E si diede a lavare ampolle, preparare acidi, depurare i liquidi coi filtri, verificare il peso dei metalli che voleva adoperare, intanto che la caldaia bolliva ed un vapore umido, oltre che nel fumaiuolo, si spargeva in una nebbia leggiera nel laboratorio.
— Vediamo se è avvenuto qualche cosa di nuovo, — disse Ugo avvicinandosi alla caldaia, ciò che fece pure Vincenzo, lasciando la bacinella che stava ripulendo.
Il liquido era quasi tutto evaporato e il minerale si era trasformato in cristallo trasparente, lucido come pietre preziose.
— Oh bella, — disse Vincenzo, — pare una magìa!
Ma Ugo, che in quella materia cristallizzata riusciva a scoprire tracce luminose, si sentiva battere il sangue dalla gioia come un generale sul punto di vincere una battaglia.
Doveva aspettare ancora per poi trattare quella materia cristallizzata con nuovi reagenti; per liberare quelle particelle luminose che dovevano farlo vittorioso.
Preparava intanto i filtri per i lavaggi, e i tubetti di vetro per raccogliere quei residui preziosi, raccomandando sempre a Vincenzo la prudenza nel maneggiare quegli acidi che potevano riescire pericolosi. Varie sostanze aveva ottenuto dalla decomposizione di quelle pietre, alcune erano riuscite come desiderava, altre avevano formato degli ossidi e avevano bisogno d’altre operazioni.
Lavoratore infaticabile, finchè nel laboratorio ci si vedeva, i fuochi erano accesi e gli utensili preparati, non interrompeva il lavoro nemmeno se si sentiva stanco.
Nel suo caso, poi, era impaziente di riuscire, perchè sapeva che molti scienziati facevano i suoi medesimi esperimenti, e voleva arrivare prima degli altri.
Voleva trattare i sali ricavati dal minerale in modi diversi e si fece dare da Vincenzo dei tubi di metallo pieni di gas. Come avvenne, non avrebbe potuto dirlo, ma fosse un robinetto d’un tubo che non agiva bene, o inavvertenza di Vincenzo, che s’accostò ad una fiammella per vedere se ci fosse un guasto, — egli era immerso nella sua operazione, in quel momento, un po’ distratto, — il fatto sta che tutto a un tratto uno scoppio formidabile fece tremare la casa, i vetri caddero infranti e schegge di metallo infuocato e pezzi di muro si sparsero per il laboratorio. Un grido uscì dal petto di Vincenzo, che cadde a terra colla faccia sanguinosa e privo di sensi.
Ugo rimase atterrito; era paralizzato dal terrore, si sentiva senza forza e senza voce per chiamar soccorso; una scheggia l’aveva ferito ad una spalla, ma non sentiva alcun dolore nell’annientamento delle sue facoltà. Inebetito e come in un sogno, vide tutti gli abitanti della casa precipitarsi nel laboratorio.
La signora Savina, innanzi agli altri, gridava come un’ossessa:
— Che cosa avete fatto, colle vostre caldaie del diavolo? Ve l’ho sempre detto che avreste fatto crollare la casa.
Il signor Carlo, più calmo, ma pallido e tremante, aveva rialzato Vincenzo che, ferito alla faccia, non poteva aprir gli occhi, e ordinò che si chiamasse subito il dottore.
Ugo pareva una statua, non poteva nè moversi, nè parlare, come se la sua volontà fosse morta per sempre.
Tutti i vetri erano rotti e l’aria entrava dai grandi finestroni; in terra si vedevano frantumi di stoviglie, pezzi di muro, di metalli, macchie di liquidi versati: una vera desolazione.
Quando venne il dottore, medicò la faccia di Vincenzo; per buona sorte, aveva gli occhi salvi e soltanto una scheggia gli aveva tagliato la faccia senza penetrare troppo profondamente.
La signora Savina era quasi trionfante, e diceva al marito che essa aveva predetto che Ugo sarebbe la rovina della casa, e, per impedire un danno peggiore, bisognava rinchiuderlo in una casa di salute.
In quel momento di orgasmo e confusione, nessuno aveva la forza di contraddirla, nè di prendere una risoluzione; solo il dottore trovava quelle parole assennate, era della medesima opinione della signora Savina, la consigliava di farlo per sfuggire a guai maggiori.
— È una pazzia, — diceva, — maneggiare strumenti pericolosi senza osservare le più elementari precauzioni: poi non vedete in che stato si trova? ha bisogno di esser curato.
Ugo era immobile colla faccia stravolta; quando potè articolare qualche parola, non ebbe la forza di reagire.
— Avete ragione, — diceva, — voglio andar via lontano, sono pazzo. Povero Vincenzo, è molto ferito, ed io ne fui la causa; ho bisogno di una punizione, sì, conducetemi via; perchè non mi sono ferito io solo? Perchè non sono morto?
E piangeva come un bambino.
Mentre alcuni uomini chiamati in fretta sgombravano la stanza, abbattevano un muro pericolante e toglievano i rottami sparsi per terra, ci fu un momento di silenzio; nessuno osava prendere una risoluzione definitiva.
Il signor Carlo era accasciato e anche egli come il figlio si sentiva senza volontà. Fu la signora Savina che, come un generale sul campo di battaglia, prese il bastone del comando e disse al dottore:
— Vi supplico, per la nostra vecchia amicizia, di aiutarci; ho ordinato di attaccare i cavalli alla carrozza e vi prego di condur subito Ugo in una casa di salute. Mi raccomando sia trattato bene, ma una buona cura gioverà a calmare le sue aberrazioni scientifiche, poi ritornate e vedete di medicare Vincenzo. È abbastanza coraggioso, quel ragazzo, e non si lagna, quantunque la sua ferita deva farlo soffrire; spero che anche a lui sarà passata la voglia di far lo scienziato. È una lezione che farà bene a tutti; mi dispiace per mio marito che se ne sta come una mummia, — e avvicinandosi a Carlo, gli disse, scotendolo per un braccio: — Via, non ti accasciare; è una disgrazia, ma pensiamo che poteva esser peggio; è un miracolo che non sia crollata la casa e non ci abbia sepolti tutti; — poi andò verso Ugo, dicendogli: — Va’, va’ col dottore, la carrozza è pronta, va’ a meditare sulla tua scienza e a calmare i nervi, che ne hai bisogno; ti manderò poi la tua roba.
