L’acqua del Po
di
Cesare Pavese
tempo di lettura: 13 minuti
La sera di una giornata in barca Masino non s’annoiava mai. E dire che sovente usciva a fare un giretto di mezz’ora con visita a un caffè e fumata. La ragione è che per tutta la sera gli restava nel corpo dalla fatica del giorno un torpore di stanchezza ch’era come la presenza attuale del fiume. Non può sentirsi annoiato dopo, chi va sul Po. Ma s’intende chi va sul Po come si deve, ben disposto e con compagni scelti. E niente donne. Colle donne, come sempre, ci si secca tutto il tempo e ci si secca il giorno dopo a ripensarci.
Ma la sera di cui parlo Masino era un po’ piú che non annoiato. Non ci pensava allora, ma se qualcuno gli avesse ricordato che anni prima lui era stato un bel po’ incerto se togliersi la vitaccia, sarebbero state imprecazioni alle memorie.
Gli lucevano gli occhi quella sera. E camminava un po’ malfermo: la divina stanchezza, se si vuole. Era anche piú bello Masino. Il tepore intimo di pensieri e pensieri lo illuminava tutto e faceva persino scordare la barba lunga di tre giorni. Il fatto era che Masino e i suoi soci s’erano fermati di ritorno dal fiume all’osteria e lì avevano trincato a rinfondersi nelle vene l’umore vitale disseccato dal gran sole.
Adesso Masino ripensava al pomeriggio e la vece del sole gliela teneva negli occhi il fulgore di un’estasi un po’ brilla.
Ma non era ubriaco Masino. Si sentiva soltanto in una gran beatitudine. E per goderla meglio, per studiarla con calma, andò a finire in un caffè del centro, posto nel gran corso verde e luminoso che attraversa Torino.
Il pomeriggio era stato davvero robusto. E come tutte le grandi giornate anche quella era cominciata malamente, tra dubbi e incertezze, dando molto da trepidare e da sudare a Masino organizzatore, per poi risolversi in un modo che lui neanche s’era immaginato.
L’impresa di Masino era stata di far conoscersi e convivere per tre ore sulla barca a punta due suoi amici nuovi l’uno all’altro. Erano gente di una natura spinosa che già a starci insieme lui, ci voleva tutta la sua adattabilità.
Il primo era un tipo di sportivo taciturno dalle parti di Biella, dedito alla meditazione, parlatore di dialetto e fumatore di pipa, mai stato in barca in vita sua. Si chiamava Merlo.
Un gran compagno costui, che Masino conosceva fin da ragazzo e che da un pezzo diceva male delle spedizioni fluviali del collega. Masino l’aveva deciso finalmente a provare di persona.
Mentre i due nella capanna del barcaiolo si mettevano in mutandine e Merlo cercava sospettoso un luogo da nascondere i soldi, arrivò il secondo.
Questo era un giovane piccolotto ma di buona muscolatura, giornalista anche lui nel giornale di Masino e si chiamava Hoffman. Su di lui Masino aveva rifatto l’antica scoperta che i figli di due razze sono i tipi piú svegli. Madre ebrea, padre italiano, faccia spregiudicata e conversazione rotta, estrosa, ora quasi diabolico, ora che pareva un frate. Masino l’aveva conosciuto un giorno cavandolo dal Po in stato semicomatoso e siccome non c’era nessun bagnante pratico lí vicino a perpetrargli la respirazione artificiale, il giovanotto se l’era passata con poco danno. Hoffman l’aveva appena ringraziato, che subito se l’era presa col fondo fetido del fiume, invocando la superiorità delle Paludi Pontine per la punta. Ma siccome la vita era una vaccata, continuava sul Po e alle paludi non ci andava.
Quando i tre scesero alla barca, Masino aveva già fatto un discorsetto come, essendo stati tutti studenti, bisognava darsi del tu. – E nota, Merlo, che Hoffman non capisce il piemontese. Bisogna che parliamo in italiano. – L’italian j lô saj, – rispose Merlo. – S’impara alle elementari, – aggiunse Hoffman.
C’era un sole formidabile. Le piante dei piedi non resistevano il terreno. Hoffman aveva in testa un fazzolettaccio rosso alla pirata e Masino un berrettino bianco da soldato di marina. Quasi nudi coi pali sulle spalle come lance, dovevano fare una certa impressione a Merlo che seguiva in mutandine rigate, col suo cappello borghese e una pagaia in mano.
