La torre del saraceno

di
Pietro Giuria

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I

Mentre i mari piú lontani rosseggiavano d’italiano sangue che italiane destre versavano; mentre gli scogli della Propontide si procacciavano una funesta rinomanza per la battaglia de’ legni liguri e de’ veneziani, che piú feroci di quella notte spaventevole, eterna nella storia, li copriano di cadaveri e di naufraghinota 1; mentre Genova percotea Pisa mortalmente nell’acque della Melorianota 2, e stringea quindi con ferro e fuoco la Cibele dell’Adriatico nelle sue stesse lagunenota 3; guerre detestabili, ma troppo aspramente giudicate da noi moderni, poiché gli effetti che partorirono non erano allora né preveduti, né prevedibili; pochi legni di ladroni barbareschi assalivano e devastavano impunemente le terre marittime dei vincitori, e soli venti Saraceni sbarcati a Frassineto teneano a freno quella regionenota 4.

Rimangono ancora a’ dì nostri, tra la gente di mare e de’ villaggi, tradizioni oscure, antichissime, che ci rivelano il viver rotto e procelloso di que’ tempi; e il vecchio marinaio che le ripete come le udì a narrare dalla bocca di suo padre, ti addita, lunghesso il lido, qualche avanzo di riparo o di turricciuole, che egli crede tuttavia abitati dagli spiriti misteriori della sua leggenda.

Percorrendo la costa ligure occidentale, tra Noli, città antica, e il pittoresco villaggio di Spotorno, superbo per la bellezza delle sue donne, sopra un angolo della strada che sporge in mare, vedi sorgere tra pianticelle selvatiche e corimbi d’edera, mesto e solenne ornamento delle rovine, due turricciuole, denominate ancora oggigiorno Castello del Saraceno. Poco lungi, sulla vetta della montagna, giacciono qua e là dispersi tra i vigneti e pochi ulivi, alcuni frammenti di costruzione, che si crede appartenessero ad un castello antichissimo d’un potente signore, forse il marchese del Carretto. A mezza lega di distanza, e poco lungi dalle falde della montagna bagnata dai flutti, nereggia sterile, abbandonato l’isolotto di Bergegi, di cosí leggera importanza, che alcuni geografi dimenticarono d’accennarlo. Non abitazione, non vestigio di coltura, non boscaglia che lo rallegri, che lo ripari dalla vampa del sole e dalla furia dei venti; se non che verso il sommo della roccia, le rovine d’un antico monastero, una cisterna ed una capace grotta servono di refrigerio e di ricovero al pescatore che vi si reca, nei giorni di calma, ad asciugar le sue retinota 5. Eppure su quella roccia arida e desolata, cinta da acque furibonde che minacciano di superarla, vissero creature umane e ne scomparvero come nebbia del mattino. Dove un giorno suonò il canto del solitario, s’ode lo strillo dell’alcione che vi ripara dalla tempesta, e il pauroso coniglio scavò la sua tana; ma le fantasie popolari non vollero abbandonare quei ruderi, e connettono ancora tra di loro la Torre del Saraceno, i rottami della montagna e le rovine del monastero.