Il dottore diede il braccio al professore come ad un convalescente, lo condusse giù dalle scale e lo mise in carrozza senza ch’egli avesse avuto la forza di fare la minima opposizione; diede un indirizzo al cocchiere e via se n’andarono lungo il viale verso la stazione.
Il signor Carlo si riscosse come da un sogno, e disse alla moglie:
— Che cosa hai fatto?
— Quello che dovevo, e ancora puoi essere contento che non l’abbia fatto mettere in prigione.
— Perchè hai fatto questo? Dopo quello che è accaduto, avrebbe forse rinunciato ai suoi esperimenti.
— Tu non capisci nulla; se non ci fossi io, quel figliuolo ti condurrebbe alla rovina; non l’ho sempre detto che non aveva il cervello a posto, colla fissazione di trovar l’anima del mondo? Hai visto che bel risultato?
— Ma mio figlio in mezzo ai pazzi; non voglio.
— Non esagerare, — disse Savina, — è in una casa di salute, dove si curano le malattie nervose; starà meglio che nel suo laboratorio pieno di pericoli. Già io avevo predetto tutto, ti ricordi?
Questo discorso venne interrotto dall’arrivo dei carabinieri, che avevano sentito lo scoppio ed erano venuti ad informarsi di quello che era accaduto.
La signora Arlandi spiegò ogni cosa a modo suo, e compiangeva Ugo, che, poveretto, s’era montato il capo colla sua scienza, tanto che erano stati costretti a mandarlo a curare fuori di casa.
V.
Il giorno che in casa Arlandi era avvenuto tutto quello scompiglio, la signorina Giulia s’era recata in città per fare delle spese. Se ne tornava appunto nell’ora del tramonto a piedi dalla stazione verso il villino, lieta delle spese, delle persone incontrate e colla speranza di aver la sera la compagnia di Ugo che le avrebbe narrato i progressi fatti in quella lunga giornata di lavoro.
Camminava lungo il viale con passo affrettato, colla mente piena di pensieri lieti e osservava i contadini che tornavano dal lavoro dei campi e si fermavano in crocchio a chiacchierare in modo insolito come se parlassero di qualche avvenimento importante.
— Che è accaduto? — chiese fermandosi davanti ad un gruppo di contadine presso le prime case del villaggio.
— Come! non sa nulla?
— Vengo or ora dalla città.
— Che disgrazia, signorina Giulia! Quel povero signor Arlandi!
— Ma in nome del Cielo spiegatevi, — disse la signorina facendosi pallida come una morta. — Che è accaduto?
— Uno scoppio nel laboratorio del professor Ugo. Avesse inteso, pareva una mina.
Giulia si sentiva mancare, ma ebbe la forza di chiedere con un filo di voce:
— Ci sono feriti?
Voleva quasi fuggire nel timore di udire una risposta terribile, di provare un fiero colpo al cuore.
— Pare che ci sia qualche ferito, — rispose una contadina.
— Chi, il professore?
— No, quel ragazzo che lo aiutava, il signor Ugo è partito.
— Come? Con chi?
— Non sappiamo, ma non si sgomenti, non sarà nulla di male.
Giulia non rimase ad ascoltare di più, e via di corsa andò verso casa Arlandi.
Andava come una pazza, il cuore le batteva forte forte, le pareva di soffocare e temeva di non aver forza di giungere alla meta; dovette chiamare a raccolta tutta la sua energia per non cadere esausta. La grande casa era là davanti a lei silenziosa, avvolta nell’ombra; per un momento ebbe l’illusione che non fosse accaduto nulla, tanto tutto le pareva tranquillo. Soltanto da un lato vide un mucchio di macerie e nella semioscurità di quell’ora potè distinguere una finestra del laboratorio mezza smantellata. Entrò in casa come una bomba e:
— Che è accaduto? — chiese a Savina che stava come al solito seduta accanto alla tavola con un lavoro in mano.
— Quello che doveva accadere, — rispose con calma la signora Arlandi. — È mancato poco che rovinasse la casa e noi fossimo sepolti sotto le macerie.
— E Ugo dov’è?
— Egli è in un posto tranquillo e sicuro, sta bene, meglio che nel suo laboratorio.
— Ma dov’è? Voglio saperlo, — ripetè la signorina con voce irritata.
— Non so, chiedilo a suo padre.
Giulia si rivolse al signor Carlo che entrava nella stanza con passo lento e col volto abbattuto.
— Ti prego, — gli disse, — dimmi dove è Ugo.
— Non lo so ancora. Ma so che sarà curato bene e mi basta. Che disgrazia, — soggiunse sospirando.
— È ferito? Perchè l’avete mandato via? Ditemi in nome del Cielo qualche cosa, non vedete quanto soffro?
— Vincenzo è ferito, — disse l’Arlandi, — Ugo ha perduto la testa dal colpo, l’ho mandato in un luogo dove sarà ben curato.
Giulia non capiva, guardò Savina e la vide tranquilla col lavoro in mano approvando col capo quello che avea detto il marito; ebbe come una visione, comprese tutto ed esclamò:
— Rinchiuso in una casa di salute! Ah, capisco, è un’infamia, e tu hai permesso questo? — disse prendendo Carlo per un braccio, — lui pazzo, con quella mente, con quel sapere? Ma chi si è prestato ad un simile delitto? Io non posso permettere.
