L’Italia ha un lato oscuro che si chiama sfruttamento. E’ la realtà di migliaia di esseri umani che si muove in bilico in una società fortemente corrotta, una popolazione di invisibili che vive una situazione di iper-sfruttamento con la connivenza dei dirigenti politici tenuta abilmente nascosta alla vista. E’ l’Italia dei braccianti e loro sono i nostri nuovi schiavi.

I Ghetti sono baraccopoli sorte attorno a gruppi di vecchie masserie, in mezzo a campi che si perdono all’orizzonte, formati da costruzioni in lamiera, cartone e assi di legno. I ghetti d’Italia sono dislocati in Puglia, Campania, Calabria, Lazio, Basilicata, Sicilia. Chi non vive nei ghetti occupa strutture fatiscenti abbandonate, lontane anni luce da qualunque idea di benessere e vivibilità.

Sono “non luoghi”, favelas gestite dalle mafie locali dove le vite di braccianti, prostitute e caporali si intrecciano in un destino perverso, tollerate dallo Stato. D’estate si animano di persone, ma i più indigenti si fermano qui tutto l’anno per preparare la terra e controllare i campi.

Gli abitanti sono quasi tutti stranieri provenienti dall’Africa sub-sahariana, ma anche da Pakistan, India, Marocco, Tunisia, Romania, Bulgaria. E poi ci sono gli italiani indigenti, donne soprattutto, pagati una miseria in più rispetto agli stranieri e che almeno hanno il conforto e la magra consolazione di poter rientrare ogni sera in una casa vera.

I ghetti accolgono stranieri con documenti regolari che hanno perso il lavoro o non ne trovano uno migliore, vittime anche loro della crisi lavorativa che ha investito il paese. Ci sono studenti. E poi ci sono gli irregolari che vagano da nord a sud alla ricerca di un’opportunità, attraverso un passaparola tra migranti che ne convincono altri e altri ancora a venire.

 

Lavorano dalle 10 alle 12 ore al giorno con la schiena piegata a raccogliere pomodori, agrumi, angurie, patate, ortaggi. Guadagnano dai 2 ai 3 euro all’ora, oppure per ogni cassone riempito, a seconda del raccolto. Si comincia a lavorare alle 5 di mattina e bisogna andare veloci perché al caldo i prodotti della terra vanno raccolti subito, se no tutto marcisce.

E’ a seguito della rivolta del 2011 nel Gran Ghetto di Rignano, capeggiata dal sindacalista Yvan Sagnet, che lo Stato ha proclamato il caporalato reato penale. Ma cosa è cambiato?

Piani, proclami, appelli, denunce… eppure, nonostante tutto, i ghetti resistono e intanto son passati 20 anni. Ogni tanto ci muore qualcuno, allora i sindacati rincarano la dose di proteste, i braccianti scendono in piazza, qualche titolo di giornale, scorrono le immagini e poi tutto si riavvolge, come in una pellicola inceppata, e torna a fermarsi. Il generale trambusto mediatico sull’immigrazione ci distrae da questa parte di umanità che lavora, e duro, senza diritti.

Quella che fa lavorare i braccianti è un’organizzazione mafiosa ben collaudata, dove nulla viene lasciato al caso. Vediamo nel dettaglio come funziona.

TUTTO HA UN PREZZO

Paradossalmente ogni ghetto è una miniera d’oro per chi lo dirige e l’isolamento in cui vengono tenuti i braccianti è fondamentale per poterli controllare. L’elettricità arriva attraverso generatori a benzina. Per ricaricare la batteria del cellulare si pagano 50 centesimi ai “bar” del ghetto. Ci sono due tipi di acqua: quella non potabile che arriva dall’acquedotto, utilizzata tramite dei rubinetti per lavare pentole e farsi la doccia fredda, e quella delle grosse cisterne portate nelle baraccopoli dalla Regione. Nel periodo estivo arrivano due o tre volte al giorno e sono insufficienti per tutte le necessità, mentre d’inverno l’alternativa è quella di riscaldare i bidoni con l’acqua non potabile. Si pagano 50 centesimi per un secchio d’acqua, che in realtà è la stessa (non potabile) con cui ci si fa la doccia.