II

È fama, come accennammo, che un potente signore, nei primi tempi del medio evo, abitasse in un castello sulla vetta della montagna, e che partito, alcuni vogliono, per Terra Santa, altri per l’impresa della Meloria, vi lasciasse a guardia un suo figliuolo ed una giovane sua figliuola, non meno attraente per leggiadria di forme, che per altezza e nobiltà d’animo. Mentre ella un giorno, dall’alto d’una torre, espiava nell’orizzonte se comparia la vela del suo genitore, fu assalita improvvisamente da una schiera di Saraceni, che, approdati nella notte a quella costa, la strinsero d’assedio nel castello e le intimarono la resa. Ma l’animosa fanciulla non cadè d’animo; armò, come meglio seppe, famigliari, contadini e alcune guardie della casa; si coprì il petto di ferrea maglia, acconciò dentro l’elmo il volume de’ suoi capelli, e comparve sulle mura a rintuzzarne gli assalitori. Invano; tutto cedè all’impeto ed alla sorpresa di que’ furibondi; il castello fu espugnato; le fiamme suscitate dall’ira de’ vincitori o dalla cieca disperazione dei vinti, già divoravano gli appartamenti interni, già scoppiavano vorticose alle spalle della guerriera, quando ella ritraeasi col fratello, difendendo palmo a palmo il terreno, sul ripiano d’una torre che stava a perpendicolo sul fianco dirupato della montagna. Nell’ultima alternativa di ceder l’armi o precipitarsi da quell’altezza, mentre gli assalitori incalzavano più davvicino e piú ardenti, il fratello cadde e spirò ai piedi di lei, côlto nel petto da una saetta; ma la giovane, risoluta piú che mai, si fece innanzi d’un passo per servir di schermo al caduto; nell’impeto della sua mossa le si slacciò la gorgiera dell’elmo; i lunghi, biondissimi suoi capelli le si svilupparono luminosi intorno al capo; apparve donna; e i nemici, irritati della sua resistenza ed eccitati dalla sua bellezza, ruppero in un grido furibondo come bramito di fiera. Già stava per soccombere, incalzata all’orlo del precipizio, quando un giovane Saraceno, che alla ricchezza del vestimento, ma più ancora alla maestà del volto, ti si appalesava capitano di quella schiera, accorse, ruppe la calca; intimò a que’ furibondi di retrocedere, e solo, composto negli atti e nel volto, si fece innanzi, abbassò la punta della scimitarra, e promise alla giovinetta su quell’acciaro e sul nome di Allah, che non avrebbe usato mai sopra di lei i diritti della vittoria. La bellezza della fanciulla, lo sguardo delle nere sue pupille, animato dal fuoco della battaglia e dall’entusiasmo che ti ispira il pericolo, quella bionda capigliatura ondeggiante al vento, mentre le fiamme che la attergavano, serviano quasi di campo alla nobile e leggiadra sua persona, commossero, come visione sovrumana, l’animo del Saraceno; e la giovinetta, colpita anche essa alla serena maestà del volto, al natio decoro che si appalesava nel portamento di lui, dimenticò il proprio pericolo, sentì che potea deporre la spada e fidarsi all’onore dell’ignoto cavaliero.

Cosí fece. Donde nasca questa subita confidenza, questa simpatia reciproca fra due esseri sconosciuti, sian pur nemici, è un mistero del cuore umano, che tutte le fisiologie del mondo e il sistema di Gall e simili, non riusciranno a spiegar mai.

III

Il Saraceno, prosegue la tradizione, fabbricò allora quel castello che da lui si intitola; serbò fede alla sua prigioniera; le assegnò alcune camere, dove non osava metter piede, se non avuta licenza, e dove ella costrusse una specie d’altare, adornandolo coll’imaginetta d’una Madonna che ebbe il permesso di trasportar dal castello di suo padre. Pareva che il vincitore si studiasse di consolare con ogni modo la solitudine della donzella, e di prevenire ogni suo desiderio.

Eloisa si acquetò a poco a poco alla nuova sua fortuna; e seppe merito al Saraceno de’ modi onesti e gentili, degnissimi di cavaliero, che le usava continuamente. Ma una nuova sollecitudine che ella stessa non comprendeva, o che piuttosto non ardiva di interrogare, le si era cacciata in cuore. La speranza del ritorno del padre, che l’avrebbe riscattata, piú non era l’assiduo pensiero della sua mente; l’imagine del giovane Saraceno le turbava i sogni, e quell’anima candida, appassionata ne provava quasi un rimorso. Ma il terribile sentimento che già stava per invadere e divorar la sua vita, si palliava colla maschera della pietà: — Come mai, dicea tra se stessa, quell’anima cosí nobile, cosí virtuosa, giacerà eternamente fra le tenebre dell’errore! Quel cavaliero cosí gentile, cosí leggiadro sarà fulminato, rigettato dalla luce di Dio! e talvolta il nome di Achmet le uscì dal cuore colla preghiera piú fervente. Se il cavaliero movea a battaglia, se spiegava le vele al vento, ogni aura, ogni nube che sorgesse nell’orizzonte, facea palpitare la giovanetta; e spesso il primo raggio dell’aurora la trovò appoggiata malinconicamente alla sua finestruola ogivale, cogli occhi fissi al mare, pregni di lacrime e stanchi da lunga veglia.