— Ti prego di non alzar la voce e di non far scene, — disse Savina, — quello che ha fatto suo padre è a fin di bene e dietro il consiglio di persone saggie, se poi tu non ti calmi, correrai il rischio di andarlo a raggiungere.
— Se non riesco a liberarlo vi farò mettere in prigione. Non sapete che il sequestro di persona è punito dalle leggi? Vedrete, sarete puniti.
Sì dicendo uscì senza dir più nulla.
— Un’altra degna compagna di tuo figlio, — disse Savina.
— E se non avesse tutti i torti? — rispose Carlo. — Abbiamo fatto le cose troppo leggermente e senza riflettere; quasi me ne pento.
— Ora lasciati influenzare anche da quella ragazza emancipata, si sa, essa protegge il professore, simili con simili, se non ci fossi io in questa casa se ne vedrebbero di belle.
Giulia era andata a trovare Vincenzo che era a letto colla faccia tutta fasciata.
— Povero ragazzo, — gli disse, — spiegami come è avvenuto, tu che eri presente.
— Quanto è buona, signorina, — rispose, — sono stato io causa di tutto; il professore mi diceva sempre di badare a maneggiare i tubi pieni di gas che erano pericolosi, non so che cosa ho fatto, sono stato distratto, imprudente, ma non mi accadrà mai più.
— E come stai?
— Ho un po’ di bruciore sulla faccia, mi hanno dato cinque punti, ma non è nulla, mi dispiace più di tutto per il professore, chissà se mi vorrà più al suo servizio!
— E dove è andato il tuo padrone?
— Non so, l’ha condotto via il dottore, ed era in uno stato! Non poteva parlare, faceva compassione, povero signore, e non sa che la colpa è stata mia.
— Ma tu non sei scoraggiato? — chiese Giulia, — vuoi continuare ancora ad aiutarlo?
— Ora più che mai, ho imparato a mie spese ad essere prudente e sono orgoglioso della mia ferita, mi par d’essere un martire della scienza.
— Bravo Vincenzo, questi sentimenti ti onorano e il tuo padrone non ti abbandonerà.
Salutò il ragazzo e andò dal dottore dimenticando che il pranzo e i suoi domestici l’aspettavano al villino, ma nemmeno dal dottore potè riuscire a sapere qualche cosa di positivo.
Ugo era stato condotto in una casa di salute perchè aveva bisogno di cure, ma non volle dir di più trincerandosi sotto l’egida del segreto professionale.
Così Giulia se ne andò al villino affranta dalla stanchezza, amareggiata e senza voglia di mettersi a tavola. Non si sapeva dar pace di quello che era accaduto, andava colla mente escogitando mille mezzi per liberare il nipote, ma pareva che tutto congiurasse contro di lui.
Doveva proprio avvenire quello scoppio, per dar buon gioco alla matrigna che avrebbe voluto veder morto il professore affinchè il suo proprio figlio fosse ricco e potesse trionfare. E quel babbuino di Carlo che si lasciava infinocchiare dalla moglie e s’era lasciato persuadere a rinchiudere quel figliuolo pieno d’ingegno, come se fosse un pazzo! Quando pensava a tutto quello che era avvenuto durante la sua breve assenza le pareva proprio d’impazzire. Voleva a tutti i costi liberare il nipote, ma come poteva fare una donna, sola, contro tanta malvagità? Si trovava impotente e si sentiva invadere dallo scoraggiamento.
Quella notte non potè chiuder occhio ma il suo cervello lavorava continuamente e pensando a quello che le convenisse di fare per ottenere il suo scopo.
Era decisa di riuscire; soltanto, per non perdere il tempo e l’energia in vane divagazioni, prima di tutto dovea far in modo di conoscere il luogo dove il professore era stato rinchiuso; ma come riuscire? La congiura del silenzio s’era fatta intorno a lei; nella solitudine del suo spirito si trovava impotente ad agire, ma sperava in qualche aiuto imprevisto, perchè non era possibile che una simile ingiustizia potesse trionfare.
VI.
Nell’impossibilità di poter adoperarsi a vantaggio del nipote ignorando il luogo dove era stato condotto, Giulia sentiva almeno il bisogno di raccontare a tutti l’atto odioso dei signori Arlaudi, e girava per il paese procurando di vedere i conoscenti per parlare di ciò che le stava a cuore. Se non avesse potuto sfogare in qualche modo la sua ira, avrebbe fatto certo una malattia. Andò dal sindaco sperando aiuto, ma egli crollò il capo e non le diede retta, aveva troppo da fare e non poteva pensare agli altri. Poi si rivolse al maestro di scuola, che era una persona ragionevole e le era amico sincero, ma la consigliò di non scalmanarsi troppo e di starsene tranquilla, che le cose si sarebbero poi accomodate secondo il suo desiderio.
— Vuole, — le disse, — un consiglio da amico? Non si agiti, farà peggio; hanno sparso la voce che la pazzia è un male di famiglia e se s’infiamma troppo avrà qualche dispiacere anche lei.
Capiva che quell’osservazione era giusta ma non poteva rimanere inoperosa, finchè avea l’illusione di far qualche cosa, il tempo le passava, altrimenti si agitava come se avesse la febbre. Tentò di vedere il cognato e colle belle maniere fargli dire dove fosse il figlio, ma egli era muto come un pesce e per non lasciarsi sfuggire qualche parola rivelatrice, la evitava; avea troppo timore delle ire della moglie.
La povera Giulia non sapeva più a che santo votarsi, in paese ormai non si occupavano che degli avvenimenti di casa Arlandi, ognuno volea dire la sua, nessuno riusciva a sapere dove fosse ricoverato il professore Ugo, e parlando della signorina Giulia, dicevano che se non poteva liberare il nipote avrebbe finito col diventar pazza anche lei.
Infatti le pareva di perdere la testa nella sua impossibilita di essergli utile, ma aveva nel cuore una speranza che la sosteneva, avea fede anche nelle cose soprannaturali, diveniva superstiziosa; si faceva mandare una quantità di giornali che leggeva avidamente sperando trovare una riga che la mettesse sulle traccie del nipote; non trovò nulla di quello che desiderava, ma vi lesse una notizia che le fece battere il cuore.