Staccarono la barca in silenzio. A Masino cominciavano i dubbi sulla riuscita della fusione. Se Merlo continuava a star caparbio e Hoffman dava libero sfogo ai suoi pensieri rabbinici e alle sue invettive, la giornata era perduta. E la sua pace guastata, poiché lui temeva i pensieri di Hoffman. E gli sarebbe spiaciuto di rinunciare alla beata incoscienza e brutalità della punta per trascinare un pomeriggio diplomatico di compromessi e di menzogne.
Era adesso dritto a poppa, ben poggiato col destro sulla sbarra traversa e alzava e piantava il remo con la sola sinistra, dominando. Tentò, nello sciacquio della corrente avversa, un’osservazione: – Ci vuole un voto di plauso per Merlo che se ne sta tranquillo stravaccato e non cerca lui di aiutarci a spingere. È la cosa piú perfida. Tutti in principio voglion darci dentro e sbandano solo la barca. Poi quando sarebbe ora di lavorare al ritorno giù per la corrente e non c’è piú bisogno di capacità, sono stanchi e stanno a guardare. Sono pochi i novellini come Merlo.
— Novellino lo è di sicuro, – disse Hoffman dal mezzo della barca dove stava aggottando l’acqua. – Guarda, portiere, che quel cappello lo porti a casa in tanti pezzi con ’sto sole.
— Meglio il cappello che la testa, – fu la risposta in italiano, piena di degnazione.
Ora Masino per la paura di aprire un argomento che li facesse litigare, stava zitto. La barca risaliva faticosamente un correntino. C’era un sole cosí ardente che il palo usciva gocciolando dall’acqua e quando si rituffava era già asciutto.
A un tratto Hoffman disteso al cielo con un’aria da padrone dichiarò che alla Rapidissima avrebbe dato il cambio a Masino. La Rapidissima era una corrente maligna un po’ piú a monte, larga quanto il fiume, precipite e di fondo magro e sassoso. – Oggi dev’essere piú bassa –. Ci voleva perciò pugni solidi e espertissimi.
E fu allora che Merlo parlò: – Se non avete paura che vi affoghi, alla Rapidissima provo da solo.
Masino guardò Hoffman. Era come se uno senza saper nuotare volesse fare i tuffi. Non che ci fosse gran pericolo, ma si sarebbe tante volte tornati indietro a capriola, da lasciarci l’anima e la voglia.
Nell’imbarazzo circostante Merlo tirò fuori la pipa dalla cintura e domandò: – J l’aj ancôra temp a fumè ’na pipa??
Questo piemontese lo capí anche l’ebreo che ruppe fuori dando a Merlo un’occhiata curiosa: – C’è tempo. Provi lui. Dopo tutto, può riuscire.
Segui un altro silenzio. – Tra poco siamo al Salto delle Pivie, – tentò Masino. – Gli ho messo quel nome perché ci ho visto le pivie fare il bagno –. Nessuno disse nulla e Masino si sentí voglia di pigliarli a schiaffi.
La barca attraversava ora un gran lago d’acqua quasi calma, il bacino sotto alla Rapidissima, e le rive eran lontane. Piú innanzi il fiume si sarebbe ristretto. C’eran poche altre barche quel giorno, ma sempre una gran gente alla confluenza del Sangone, sul promontorio sovrastato dal bosco dei pioppi densi contro il cielo. Dalla punta estrema, il Salto delle Pivie, giovanotti operai in gamba piantavano tuffi alti sei metri, tra il gran formicolio e il baccano. Vicino alla barca d’improvviso emerse dall’acqua un ragazzo ben bronzato e membruto, tutto stillante. Merlo, vergine di sole, apparve ridicolmente cittadino al confronto. E Hoffman diceva ai due: – Vedere bei corpi è altrettanto necessario che conoscere persone intelligenti.
— Certô ch’a piasô, – concesse Merlo.
— Tutti e due insegnano l’umiltà necessaria a vivere.
A un tratto dal gran sole la barca entrò nella penombra verde degli alberi. E Masino dando gli ultimi colpi rabbiosi si arrovellava cosa mai capisse Merlo di quell’idea sull’umiltà. Sempre Hoffman: non cambiava per nessuno. La Rapidissima a due passi borbottava.