Talvolta – misere illusioni del cuore infermo! – si indispettia con se stessa; volea ingannarsi: — Non è desso un infedele? il distruttore della mia casa, l’uccisore di mio fratello, un corsaro, un ladrone avventuriere? — E qui studiava di persuadersi che Achmet era un tristo degno dell’odio suo, e che ella dovea forse anche trafiggerlo! Ma l’imagine di Achmet, piú che mai candida e luminosa, spiccava dalle tenebre che l’ammalata fantasia d’Eloisa si sforzava addensarle intorno per oscurarla, per detestarla. — Achmet, le gridava dal cuore una voce prepotente, è un infelice degno delle tue lacrime e della tua stima; ha egli colpa, o piuttosto non è vittima de’ suoi nascimenti? Non t’ha difesa, non ti onora continuamente, mentre potrebbe usare della sua forza? Oh la sua mente sola è accecata; il cuore d’Achmet è retto, nobile, generoso; tu lo calunnii atrocemente! — E qui la povera Eloisa sentia rimorso d’averlo oltraggiato nel suo pensiero; chiedea perdono a quell’imagine idolatrata; e l’amore risorgendo piú che mai vivo, rivendicato, devastava quell’anima senza difesa.

Ed Achmet intanto che diveniva? Mentre spesso, nel silenzio della notte, contemplava dalla sua torre la finestruola della vergine, e la vedea ancora illuminata, oh se avesse saputo mai la veglia angosciosa di quell’anima, non meno ardente né meno infelice della sua! Bramava anch’egli di svelarle ciò che sentiva; ma temea offenderla, conturbarla, fallire la sua promessa. Nei momenti di riposo si recava a visitarla; le narrava avventure fantastiche di fate e di genii dell’Oriente; amori e lotte di cavalieri; le descriveva le tende de’ suoi padri; e piú d’ogni altra pietosa storia, le dicea quella d’un giovanetto che morì vittima dell’amor suo, senza averlo mai rivelato alla donna che idolatrava. La voce del Saraceno si commoveva, s’affievoliva; e gli occhi d’Eloisa, velati dalle lunghe sue palpebre, si inumidirono piú volte d’una lacrima, che tentò nascondere, ma inutilmente, agli occhi appassionati del cavaliero.

Gli Orientali, vaghissimi dei fiori, attribuirono loro un linguaggio simbolico, atto ad esprimere singolarmente le affettuose commozioni dell’animo. Achmet, che temea rivelare a parole il secreto del suo cuore, non credette fallire alla promessa con renderne interpreti pochi fiori. E perciò scelse e dispose con simbolico intendimento il fiore della speranza dalle sue fogliette verdissime; quello dell’amore eterno, detto immortale, quello della tenera malinconia dal color pallido, e quello da brune foglie che aspira ai silenzii della morte.

Eloisa nel ricevere quei fiori, tentò nascondere il suo turbamento; ma il rossore vivissimo della sua guancia tradì il secreto del cuore. Rimasta sola, impresse un bacio ardentissimo e lungamente rattenuto sopra quei fiori. Povera giovanetta! se nel candore della sua anima avesse potuto discendere negli arcani del proprio cuore, avrebbe avuta onta e quasi rimorso di quel bacio; poiché, certo, quel bacio non era per i fiori! Si recò invece nella sua cameretta e li depose, come offerta, dinanzi la santa imagine. — Que’ fiori sono raccolti dalla mano di Achmet; chi sa che la Santa Vergine non abbassi uno sguardo di pietà sull’omaggio di quell’infelice! — Salvatemi voi, dal mio cuore, proseguia con accento disperato; se potessi colla mia vita mortale redimere almeno quell’anima che non vi conosce! Almeno, pensava suo malgrado, potrei rivederlo ancora tra gli angioli; né allora l’amor mio sarebbe delitto!

Ma quella pace apparente non poteva durar oltre; la catastrofe sopraggiunse. Que’ due esseri, nati cosí lontani, divisi da tanti mari, da religione, da riguardi di sesso, di lingua, doveano superar tutto, per rivelarsi l’uno all’altro, stendersi le braccia disperate, ma quasi un abisso li dividesse, piangere un momento insieme, e goder tanto in quel momento, da distruggere agli occhi loro il rimanente dell’universo e la vita propria.