Si parlava della scoperta del radio, fatta dai coniugi Currie, una sostanza che emanava luce e calore senza perdere nulla del suo peso, che produceva effetti meravigliosi e sconvolgeva tutte le idee che si avevano sulle scienze chimiche e fisiche.
Era appunto quello che il professor Ugo stava studiando ed era in procinto di trovare, quando venne rinchiuso barbaramente; bisognava che quel tentativo non fosse ignorato, pensò ai giornali che portavano ai quattro venti la voce del pubblico, ad Ugo che era stato troppo sconosciuto e il cui nome bisognava far noto; ebbe un’ispirazione che le parve venuta dal cielo, prese la penna e scrisse un breve articolo al giornale che aveva parlato della nuova scoperta dicendo che, a proposito degli studii sul radio, l’onore di averlo trovato sarebbe toccato ad un italiano, al professor Ugo Arlandi che si era occupato seriamente di quel genere di studi e avea scritto una monografia sulle irradiazioni nascoste, ma era scomparso alla vigilia di cogliere il frutto delle sue fatiche, nessuno sapeva più dove fosse e si temeva vittima d’un delitto. Firmò l’articolo con un pseudonimo, accluse una somma per una sottoscrizione di beneficenza patrocinata dal giornale e mandò il suo scritto alla posta. Lo slanciò così alla ventura, non avea che una lontana speranza che il giornale se ne impadronisse, suscitasse uno scandalo, provocasse un’inchiesta che potesse riuscire utile al suo scopo. In ogni modo tutto era meglio di quel marasmo.
L’aver fatto qualche cosa era un po’ di sollievo per il suo spirito, quando entrò la cameriera portandole una lettera un po’ sciupata e senza francobollo.
Guardò la calligrafia.
— È di Ugo, — esclamò.
Stracciò in fretta la busta nell’impazienza di leggere.
Erano poche parole scritte a matita che dicevano:
“È la quarta lettera che getto fuori dal recinto del giardino, alla ventura. Arriverà al suo destino? Lo spero. Tu sola puoi togliermi da questa prigione. Fa presto, altrimenti divento pazzo sul serio.
Tuo Ugo.„
Dalla casa di salute del dottor B. presso Monza.
Dopo tanti giorni di ansia finalmente vedeva un raggio di sole, le pareva di avere le ali, sapeva dove Ugo si trovava ed era ormai certa di riuscire a liberarlo.
Cercò di riordinare le idee e rimettere lo spirito in calma, pensò di agire sola senza dir nulla a nessuno, misteriosamente, come gli altri avevano fatto con lei.
Prima di tutto doveva andare a Milano e parlare con un avvocato, suo amico, che l’aiutasse a liberare il nipote, poi non volea più permettere che Ugo lasciasse amministrare i suoi beni dal padre, dopo che era stato trattato in quel modo. L’avvocato Alberti avrebbe consigliato quello che dovevano fare. Ordinò alla cameriera di svegliarla presto il giorno dopo dovendo partire, poi si mise a girare per la stanza, lieta, cantarellando, sentendosi leggera, come da un pezzo non le era accaduto.
Non disse la sua intenzione, ma la mattina dopo in paese non si parlava d’altro che della partenza della signorina Giulia Sordelli. Era stata veduta avviarsi alla stazione e salire sul treno che andava a Milano; avea salutato sorridendo i conoscenti incontrati lungo la via e s’era trattenuta qualche momento col maestro di scuola, e tutti trovavano che avea la faccia allegra e l’espressione di chi ha una meta agognata da molto tempo che è sul punto di raggiungere.
VII.
La notizia della partenza improvvisa di Giulia penetrò in casa Arlandi; il signor Carlo ne fu preoccupato al punto che fu tutto il giorno di cattivo umore, tenne il broncio a Savina, sgridò Mario e non volle far colazione.
— Ma sai che sei un bel tipo? — gli disse la moglie. — Perchè ad una ragazza capricciosa, vien voglia di andar in città, tu subito immagini mille pericoli; avrà avuto bisogno di far delle spese.
— Puoi dire quello che vuoi, — rispose l’Arlandi, ma questa gita misteriosa mi dà noia, ho il presentimento che è andata per Ugo.
— Anche se ciò fosse, noi abbiamo fatto quello che si doveva fare, non abbiamo rimorsi.
— Parla per conto tuo, io invece da qualche giorno ho un rimorso che mi strazia l’anima e non sono contento di me.
— Perchè sei un uomo incerto, debole e non hai il coraggio delle tue azioni, ma per tua tranquillità voglio aver informazioni esatte.
Sì dicendo Savina chiamò il domestico e gli ordinò di andare al villino di Giulia e pregare Rosa, la cameriera, di venire un momento a villa Ada.
— Se la sua padrona le ha ordinato di tacere non dirà nulla, — disse il signor Arlandi.
— Dirà tutto, tu non conosci le donne, in ogni modo tentare non nuoce.
Non parlarono più finchè non giunse la cameriera di Giulia, la quale chiese subito la ragione per cui l’avevano fatta chiamare.
— Vorrei sapere, — disse Savina, — se la tua padrona ha ricevuto qualche cattiva notizia, che è partita così improvvisamente senza salutare nessuno.
— Oh, tutt’altro, — rispose la cameriera, — deve aver avuto delle notizie buone, è stata tanto contenta quando ha ricevuto quella lettera.
— Ha ricevuto una lettera? Forse del professore?
— Può darsi; so soltanto che mi ordinò di prepararle la sacca da viaggio e disse che volea partir presto questa mattina.
— Si fermerà via molto tempo?
— Non lo sapeva nemmeno lei, ha detto che mi scriverà.
— Va bene, se hai notizie vieni a portarcele; ho piacere che non sia per nulla di male; puoi andare.