Le baracche sono montate con porte di scarto, lastre in ferro, pezzi di lamiera arrugginita, cartoni, buste in plastica, cerchioni di automobili, oblò ricavati da copri water, pezzi di tende stracciate, che sotto al sole si trasformano in fornaci e che riportano alla memoria le squallide bidonville delle zone più desolate del pianeta. Le latrine sono bagni improvvisati, buche scavate nella terra, sormontate da bancali marci e pareti in legno. Nei grandi ghetti si può scorgere qualche bagno chimico. I mafiosi italiani che gestiscono la proprietà dei terreni intascano dai 30 ai 50 euro al mese per l’affitto delle baracche, che i braccianti devono costruirsi da soli, in ognuna delle quali vengono sistemate 5/6 persone.

In questi angoli sperduti di mondo il cibo viene approvvigionato dai caporali: ogni persona paga dai 4 ai 6 euro al giorno. A volte arriva anche carne, che viene conservata nelle buste, il cui prezzo è stato maggiorato per consentire al caporale di guadagnarci su. Oppure interi pezzi macellati, di dubbia provenienza, appesi all’aria aperta rischiando la contaminazione con polvere e mosche.

Ai caporali ogni bracciante versa 4 euro al giorno per essere trasportato ai campi di lavoro.

Perfino gli attrezzi del lavoro, come guanti e stivali, hanno un prezzo e devono essere acquistati dal lavoratore.

Di tanto in tanto si espande nel cielo una densa coltre di fumo, è l’immondizia che viene bruciata nei campi perché nessuno la porta via, nascondendo le tracce dei rifiuti e non pagando alcuna tassa comunale per lo smaltimento.

Per un ricambio di abiti bisogna sperare nel buon cuore dei parroci e dei volontari che si arrischiano ad entrare nei ghetti.

IL TRAFFICO DI FARMACI

Chi lavora 10-12 ore sotto al sole o dorme in luoghi malsani contrae ogni tipo di malanno, perlopiù micosi e altre malattie della pelle. Ma anche intossicazioni dovute all’acqua e al cibo scadente e mal conservato e problemi gastrointestinali. E poi la tosse, derivante dal contatto con pesticidi. Attorno al dolore di questi disperati si è creato un vero e proprio spaccio di oppiacei e antidolorifici che consentano di sopportare i duri ritmi di lavoro anche quando si sta male.

Chi si ammala più gravemente deve sganciare al caporale 20 euro, oltre a sorbirsi le bestemmie per essere portato in ospedale (ammesso che abbia i documenti in regola).

Tolto alcuni volontari privati e il personale di Emergency, che portano assistenza medica dove e come possono, i braccianti dipendono in tutto e per tutto dai loro aguzzini.

LA TRUFFA DEI DOCUMENTI

Quella dei documenti è una faccenda losca che trae origine in Libia e coinvolge i richiedenti asilo, che decidono o vengono in qualche modo spediti in Italia con mezzi di fortuna. Mi sono chiesta come mai tutti giungono in Europa privi di documenti. Alcuni di loro hanno pianificato di lasciarli in patria per poter mentire sul paese di provenienza, sperando di ottenere lo status di rifugiato anche se arrivano da paesi dove non vi sono conflitti. Ma sono una minoranza. Alla maggior parte di loro i documenti vengono sequestrati in Libia e rivenduti alla mafia italiana, che li rivenderà a sua volta ai clandestini per creargli una nuova identità, guadagnare contanti e tenerli sotto controllo. Attraverso questa manipolazione il bracciante dovrà lavorare anni per estinguere il debito contratto.