IV

Achmet, avvisato da’ suoi che si era scoperto, verso sera, un legno con bandiera cristiana e colle vele ammainate, quasi volesse aspettar la notte per avanzarsi inosservato e prender terra, si tenne per assalito, e risolvette di prevenirlo. Mentre tutto era in punto per la partenza, salì nuovamente alle stanze di Eloisa bramoso di rivederla ancora una volta; gli pareva che qualche cosa di straordinario per la sua vita si preparasse fra le tenebre di quella notte. Vedremo ora donde nascesse questo funesto presentimento che purtroppo aveva radice nel vero.

Quando il Saraceno entrò nella camera, Eloisa, credendolo già partito, stava ginocchioni dinanzi la santa imagine, in raccoglimento cosí profondo, che non si addiede del suo ritorno. Achmet ristette sopra la soglia; la guardò a lungo con un misto di tenerezza e di rispetto religioso; e udì piú volte il nome proprio pronunciato da quella voce che gli penetrava arcanamente nelle fibre del cuore. All’aspetto angelico della pia giovanetta che affidava al Cielo il secreto della sua anima, stava per gittarsi anch’egli ai piedi di quell’altare, e pregare il Dio d’Eloisa. Ma quando la giovanetta alzò le braccia verso l’imagine di Maria e ruppe in lacrime, il cuore d’Achmet non potè reggere e si spettrò in singhiozzi.

Eloisa, sorpresa, maravigliata si volse addietro e vide il Saraceno ritto sulla soglia, immobile, cogli occhi bassi, colla mano sulla fronte.

Cosí svelarono, loro malgrado, il proprio segreto.

Eloisa sorse in piedi, mosse all’incontro del cavaliero, penetrò collo sguardo dentro quel cuore, e poi ristette anch’essa nel silenzio di una terribile costernazione.

Achmet si riscosse, si ricompose e, prendendo dolcemente per mano la giovanetta, atto cui non s’era abbandonato mai nell’impeto della passione, le disse coll’accento d’un dolore rassegnato, ma inconsolabile:

— Eloisa, dobbiamo separarci; forse per poco; ma se uno strano avvenimento mi precludesse la via del ritorno, togliete quest’anello; non solo potrete uscir libera, ma rimaner signora, se vi piace, in queste mura; le mie guardie vi ubbidiranno come a me stesso.

L’idea della libertà non era piú il sogno luminoso della mente di lei; ma quella di non rivedere Achmet mai piú, le sorse in animo cosí nuova, cosí terribile, che tremò di se stessa, si comprese per la prima volta e strinse con forza convulsiva la mano del giovane, quasi la sua vita vi si reggesse sospesa sopra un abisso.

Non rispose; e il Saraceno proseguiva con voce pacata, ma che tradiva una profonda commozione:

— Mentre ancora fanciullo pargoleggiava tra le braccia di mia madre, sotto l’ombra di un palmizio, passò una fata, guardò il bambino, e porse alla madre un talismano, una gemma, che lo avrebbe preservato da ogni pericolo; ma l’avvisò a un tempo, che quando soprasterà al fanciullo l’ora piú terribile della sua vita, quella gemma perderà la sua lucentezza, e i giorni del fanciullo si oscureranno: ed ora la gemma della fata si è annerita funebremente!

Sebbene Eloisa non desse retta alle superstizioni orientali del Saraceno, l’accento di quella voce e la pallidezza di quel volto, già cosí ardito, le agghiacciava il cuore d’un terrore indefinibile.

— Eppure, soggiungea il cavaliero, l’ora piú terribile che può soprastarmi, ah! certo, non è quella della mia morte! la morte, qui a’ tuoi piedi, Uride di paradiso, sarebbe la suprema gioia dell’anima mia disperata! —

La giovanetta tremava, volea sollevarlo, volea rispondere, ma i singhiozzi la soffocavano.

— Se tu sapessi, proseguia il Saraceno con voce rotta ma concitata, se tu sapessi, Eloisa! come terribile è questa vita, e beata nel tempo stesso! Ma se il destino può ancora invidiarmi questa dolcezza amarissima, oh prima di separarci, di’, Eloisa, dimmi che tu non m’odii!

— Oh Achmet! Achmet! esclamò allora la giovinetta cogli occhi levati al cielo, io, odiarti! — E stendea le mani sul capo del giovanetto: — Achmet, tu piangi…!