Appena la ragazza fu uscita il signor Carlo s’alzò concitato e si mise a passeggiare su e giù per la stanza.
— Vedi? — disse alla moglie, — te l’ho detto, lo prevedevo, è stata chiamata ed ora ci metterà in un bell’impiccio. Ho fatto male a non far curare Ugo in casa, sono stato uno sciocco.
La signora Savina tentava di calmarlo, gli diceva di andar a passeggio a prender aria che si sarebbe presa sulle sue spalle ogni responsabilità.
Però per quanto facesse l’indifferente non si sentiva tranquilla nemmeno lei e aveva bisogno di parlare con qualche persona che potesse consigliarla e nello stesso tempo calmare lo spirito del marito. Invitò a pranzo il dottore per sentire la sua opinione e poi perchè sarebbe stato un diversivo; di star sola col marito così accigliato e irrequieto non si sentiva.
Il dottore si mostrò tranquillo, non poteva assicurare che Ugo fosse pazzo, ma dopo lo scoppio, lo stato in cui si trovava giustificava abbastanza la loro risoluzione; aggiunse però che se venivano buone notizie dal direttore della casa di salute, non conveniva insistere a lasciarvelo rinchiuso più a lungo.
— Io in casa non lo voglio, — disse la signora Savina, — è un individuo troppo pericoloso.
L’Arlandi diceva che spesso a quelli che fanno esperimenti scientifici accadono simili incidenti, e continuava ad essere preoccupato della gita della cognata; nemmeno le parole del dottore riuscivano a calmarlo.
Savina diceva che Giulia faceva una bella figura, mostrandosi tanto infervorata per un giovanotto e si sfogava dicendo un mondo d’improperio contro le ragazze emancipate che vogliono immischiarsi nelle cose che non le riguardano.
Ormai in casa Arlandi non si parlava d’altro, quei discorsi erano una fissazione, il signor Carlo si aspettava ogni giorno qualche sorpresa spiacevole ed era inquieto; soltanto la signora Savina si mostrava tranquilla e non perdeva la sua olimpica serenità, temeva troppo di turbare la sua digestione e guastarsi la salute.
VIII.
Dopo esser stata per tanti giorni inquieta e avvilita, nell’animo di Giulia era subentrata la speranza e le pareva che tutto dovesse esserle favorevole. Arrivata a Milano trovò l’articolo che riguardava Ugo pubblicato sul giornale e questo le fu come di buon augurio e le infuse non solo la speranza ma la certezza della riuscita.
Era come un giocatore di scacchi che avendo fatto per caso una buona mossa vede svolgere il suo gioco trionfalmente fino alla fine.
Prima di tutto andò dall’avvocato Alberti, un buon amico nel quale riponeva piena fiducia, e saputo di che si trattava la rassicurò e si mise a sua disposizione.
Poi mandò il giornale coll’articolo che nominava il professore, segnato con una striscia azzurra al signor Carlo, al dottore, a tutti i conoscenti e al dottor B, direttore della casa di salute.
— È come un’avanguardia, — disse all’avvocato, — è per prepararlo alla nostra visita.
Nel pomeriggio si recarono in persona a parlare col dottor B.
Era un uomo alto, serio, colla barba nera e gli occhi penetranti che pareva volessero entrare nell’anima e scoprire i più occulti pensieri. Abituato a vivere in mezzo ai pazzi e squilibrati di mente, vedeva in tutti gli uomini il germe della follia e calcolava tutti pazzi, fino a prova contraria.
Quando l’avvocato Alberti e Giulia chiesero di Ugo Arlandi dicendo che era tutt’altro che pazzo egli stentava a persuadersene.
— È tranquillo, educato, — disse, non dà noia a nessuno, anzi pare intelligente e la sua conversazione è piacevole, ma sul più bello vien fuori col voler trovare l’anima del mondo e ciò mi rende molto titubante se si deve tenerlo ancora in osservazione. Noi che siamo esperti in queste cose, — sappiamo che quando una parte del cervello è molto sviluppata, ciò è a scapito degli altri centri cerebrali che sono deficienti; vorrei mostrarvi dei veri pazzi che hanno un’idea fissa ma nel resto ragionano meglio di noi.
L’avvocato Alberti gli mostrò come tutti i giornali si occupavano del professore, il quale aveva dei nemici, e disse che la zia Giulia non avrebbe lasciato nessun mezzo per liberare il nipote; se fosse stato il caso sarebbe anche ricorsa al procuratore del re e avrebbe provocata una perizia.
Il dottore li assicurò che, appena avuta la convinzione che il professor Ugo fosse sano di mente, sarebbe stato il primo a non volerlo tenere più a lungo nel suo stabilimento.
Non poteva però prendere una risoluzione senza scrivere al signor Carlo che gli aveva affidato il figlio, e se la risposta fosse favorevole potevano esser tranquilli che Ugo sarebbe stato libero.
Giulia sperava di vedere quello stesso giorno il nipote, ma il dottore non lo permise, dicendole che l’avrebbe presto riveduto.
Essa si rassegnò ad attendere ancora un paio di giorni, ma intanto non rimase inoperosa e combinò un piano di battaglia come un esperto generale!
Ecco in che modo il signor Arlandi, mentre era sempre inquieto e pensieroso per la partenza di Giulia, si vide capitare prima il giornale coll’articolo che parlava del professore, poi una lettera del dottore dove diceva che gli pareva che il signor Ugo, passata la scossa nervosa del primo momento fosse abbastanza equilibrato, una lettera dell’avvocato che lo esortava a far uscire il figlio dalla casa di salute e finalmente una di Giulia, nella quale faceva intravvedere che se non lasciava parlare il suo cuore paterno, l’autorità si sarebbe intromessa nelle sue faccende domestiche.