Prendiamo ad esempio la Puglia: per lavorare bisogna iscriversi ad una lista di prenotazione, una specie di collocamento pubblico creato dalla Regione e istituito dopo una lunga battaglia sindacale. I caporali però, subito dopo l’iscrizione, sequestrano i documenti, in modo che nessuno possa andarsene senza preavviso. Diventa così impossibile liberarsi dal vincolo lavorativo. Inoltre è una forma di ricatto: se un lavoratore si comporta male, fa qualcosa che al caporale non piace, non potrà riavere il passaporto, o permesso di soggiorno o carta d’identità, e verrà denunciato alla questura come clandestino. Non stupisca che le patrie galere pullulano di rifugiati, non che abbiano commesso chissà quali reati, ma semplicemente si sono ritrovati impigliati nelle maglie di questa truffa. Intanto i documenti sequestrati verranno rivenduti a qualche irregolare a caro prezzo: si sborsano tra gli 800 e i 1000 euro che dovranno essere ripagati con il lavoro nei campi.

Siamo di fronte ad un esercito di manodopera in nero sulla quale lucrano tutti gli anelli della catena agricola e sociale. Una catena che aggancia l’immigrato, gli si stringe alla caviglia e non lo lascia più.

Sono diversi invece i canali che consentono a Rumeni e bulgari di raggiungere l’Italia: discutibili agenzie di lavoro in patria organizzano pullman di disperati con tutta la famiglia al seguito, bambini compresi. Vivono separati dagli altri stranieri, in casolari abbandonati. Sono, insieme agli indiani, l’ultimo anello della catena, i più sfruttati e i meno pagati, i più ghettizzati.

LE DONNE

Come tristemente accade in ogni società, anche all’interno di questo meccanismo mafioso la donna viene sfruttata e sottomessa dagli uomini. Rumene e africane, per lo più nigeriane, vengono avviate alla prostituzione per alleviare la solitudine dei braccianti delle grandi città invisibili.

Mentre le rumene arrivano solitamente da agenzie di somministrazione lavoro e vengono impiegate anche nei campi, le nigeriane fanno parte di una rete che parte dalla Nigeria. E’ la mafia nigeriana che si occupa di pagare il viaggio alle ragazze per poi tenerle sotto controllo attraverso il ricatto di superstizioni e con la minaccia di ritorsioni verso le famiglie di origine, non lasciandole libere fino all’estinzione del debito.

Anche in questo sistema a cupola le donne quindi sono considerate inferiori, non solo perché non detengono alcun ruolo predominante, ma anche perchè nei campi vengono pagate meno degli uomini. Per tutte loro la paura dello stupro è sempre in agguato. Alcune sono tossicodipendenti , e sono i caporali stessi a fornire la droga a prezzo rincarato.

LA PIRAMIDE MAFIOSA

Il bracciante segna su un blocchetto le ore lavorate, che spesso non coincidono con quelle pagate. Il caporale sottrae dalla paga le sue spese (cibo, alloggio, trasporto e altro). Quindi paga il proprietario italiano del terreno che percepisce i soldi dell’affitto. Poi ci sono i grossisti e i compratori del prodotto finale.

I braccianti non hanno alcun contatto con il capo italiano, perché quello prende i soldi ma delega agli altri il lavoro sporco. Chi controlla i braccianti sono i caporali, che sono sempre connazionali.

Una gerarchia di Caporali piccoli e medi che controlla il flusso e raccatta manodopera in giro per l’Italia. In genere il caporale chiede al migrante 50 euro, una sorta di pizzo per avergli procurato il lavoro. L’apporto di questi connazionali è fondamentale al fine di mantenere in vita il sistema di sfruttamento, perché chi è appena arrivato si fida del “fratello” nero. Molti partono senza avere la minima idea di cosa li aspetta, reclutati sulla fiducia. E dove svanisce la fiducia, il resto lo fa la fame, che costringe ad accettare. I caporali che guadagnano più soldi si comprano un’auto o un furgoncino per trasportare i braccianti e guadagnarci sul trasporto. Se un lavoratore chiede di essere trasferito ad un altro campo…sono altri 50 euro.

Sono le infiltrazioni mafiose italiane a mantenere i legami con le istituzioni e la politica corrotta del posto.