— Se vuoi provare, sotto, – disse Hoffman. Merlo si alzò e venne a poppa barcollando. Tastò il palo col pollice, poi l’impugnò: – Mi pare che il segreto sia di non guardare il palo, ma davanti alla barca, – rivolgendosi a Hoffman. Questi approvò col capo.
— Non ci riesci, Merlo, – disse Masino. – Puoi essere in gamba fin che vuoi, ma è come parlare inglese se non l’hai studiato.
— E bin, mi preuvô: prôfessor a l’è nassuje gnun, – ribattè l’altro. E si cacciò su per il filo obliquo della corrente tutta increspata dal fondo e dalla rapidità.
Aveva una struttura dinoccolata e formidabile Merlo, da giocatore di calcio che era e trovò in principio la posizione giusta, busto eretto e appoggio sul remo. Masino stava pronto con l’altro palo a inchiodare la barca se sbandasse e Hoffman guardava.
La prora cominciò a oscillare. Merlo irrigidì le braccia. Ma stavano fermi. Allora per spingere si curvò fino a toccare l’acqua e guardò il palo. Bastò. La prora fece un giro. Masino piantò il palo e raschiò il fondo. Sbatacchiando ridiscesero in velocità nella corrente.
Hoffman non si mosse e osservò solo: – Lavora essenzialmente col millimetro e non dare scatti, non serve.
Il secondo tentativo fu lo stesso.
Ma il terzo finí peggio. Nell’andirivieni la barca s’era accostata alla riva dove per un piccolo canale era piú violenta la corrente. E nell’inevitabile discesa abbandonata, la barca andava a sbattere a un troncone che sporgeva. Merlo senza vedere stava per darvi della schiena.
Masino gridò per avvertirlo, ma Hoffman fu piú svelto. Saltò alla pagaia e la cacciò contro la riva, facendo forza tanto da spezzarla. – Meno male ch’era frusta, – esclamò, e intanto la schiena di Merlo passava a un palmo dal fittone.
Masino, solo nel caffè, gradevolmente brillo, si stupiva ancora del miracolo ch’era seguito.
Passata la Rapidissima per mano sua, erano entrati nelle acque calme e qui lui infaticabilmente, fino a che non fu tutto sfigurato dal sudore, aveva manovrato la punta per i passaggi, i correntini, i mozziconi di diga, fino sotto a Moncalieri. Poi s’era buttato trafelante sulle tavole. Hoffman e Merlo discorrevano.
— Carichiamo donne, – propose Hoffman.
— Questo aggiusterebbe, – osservò Merlo. – Ma c’è Masino che non le vuole, – e scuoteva il capo.
— Masino è un fesso, – dichiarò l’ebreo. – Guardalo lí che tira l’anima. Una buona ragazza stupida va sempre bene sul Po. Lui vuol fare l’atleta ascetico.
Masino era beato. Cominciava a riaversi e guardò in giro. A quel punto usava fare il tuffo. – Sposta la barca fino al Gran Verdone. Vado in acqua. – Bravo e non saltare da scimmia che tanto non c’è ragazze a vederti. Noi andiamo a cercarle.
Masino in piedi si strofinò il sudore. Poi si tolse il berrettino. La barca veniva lentamente fino a una fossa d’acqua scura. Masino prese le misure. Si sentiva conscio di Merlo.
— Pronti. Venite a prendermi laggiù –. Un respiro mozzato e si tuffò nell’acqua senza slancio, abbandonandosi. Un grande fresco lo avvolse nel buio.
Ricomparve a qualche metro. Cercò la barca e vide che l’allontanavano. Fu soddisfatto. Non gli dispiaceva al ritorno trovare ragazze bell’e cacciate, ora che aveva fatto il suo sforzo e che avrebbe nuotato.
Gridò: – Venite, – e si distese per nuotare. Ci si mise con calma, a grandi bracciate, per provare insieme la velocità e la resistenza. Vedeva un piccolo orizzonte. Era tutto assorto nei bei movimenti, tutto elastico di fatica e di sole. Dava gran colpi colle gambe e ad ogni bracciata le allungava, si stirava godendosi tutto.