Era tanto di cattivo umore il signor Arlandi, tanto poco contento di sè stesso che quando ricevette quella pioggia di lettere si sentì lo spirito un po’ più sollevato e volle fare a modo suo senza dir nulla alla moglie e senza consultarla. Scrisse al dottor B. di lasciar pure andar libero il figlio colla zia Giulia, alla quale mandò un telegramma dicendole che li aspettava presto tutti.
Finalmente gli era caduta la benda dagli occhi e s’era accorto del mal’animo della moglie verso Ugo e, pentito d’averlo fatto rinchiudere ingiustamente nella casa di salute, voleva a furia di affetto fargli dimenticare quel momento di debolezza ed era impaziente di rivederlo e in un abbraccio affettuoso cancellare il passato.
Ma invece di Ugo ebbe la sorpresa di veder arrivare l’avvocato Alberti per sistemare gli affari del professore, che desiderava esser padrone di adoperare la sua sostanza come meglio credeva e di fare nel suo laboratorio tutti gli esperimenti necessari senza che nessuno ci trovasse a ridire.
Il signor Carlo trovò giusto il desiderio del figlio e diede all’avvocato le più ampie spiegazioni sulla sua amministrazione; solo si mostrò dispiacente di lasciar la casa dove era vissuto tanti anni e che apparteneva ad Ugo il quale l’avea ereditata dalla madre, ma l’avvocato avea avuto raccomandazioni di accomodare le cose in modo che il signor Carlo non avesse il rammarico di abbandonare la casa, gli concesse di poterne abitare una parte, ma che ognuno fosse padrone in casa sua. Poi parlarono di Ugo e raccontò che si era trattenuto a Milano perchè i suoi ammiratori volevano festeggiarlo ed indurlo a fare una conferenza sopra i suoi studî. Così finirono per lasciarsi buoni amici.
La signora Savina quando seppe che il marito aveva tutto combinato senza dirle nulla, rimase esterrefatta e andò su tutte le furie. Come! Ugo era libero e poteva capitare da un momento all’altro! Poi s’impadroniva della casa e non lasciava loro che un appartamento in un angolo come un’elemosina! E pensare che in cuor suo, sperando che il professore non dovesse più ritornare, avea fatto il progetto di occupare il laboratorio così ben esposto al sole, per stendervi la biancheria, poi dare lo studio a Mario e accomodarsi un appartamento più spazioso e più comodo; dichiarò al marito che non voleva vivere in una casa esposta al pericolo di un’esplosione, poi avea bisogno di spazio e non si sarebbe acconciata a ridursi in poche stanze.
Il signor Carlo le disse ch’era padrona di andare dove voleva, anche nella catapecchia che abitava prima del matrimonio; in quanto a lui sarebbe rimasto vicino al figlio. Infine Ugo era il padrone ed era inutile facesse tanto chiasso.
Essa non fiatò più, ma si consolò pensando che sarebbe invece andata a Milano con Mario per farlo studiare, in modo che un giorno potesse eclissare nella scienza il professor Ugo.
IX.
Quel giorno che Ugo si trovò libero e assieme alla zia Giulia, che riguardava come il suo angelo salvatore, camminava per le vie popolose di Milano, gli parea di rivivere; i suoi affari erano affidati bene nelle mani dell’avvocato Alberti, poteva dedicarsi interamente alla scienza, l’avvenire si presentava pieno di promesse e non s’era mai sentito tanto contento. Giulia gli dava dei consigli, bisognava cambiar sistema, dovea vivere un po’ più in mezzo al mondo e farsi conoscere. Ormai era passato il tempo degli eremiti, e tutti i suoi studî non avrebbero servito a nulla se non fossero stati messi alla luce del sole, come non serve il danaro, che l’avaro tiene rinchiuso nel forziere.
Essa era disposta ad aiutarlo con tutto il cuore e con tutta la sua energia, ma egli doveva lasciarsi dirigere da lei.
Prima di tutto dovea mostrare di non essere uno squilibrato, e non gliene sarebbe mancata l’occasione, e poi procurare che il suo valore venisse riconosciuto dal mondo.
— Dimmi quello che devo fare, io ti ubbidirò ciecamente, — diceva Ugo, — ma come posso farmi conoscere se non ho fatto ancora nulla? Forse se non fossi stato rinchiuso tutto questo tempo il mio nome sarebbe associato a quello degli scienziati che hanno scoperto il radio, ma invece il destino avverso non ha voluto; per conto mio, sono contento che il radio sia stato trovato; io non ho ambizione, amo la scienza e il suo progresso mi preme più di tutto.
— Tu sei troppo modesto, — disse Giulia, — a me preme che il tuo valore sia apprezzato e mi occuperò io stessa di farti conoscere; intanto devi presentarti alle redazioni dei giornali e ringraziare quelli che hanno parlato di te; so che ciò è per te un grande sacrifizio ma devi farlo per ubbidirmi.
E per appagare la zia, Ugo si presentò alle direzioni dei giornali e n’ebbe le accoglienze più liete; tutti gli chiesero notizie dei suoi studî, chi voleva degli articoli sulle irradiazioni dei metalli, cosa di cui tanto si parlava, chi invece tentava persuaderlo a tenere una conferenza per farsi conoscere; molti volevano intervistarlo, egli si schermiva, sarebbe ritornato volontieri subito in campagna per continuare le sue ricerche; ma lo pregavano con tanta insistenza che non sapeva a qual partito appigliarsi.
Quando Giulia seppe quello che si desiderava da lui, non gli lasciò più pace; fare una conferenza era la più bella occasione per riabilitarsi e mostrare come la sua mente fosse chiara ed equilibrata.
— Ma come faccio, — diceva, — a prepararmi in pochi giorni?
— Ti aiuterò io, — soggiungeva Giulia, — lascia fare a me.
E intanto ordinò a Vincenzo di venire a Milano con tutte le note che il professore avea lasciate nel cassetto della scrivania, poi volle che Ugo scrivesse ai giornali che accettava di tenere una conferenza come desideravano, a beneficio dell’ospedale dei bambini e della fanciullezza abbandonata, e che il nome della conferenza sarebbe stato “l’anima del mondo,,.