Un ruolo decisivo viene svolto dalla figura del commercialista, definito il colletto bianco dello sfruttamento: gestisce i contratti, controlla i documenti, seleziona i camionisti che trasporteranno le merci.

A capo di questa cupola ci sono Mafia, ‘Ndrangheta, Sacra Corona Unita, e le grandi imprese agro-alimentari, che dettano le regole e decidono i prezzi del prodotto.

In tutto questo traffico di esseri umani e interessi loschi l’Unione Europea, sempre abituata ai suoi rigidi controlli, stranamente chiude un occhio, dimostrando una cecità che appare sospetta.

LA FILIERA

Un’anguria in agosto viene venduta all’ingrosso a 20 centesimi al chilo. Conoscendo i prezzi correnti è facile calcolare i ricavi. Chi si arricchisce è colui che trasformerà il prodotto o lo rivenderà sui mercati, in particolare del nord Europa, soprattutto in Germania che rappresenta il maggior acquirente.

Riguardo al pomodoro Cirio, l’Uomo del Monte, Desantis, Doria, La Princes, Santa Rosa, Valfrutta, Arrigoni, Mutti…sono grosse multinazionali tutte dislocate nelle aree del sud, non lontano dalle zone dei ghetti, che spesso non si preoccupano di fornire la tracciabilità del prodotto e dunque non si può sapere quali materie prime utilizzino, anche se è facile intuirlo. Anche i camionisti che si spostano in continuazione da nord a sud carichi di prodotto finito, dichiarano di venire sottoposti a orari massacranti e paghe misere.

CONCLUSIONI

400.000 lavoratori italiani e stranieri sfruttati, sottopagati, agli ordini di caporali e mafie locali, persone che vedono calpestati diritti e dignità in nome del maggior profitto. Il caporalato ormai non è più prerogativa del sud, pare essersi insediato – seppur in misura minore – anche a nord, in regioni come il Piemonte e la Lombardia, passando per la Toscana, dove coinvolge il settore agro-alimentare e arruola prevalentemente lavoratori dai paesi dell’est. Non ha le tinte fosche dei ghetti, ma lo sfruttamento c’è.

L’Italia rischia di trasformarsi poco alla volta in un ghetto a cielo aperto catapultato nel degrado, il cui lavoro nero produce un utile da milioni di euro, e manda avanti l’economia a spese unicamente dei lavoratori della terra, degli stranieri e degli italiani parimenti sfruttati.

Ricostruendo le tappe di questo sfruttamento mi è parso chiaro che questo sia uno dei capitoli più dolorosi e vergognosi della nostra Italia. Sono lontani i tempi nei quali lavorare la terra era sinonimo di nobiltà. Un paese che si voglia definire civile non può nutrirsi al banchetto di un simile sistema schiavista, con la pretesa di insegnare ai poveri a porgere l’altra guancia per schiaffeggiarla meglio. I NOSTRI braccianti non sono né eroi né miti, sono solo lavoratori che meritano dignità e rispetto, e sostegno, proprio come tutti gli altri. Uscire da questo pantano non sarà semplice. Ma è urgente che le istituzioni si adoperino per vigilare, denunciare e punire, per impedire che accada di nuovo quel che la storia recente ci ha mostrato. Per scongiurare che non vi siano più altri omicidi. Non possiamo attendere il prossimo Soumaila Sacko, il sindacalista barbaramente ucciso per un pezzo di lamiera e come lui altri prima. Non possiamo diventare un paese strozzino che tende la mano a questo assurdo apartheid, che si mantiene sulla sofferenza di alcuni, che pone il cappio al collo al suo cittadino, stringendo il nodo sempre più, giorno dopo giorno, fino a togliere il respiro.

(di Agatha Orrico)

*Questo articolo non avrebbe visto la luce senza l’apporto fondamentale di libri come Agromafie e Caporalato, Ghetto Italia, Uomini e Caporali, di cui ringrazio gli autori.

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