Arrivò ansando dove s’era proposto. Cercò la barca. I due eran lontani, manovravano insieme e parevano incerti. Era tranquillo ormai. S’eran capiti. In un qualche modo virile, misterioso, dopo il momento critico alla Rapidissima i due s’intendevano. Anche troppo. E si distese nudo sull’erba ad aspettare, chiudendo gli occhi e respirando.
Ma il bello, la giornata, era venuto dopo.
Eran tornati a rivestirsi dal fiume, verso sera, ed eran poi saliti sulla riva alta della pianura dov’è Torino. I due parlavano delle donne che non avevano trovato e ci filosofavano con gusto. Nel cielo – chi voleva ammirare – c’eran colori e trasparenze, riflesse negli alberi, riflesse nel fiume, dappertutto. Hoffman gridò a Masino che camminava alle loro spalle: – Perché non siamo andati all’isola del Carnaio per ragazze? – Poi disinvolto: – Le ha messo il nome quell’animale di Masino che ha la mania di poetizzare i luoghi. Si è vista lí una volta una donna grassa come un vaccone, che prendeva il sole.
— Pa mal, – borbottò Merlo.
— Adesso non esageriamo, – si difese Masino, – se io ho poetizzato il carnaio, tu hai fatto lo stupido sul Passaggio in Bleu – tutto perché c’era una ragazza colle mutandine bleu. Ma la Spiaggia dell’Atollo, chi l’ha trovata la Spiaggia dell’Atollo?
— Be’, – concesse Hoffman, – quella è l’unica cosa intelligente che hai pensata in tre mesi —. Merlo venne istruito che la Spiaggia dell’Atollo era cosí detta perché ci si vedeva sempre una tale con nessun seno. – Alfa privativo, – gli spiegarono. Tutti e tre in qualche giorno dell’infanzia lontana avevano studiato il greco.
Merlo fu tutto entusiastico e brandí la pipa e propose di andare a bere una volta.
— Io prendo una gassosa, – osservò Masino.
— Facciamo quattro chiacchiere, – disse Hoffman.
L’osteria praticabile – il Cannone d’Oro – era proprio alla fermata del tram. Era comodo, all’ultimo momento si usciva e ci si imbarcava per casa. I tre andarono in una stanza vuota nel retro.
Dopo molta discussione furon decisi ed ebbero davanti né gassose né parole, ma una robusta bottiglia dorata cui tutti attinsero simpaticamente.
Merlo aveva borbottato. Lui voleva vino nero «’d côl ch’a se sciaira». Masino ch’era astemio beveva da profano. La responsabilità del vino d’oro andò tutta ad Hoffman che gli fece ottima cera e diede subito sulla voce al malcontento.
— Siete buffi, voi piemontesi, col vostro vino nero. Non vi pare di essere uomini se non date mano al vostro barberone. È una superficialità questa, come in molte altre cose, che avete congenita.
Masino era astemio. Ma delle «altre cose» ne «beveva». Assalí quindi ferocissimo:
— Dopo tutte le tue teorie che non esistono le razze mi pare discretamente superficiale pigliarsela coi piemontesi.
Ma ci voleva altro a dirla con Hoffman. – Non esistono le razze in quanto si tratta di essere intelligenti, – riprese quello, – gli uomini sono uguali in dignità. Ma è quando non si pensa, quando si dicono fregnacce e si ripete pregiudizi che ci si differenzia. Voi a forza di ripetervi che siete solidi e quadrati e che vivete in certi modi, finite di vivere sul serio in questi modi, e fate i tipi senza accorgervi delle cose piú importanti che c’è al mondo.
Masino ci pensò sopra un po’ seccato. Era sempre la solita storia: Hoffman tirava giú una sentenza imprevista e improvvisata e lí per lí non si sapeva cosa dire.
Ma c’era Merlo. Il quale, caricando la pipa soddisfatto, diede ragione… bisogna sentire:
— Giusto. Tutti si vantano di bere e poi al buono non resistono il quartino, Napoli, specialmente –. Non c’era troppa logica, ma c’era Merlo. Hoffman, tra lo stupore di Masino, rispose anche a lui (se la intendevano quei due):
— Bevitori si nasce. Di tutte le ipocrisie la piú antipatica è quella del finto Gargantua.
Masino rimase di guano. Ma che diavolo era Hoffman? Dopo quattro ore di conoscenza aveva già tanto capito Merlo, che gli sapeva parlar di Gargantua, la bibbia di quell’uomo dal gusto tanto difficile.