— Come suona bene! — disse Giulia. — Non ti senti la volontà di metterti al lavoro?
— E se faccio fiasco? Sai che quando ho un pubblico davanti a me, mi manca la voce.
— Non c’è bisogno d’improvvisarla; per la prima volta, la conferenza puoi leggerla, e quando si ha davanti la carta non si vede il pubblico. Io prevedo un trionfo.
— Non ho ambizione.
— Non importa, l’ho io per te, e poi quando il tuo nome sarà conosciuto lavorerai con maggior lena, la fama è come una scintilla che dà eccitamento al lavoro, lo illumina e lo riscalda. Poi nel tuo caso da lei può dipendere la tua vita privata. Credi tu che la signora Savina ti avrebbe fatto rinchiudere in una casa di pazzi, se invece di essere il professor Ugo, umile, ignorato, che viveva all’ombra del suo laboratorio, fossi stato l’illustre scienziato di cui il nome e le scoperte fossero note a tutto il mondo?
Ugo diceva che la zia era accecata dall’affetto che aveva per lui e esagerava le sue qualità, però aveva deciso di seguire i suoi consigli, solo si contentò di chiedere una settimana di tempo per preparare la conferenza, e si mise all’opera perchè riuscisse degna dell’aspettazione.
Giulia era sempre più orgogliosa delle feste che si facevano al nipote; tutti i giornali parlavano di lui, il suo nome ed i suoi studî, la sua vita erano già conosciuti dal pubblico, si sapeva che i suoi ultimi esperimenti erano stati interrotti da uno scoppio avvenuto nel suo laboratorio che l’avea tenuto ammalato di nervi per molto tempo e ciò lo rendeva più interessante.
Egli non capiva come tutti conoscessero tanti fatti intimi della sua vita, e Giulia che senza dirgli nulla era stata l’ispiratrice di quelli articoli, rideva in cuor suo della sorpresa del nipote e si contentava di mandare i giornali al signor Carlo, alla signora Savina e a tutti i conoscenti; e in quei giorni di lavoro e preparazione febrile viveva come in un sogno e le pareva di aver trovato un nobile scopo alla sua operosità: quello di aiutare il nipote nella sua opera.
X.
Il giorno della conferenza del professor Arlandi la sala del ridotto della Scala si andava popolando di belle signore, di giovanotti eleganti e di uomini serii e studiosi.
Era una settimana che i giornali parlavano dell’Arlandi e tutti desideravano vedere il giovane professore che dava tante speranze per l’avvenire della scienza.
Poi la conferenza era a beneficio di due istituzioni cittadine, utili e benefiche, ed anche quelli che non si occupavano di studî serii avevano voluto andarvi per moda, per filantropia e per trovarsi cogli amici e conoscenti.
La ricerca dei biglietti era stata enorme e nella sala gremita di pubblico si sentiva il bisbiglio foriero d’un’impaziente aspettazione.
Quando entrò il professor Ugo, pallido, alto, col volto giovanile e le labbra velate da due balletti biondi, elegante nel suo vestito nero, inappuntabile, timido nei movimenti, ciò che lo rendeva ancora più simpatico e interessante; gli sguardi del pubblico si posarono sopra di lui, cessarono i bisbigli e tutti attesero attenti ad ascoltare.
Egli incominciò con voce chiara, tremante, incerta un po’ sul principio, ma mano mano che proseguiva si faceva più vibrante e colorita a parlare delle meraviglie della scienza e dei mezzi che permettevano di fare continuamente nuove scoperte. Parlò delle irradiazioni potenti date da certe sostanze come il radio che si trovano nascoste in diversi minerali e che sono tali da sconvolgere le idee che si avevano fino ai nostri tempi sui movimenti della materia e degli atomi.
Spiegò come quel metallo mandasse irradiazioni fortissime senza perder nulla del suo peso e fosse d’una forza tale da distruggere tessuti vitali anche attraverso a qualche ostacolo, ciò per mostrare come non fosse un sogno la teoria per la quale avea sempre combattuto ed ora desiderava esporre ad un pubblico così attento ed intelligente.
Egli avea sempre pensato ad un elemento racchiuso nel centro della terra in un luogo inaccessibile agli uomini, ch’egli chiamava anima del mondo, egli la imaginava una forza indistruttibile, eterna, tale da far sentire la sua azione attraverso gli strati densi del nostro globo, fino a spargersi in piccole particelle nell’etere che lo circonda.
— Io imagino, — disse, — il mondo come un corpo umano, i sassi sono le ossa, le acque che lo bagnano nell’interno e alla superficie sono il sangue che scorre nelle vene e le arterie del nostro organismo; e come il cuore nell’uomo, così ci deve essere nel centro del mondo un focolare di vita e calore, un fluido invisibile che partendo dal centro avvolge la terra in una rete vibrante, come i nervi avvolgono il nostro corpo; precisamente come l’elettricità, una forza che esiste, si domina, ce ne serviamo, ma della quale non si riesce a spiegare la vera essenza.
E dopo aver parlato delle caverne, una volta popolate da esseri fantastici ed ora invece da esseri invisibili che il microscopio ci ha rivelato, assicurò che quando altri strumenti più perfetti verranno in aiuto dei nostri sensi più raffinati, si apriranno nuovi orizzonti alla scienza e terminò dicendo essere convinto che nel mondo, in noi stessi vi è una parte indistruttibile, eterna, e come da un rozzo minerale si sprigiona una scintilla che non si consuma, come da certe vibrazioni del cervello i pensieri si rinnovano continuamente e il mondo è avvolto da onde eteree delle quali non si conosceva l’esistenza prima di Hertz e di Marconi; così molte forze e molte verità devono ancora esserci rivelate; ci sembra esser circondati da misteri che la scienza infaticabile deve svelare e lo scienziato è come colui che ha trovato le tracce d’un tesoro nascosto e non riposa finchè non lo abbia messo alla luce del sole.
