“Scrivere è… tornare a casa. Lo stesso che leggere. Chi scrive o legge realmente, cioè solo per sé, rientra a casa.” Queste parole appartengono alla grande scrittrice Anna Maria Ortese e le porto sempre con me come si fa con un documento di identità. Ma cosa significa esattamente “tornare a casa” e scrivere o leggere “realmente, cioè solo per sé”? Perché escludere a priori i venticinque lettori di manzoniana memoria?
Mi chiamo Valentina Olivastri, sono originaria di Cortona e da oltre trent’anni abito in Gran Bretagna: Londra prima, Oxford poi. Scrivo romanzi – ho esordito con Prohibita Imago (Mondadori & Oscar Bestseller). Ho conseguito un dottorato di ricerca in studi rinascimentali presso lo University College di Londra dove ho anche insegnato. Ho lavorato per librerie antiquarie con ricerche sulla storia di antichi manoscritti e testi a stampa. Attualmente lavoro per la Bodleiana, la biblioteca principale dell’Università di Oxford, un’istituzione che risale al XV secolo, dove mi occupo di riviste accademiche.
Dirò subito che sono anni che cerco la mia via del ritorno. Non è facile e non certamente o necessariamente a causa della distanza fisica che si interpone fra le bianche scogliere di Dover e una collina toscana. Nel mio girovagare, sovente mi perdo, percorro strade senza uscita, l’orientamento va e viene come quando si sbuca da una calle a Venezia, ma poi, all’improvviso, quasi per magia, mi capita di ritrovarmi a casa. La questione, tuttavia, rimane: come è che ci sono arrivata?
Anni fa, quando collaboravo per il quotidiano inglese The Guardian, lavorai a una serie intitolata Writing home. A scrittori del calibro di Kurt Vonnegut, Tatyana Tolstaya, Shūsaku Endō venne chiesto di parlare del loro legame emotivo con quella striscia di terra che consideravano casa loro. Per l’Italia scegliemmo Gesualdo Bufalino; scrissi una breve introduzione e tradussi il suo gran bello scritto in lingua inglese. In verità, però, fu il pezzo di Ivan Klíma a colpirmi in modo particolare. Nella sua disamina, lo scrittore ceco si chiedeva se la l’idea di casa fosse un bene indispensabile, un pezzo di destino, di terra dove sotterriamo i nostri morti, parte integrante del nostro essere, delle nostre consuetudini, un contenitore di ricordi insomma, qualche cosa di più del posto dove si risiede oppure se si trattasse, invece, di un lascito romantico, di un relitto del passato. Klíma giunse alla conclusione che l’idea di casa era tutto questo e molto di più ma personalmente, per nessun motivo, nonostante le mille difficoltà, sarebbe riuscito a vivere stabilmente fuori dalla sua nativa Cecoslovacchia in quanto era certo che non sarebbe più riuscito a scrivere.
Il mio ultimo romanzo, L’album di famiglia, è ambientato in Toscana, e durante la stesura, avvenuta, nel mio caso, in terra anglica, mi sono resa conto che sono stata a casa tutto il tempo in un posto chiamato Borgo dove “lo sguardo si perde fra una vegetazione che non teme le vertigini e una vallata di poggi, una linea di boschi a tratti quasi intinti di nero, dove la luce penetra a chiazze. A volte il verde si innalza come una serpe, sfuma in pennacchi di vapore denso tra un casolare solitario e qualche campo bucato dalle intemperie e dai cinghiali. Una tavolozza di rocce luccica come tanti arcobaleni. Pietre gialle e fulve si impastano con altre azzurre, verdi, color cioccolata, a nascondere vene di stagno, ferro, zolfo e rame, come se la terra fosse un primitivo maestro del pennello.”
Benché non descriva il paesaggio della mia infanzia, si tratta pur sempre di uno spazio intessuto di ricordi fatti anche di un’adolescenza portata con diffidenza durante inverni ventosi ed estati troppo brevi in un paese abbracciato da mura ostinate. Nello scrivere c’è sempre un elemento di difesa, un brandello di riserva mentale, un velo sottile che ci divide dal giro di frase che come un tarlo va diritto all’essenza. Le sillabe si confondono, si esaltano, si compongono e si dìsfano; come un giro di note, un profumo, un sapore, una filigrana di memorie, a un certo punto, ci prendono per mano e ci riportano a casa, un luogo metaforico e fisico da tempi immemori, da quando i primi nomadi misero radici.
La protagonista dell’Album di famiglia, una giornalista inglese, con un nome che sembra una balbuzie per bocche svagate – Edith Philippa Everard de Winton Strange meglio nota semplicemente come Edi – a causa di una crisi di mezza età fa ritorno a Borgo, il paese della sua infanzia, della sua “pigra e indolente adolescenza giallo zafferano.” Tuttavia, il ritrovamento di un vecchio album di fotografie verrà a sconvolgere la tranquilla routine del paese facendo venire a galla segreti inconfessabili, mettendo in evidenza la natura ambigua della famiglia e spiazzando le consolidate certezze della comunità borghigiana.
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