E qui successe un silenzio che parola umana non può descrivere. Come dopo un crebro lampeggiare da un nuvolone gravido di tempesta, si rovescia la pioggia a goccie larghe, misurate, que’ due poveri cuori travagliati cosí a lungo e da sí atroci combattimenti, cedeano all’impeto irresistibile della natura e frammischiavano tacitamente le loro lacrime.

Achmet si levò in piedi, strinse la mano d’Eloisa e partì.

La sua barca sorvola ai flutti; le tenebre, la tempesta del mare circondano Achmet che in quelle tenebre, in quella tempesta cerca nascondersi, obbliar se stesso tra i fremiti del proprio cuore e l’ansietà della pugna imminente. Ma quale sarà il giorno di domani per Eloisa e per Achmet?

V

Cessò il combattimento; il Saraceno rientra vittorioso nel suo castello, e lunga fila di prigionieri lo seguono incatenati sotto le vôlte d’un andito sotterraneo.

Uno di essi, ragguardevole per canizie veneranda, per una nobile fierezza dello sguardo e della fronte, temperata dall’età e da un profondo cordoglio che gli stringea l’anima, guardò la cima del monte, né piú vedendo il castello, distrutto dal Saraceno, strinse il braccio di questi, e con piglio risoluto:

— Se hai cuore di cavaliero, rispondimi, giovanetto: una grazia, e poi la morte. Che addivenne de’ miei figliuoli, del mio castello?

Il Saraceno, conoscendo esser desso il padre d’Eloisa, lo fissò in volto tra commosso e maravigliato, ma non ebbe animo di rispondere. Alfonso, chè tale era il nome del prigioniero, interpretando alla peggio il silenzio del suo vincitore, si asciugò una grossa lacrima, volse uno sguardo disperato alla cima del monte e abbassò il capo:

— Superstite a tutta la mia famiglia!

Eloisa, spinta da un secreto presentimento, bramosa forse anche di impetrare ai vinti la clemenza del Saraceno, accorse sollecita, gettò uno strido alla vista del prigioniero, e cadde svenuta tra le sue braccia.

— Figlia mia, esclamò il vecchio sorreggendola, sei tu dunque la mia Eloisa! prima di morire posso ancora abbracciarti!

In qual mai luogo, in quale stato si ritrovavano! era sposa o schiava del Saraceno? Quando ella riprese i sensi, trasognata si guardò intorno, incerta ancora del vero, stava adagiata sul letticciuolo della sua camera; il padre, seduto presso il letto, la contemplava ansiosamente tra il dolore e la gioia di ritrovarla.

La giovanetta prese a narrargli partitamente la lunga serie de’ suoi casi, dal giorno in che egli uscì dal castello; e seppe ritrargli cosí al vivo la sublime indole del Saraceno, che il vecchio padre, nel vederlo rientrar nella camera, gli corse incontro, e stringendogli la mano come ad amico:

— Non debbo piú ricordarmi che d’una cosa, gli disse con lacrime d’allegrezza, della figliuola che mi hai serbata; non ho piú sentimento che di ammirazione e di gratitudine. Quanto posseggo ancora de’ lontani miei beni, quanto potrò raccogliere da’ miei amici, tutto è tuo, in riscatto di quest’unica mia figliuola, conforto e corona di gloria alla desolata mia canizie.

Il nobile animo del Saraceno si indegnò a quell’offerta; ed offuscandosi nel sembiante, gli rispondeva alteramente:

— Quanto tu possiedi, quanto posseggono tutti gli amici tuoi, la corona piú splendida dell’universo non valgono un sol capello di Eloisa.

Alfonso si tenne per ispacciato; ma Achmet ricomponendosi a quella maestà serena che gli era propria, fatta piú malinconica, ma piú sublime dall’atto generoso che stava per compiere:

— Eloisa, soggiungeva avvicinandosi alla giovanetta, quando vi affidaste all’onor mio, giurai sulla mia spada che non avrei usati mai i diritti della vittoria sopra di voi; siete libera, voi e vostro padre.

Alfonso, a quella subita risoluzione del Saraceno, si scosse per maraviglia, e si gettò a’ suoi piedi; ma il cavaliero, inchinandosi mestamente verso la giovane:

— La gemma pronosticò il vero! ripigliava con profonda rassegnazione; i giorni del fanciullo si oscureranno! O Eloisa, si oscureranno d’orrende tenebre, piú fitte delle tenebre del sepolcro!