Animandosi nel suo dire divenne eloquente, aveva il dono di trasfondere la sua persuasione nell’uditorio e di suggestionarlo.
Infatti tutti si sentivano trasportati nelle regioni elevate della scienza e del pensiero come se da una corrente magnetica fossero legati all’oratore. Quando ebbe terminato un lungo e clamoroso applauso echeggiò nella vasta sala, alcuni conoscenti circondarono il professore stringendogli la mano e congratulandosi della sua parola efficace e colorita, altri s’avvicinavano per conoscerlo; egli era umile, confuso nel suo trionfo e avrebbe voluto andarsene, quando vide farsi avanti correndo, rovesciando le sedie, un signore rimasto tutto il tempo della conferenza nascosto in un angolo senza parlare pendendo dalle labbra dell’oratore.
Il rumore delle sedie fece volgere Ugo da quella parte e lasciando gli ammiratori che lo circondavano s’avviò in fretta ad incontrare quel signore che veniva verso di lui.
— Babbo, — disse, — come, tu qui?
— Ho letto nei giornali, — rispose il signor Carlo, ma era tanto commosso che non potè trovar la voce per dire di più e si gettò fra le braccia del figlio.
Quando potè riavere il fiato, gli disse: — Come hai parlato bene! Non avrei creduto mai, ma mi perdoni, non è vero? Non mi serbi rancore di quello che è avvenuto?
— Non parliamo di queste malinconie, ho tutto dimenticato, — disse Ugo.
E lo presentò a quelli che lo circondavano, che gli fecero feste dicendogli che doveva essere orgoglioso di avere un simile figliuolo. Poi l’invitarono ad un banchetto che volevano dare per festeggiare il professore.
Il signor Carlo non sapeva quasi più d’esser su questa terra, provava un’ebbrezza, una gioia come non aveva mai provato nella sua vita; e sarebbe stato completamente felice se non avesse sentito il rimorso di aver fatto rinchiudere il figlio, che avea mostrato tanto ingegno, in una casa di salute. Quel rimorso offuscava la sua gioia e avrebbe dato parecchi anni di vita perchè quel fatto non fosse avvenuto. Egli seguiva il figlio glorioso come attratto da una forza superiore, lo vedeva stimato e ammirato, gli pareva fino di trovare in lui un mutamento, circondato come era dall’aureola del trionfo.
Anche Giulia s’era unita al crocchio che circondava Ugo, tutta orgogliosa di aver contribuito a quella giornata trionfale.
Quando la sera si ritrovarono riuniti al Cova, al banchetto che gli ammiratori avevano voluto offrire ad Ugo, al signor Carlo pareva d’esser nel mondo dei sogni; con quella sala illuminata, la tavola scintillante di cristalli e d’argenti e coperta da lunghe corone di fiori che la rendevano allegra. Quelli che non potevano avvicinarsi al professore s’accostavano a lui e gli domandavano ragguagli sull’infanzia e giovinezza del figlio, quasi quasi gli pareva d’essere un uomo importante e d’entrarci per qualche cosa nella riuscita di Ugo; era espansivo, parlava del professore con entusiasmo esagerandone le doti del cuore e dell’ingegno, voleva stordirsi per far tacere il rimorso che l’opprimeva.
Al momento dei brindisi si acclamò il professor Ugo come speranza della scienza, ed egli rispose poche parole ringraziando d’esser stati tutti tanto buoni ed indulgenti per lui, e brindò alla scienza che toglie il velo che offusca la verità e al padre che avea lasciato la pace della casa tranquilla per venire alla sua festa.
Un evviva dedicato al signor Carlo fece eco a quelle parole, e quando il figlio gli fu vicino e gli toccò il bicchiere due lagrimosi gli scendevano sulle guance.
— È troppo, è troppo, — diceva, — mi fa male.
Ma il professore non dimenticò nemmeno la zia Giulia che se ne stava in un angolo quasi nascosta fra le giubbe nere e si avvicinò a lei con un sorriso chiamandola il suo buon genio, il suo angelo tutelare.
Tutti gli sguardi si posarono sopra la fanciulla che avea il volto raggiante dalla gioia contenta della vittoria ottenuta.
Quando più tardi si ritrovarono riuniti nella camera dell’albergo, Ugo affermava che non sarebbe riuscito a far nulla senza l’aiuto di Giulia, e il signor Carlo nell’entusiasmo di quella giornata trionfale diceva:
— Questa è la vita! sono stato fin’ora un cattivo padre; ma voglio farne ammenda; senti, Ugo, voglio essere il tuo aiutante ed essere iniziato nei misteri del tuo laboratorio.
— E se succede uno scoppio?
— Ebbene, moriremo assieme.
— Ma non sai che c’è laggiù qualcuno che non te lo permetterebbe?
— Chi? Mia moglie? Me n’ero dimenticato, ma essa è stata ingiusta con te ed ora per castigo verrà a Milano con Mario e noi resteremo liberi.
Giulia ed Ugo si diedero un’occhiata espressiva, ma non osarono dir nulla, nè pensare a malinconie; tutto in quel giorno doveva andar loro a seconda, e forse sarebbero stati tutta la notte a parlare dell’avvenire che si mostrava adorno di promesse.
Ma Giulia alzandosi tutto ad un tratto disse:
— Ed io che dimenticavo la mia missione? Non devo far conoscere al mondo il professor Ugo? Vado subito a scrivere pei giornali la relazione della conferenza da spargere ai quattro venti, e vi assicuro che la prima copia sarà mandata alla signora Savina Arlandi.
Fine.
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TITOLO: L’anima del mondo
AUTORE: Cordelia
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Verso il mistero : novelle / Cordelia. - Milano : Fratelli Treves, 1905. - 390 p. ; 19 cm.
SOGGETTO: FIC004000 FICTION / Classici