Merlo naturalmente non rispose. Preferì allungare le labbra al bicchiere e sorbire.
Per un po’ dissero nulla. Chi fumava e chi sputava. Poi Masino ruppe l’aria:
— Di’ Merlo, com’è andata la partita col Novara?
Sorriso di Merlo. – L’è pa ’l Nôara, a l’è ’l Verssej.
Masino scosse il capo. Volle dar la colpa al vino, ma la verità era che non s’interessava di calcio e per lui tutti quei nomi eran lo stesso. Fece allora il praticissimo:
— Ti hanno dato del lavoro? – Merlo era portiere.
— Sono segreti professionali, – entrò Hoffman, e questa fu l’unica frase stonata che disse quel giorno. Difatti Merlo andò avanti.
— Mi hanno slogato un dito, – e fece vedere. – C’è uno in quella squadra che tira delle cannonate scurrili. È mica come col Saluzzo. Uno, in porta contro il Saluzzo, fuma la pipa.
Hoffman anche qui doveva dir la novità. Entrò:
— Il mestiere del portiere sviluppa le attitudini meditative. Si vede il mondo arrabattarsi davanti e si fa niente. Qualche volta si para un colpo dell’avversa fortuna.
Merlo apprezzò questa letteratura, tanto piú che era in suo onore. Masino l’astemio, azzardò sarcastico: – Chi veramente sta a meditare astraendosi dal mondo, è l’arbitro, no? – ma era l’epigramma di un incompetente, come quelli che si possono fare sulla suocera. E Merlo glielo bocciò.
A questo punto finì il vino e si trattava di ricominciare. Si contarono i soldi. – Bene, ci stiamo –. E la nuova bottiglia suggerì nuovi pensieri. Faceva caldo, ormai.
Merlo raccontò che un mese prima era stato a caccia al suo paese, su per le montagne di Biella, dove ci aveva una cascina.
Masino, mezzo estatico, pensò allora al suo paese, la pianura di Bandito, dove avevano avuta la cascina, ma da tempo era affittata e lui era cresciuto in città.
E già Hoffman li aveva capiti. Anche in questo, la loro parte piú gelosa, li aveva capiti.
— Siete beati voi, che ve ne andate da Torino e avete un feudo lì a due passi e ci trovate il vostro vino e i contadini. Se tutto il mondo moderno andrà all’aria come spero, voi non avete da perderci, voi scappate al paesello e siete a posto.
E Masino gode a fondo il momento. Era la vena sentimentale di Hoffman quella, ma veniva fuori tanto sobria e precisa da non parere che il prolungamento, che l’alone necessario alla straordinaria macchina logica di quel senza patria.
Merlo, nel fumo, continuava per suo conto: – Gran bella cosa la proprietà. Avere un campo che uno può lavorare o farci niente, cóm ’aj pias. Dare i calci alle pietre senza guardare in faccia nessuno E siccome era dotto e aveva un tempo fatto studi di legge, aggiunse:
— Dominium est jus utendi atque abutendi re sua, quatenus juris ratio patitur. Sent côm’ a l’è bel!
Hoffman, osservato nel fluttuar delle atmosfere da Masino, fissava curioso il giocatore di calcio, poi scattò: – La proprietà è bella all’antica, è un modo d’esser naturale, un modo di vivere, ma averci adesso una proprietà che nemmeno si vede o si conosce e che altri lavorano a tuo nome, è una trista decadenza.
E questo disse colla voce un po’ rauca, e quasi femminile, di quand’era piú commosso. Ma tutti e tre erano immersi nel fumo e nessuna tristezza li toccava.
Masino rimase poco al caffè quella sera. Fumò qualche sigaretta, guardando interessato e irrequieto la gente che passava sul corso. E non sapeva che il piú osservato era lui, colla sua aria abbronzata e il modo vigoroso di tirare alla sigaretta.
Il gelato era finito da tempo. E Masino senti d’improvviso una grande stanchezza. S’alzò allora, ricordandosi che per non guastare la giornata, dall’osteria eran tornati a piedi.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: L’acqua del Po
AUTORE: Pavese, Cesare
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze
TRATTO DA: Racconti / Cesare Pavese. - Torino : Einaudi, [1994]. - 525 p. ; 20 cm.
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)