— Oh Achmet! rispondeva la giovanetta, sollevandosi e fissandolo in volto con espressione indicibile d’amore, di gratitudine e d’amarezza. — Oh Achmet, perché mai ci scontrammo sulla via stessa! Ah perché il cielo dovea rivelarmi la virtù del tuo cuore, se per sempre ci separava!

— Eloisa, soggiungea il Saraceno, il cuore d’Achmet soprastò sempre agli eventi della fortuna; ma v’è un punto che spezza ogni coraggio, un punto cosí terribile, cosí fatale, che si può piangere senza viltà!

Tronchiamo questa scena piú facile ad imaginarsi che a descriversi; quando que’ tre infelici ebbero tempo di ricomporsi, Achmet si volse al padre d’Eloisa, e gli diceva:

— Il vostro castello è distrutto; abbiate il mio. Debbo partir subito da queste terre, partir per sempre! Ah Eloisa! Il Cielo inesorabile alzò una ferrea barriera tra di noi; ma l’amor mio sarà piú forte del destino. Posso dirvi, in questo momento, mentre cedo ogni mio diritto e vi rendo immacolata al vostro padre, posso dirvi alla sua presenza, che il cuore di Achmet non avrà piú che un affetto, un unico, eterno, disperato affetto, e per voi!

— Ed io, rispose la giovanetta con voce ferma, cogli occhi al Cielo, non avrò che un solo, un eterno affetto, e per voi; — Ma non dispero, soggiungeva, illuminandosi nella santa sua speranza,… l’anima tua, Achmet, è troppo nobile, perché le tenebre dell’errore siano eterne sulla tua mente.

E traendolo con soave violenza verso l’altare della Vergine, cui stavano consacrati i fiori che le avea dati egli stesso:

— Qui t’aspetterò, Achmet; e se la vita mi verrà meno, prima che tu ritorni per esser mio, l’ultima e la piú ardente preghiera d’Eloisa sarà per te, sarà tale quella preghiera, che tu, dovunque e qualunque sia, ne sentirai sul capo l’influenza benedetta!

E si divisero.

La marea, ingrossata spaventevolmente verso sera, rimugghiava contro gli scogli della costa; baleni sanguinosi, squarciando tratto tratto le tenebre della tempesta e della notte, illuminavano sinistramente gli abissi dei flutti. La vela del Saraceno, travagliata dai venti, brillò un istante, come ala di alcione, agli occhi della povera Eloisa, che stringea convulsa le sbarre della sua fenestruola. Il giovane volse ancora uno sguardo a quella camera! Oh se l’abisso delle sabbie e delle acque che gli fremeva sotto i piedi, potesse invece rovesciarsi sopra il suo capo! Ma i destini non erano ancora compiuti.

VI

Bastano ora poche parole per riassumere la vita dei nostri tre personaggi, una vita di dolori taciti, indefinibili, ineluttabili. Non è piú l’ardente lotta degli affetti, l’ansietà d’una battaglia, la furia d’una tempesta: tutto è preveduto e meditato; tutte le ore sono pari, o piuttosto è un vuoto orrendo, dove l’aurora e la sera si alternano senza orma di differenza; è il granello di sabbia che cade tacito, misurato dall’oriuolo del tempo. L’anime, di natura alta e gagliarda, ridotte a quest’inerzia, si divorano internamente colle proprie forze, a guisa di fuoco sotterraneo. Il viaggio d’Eloisa verso la tomba fu breve – ed ella lo percorse a capo chino, a passo lento e senza lacrime; ma il suo occhio brillava talvolta d’un fuoco sinistro, di quel fuoco che asciuga il pianto sulle pupille e consuma le viscere. Non pronunciò mai il nome di Achmet; ma tutti i suoi pensieri vi si concentravano; la sua mente, in quel riposo delle membra, raddoppiava attività, esauriva le sue forze in risuscitare un passato, pur troppo irrevocabile; e i suoi grandi occhi si fissavano talvolta sopra d’un punto, quasi le stesse innanzi un’imagine che a lei sola si rivelava.

Oh la morte è pur essa un dono di Dio non altrimenti che la vita!

…gli uomini non hanno
Inventata la morte! ella saria
Crudele, insopportabile; dal cielo
Ella ne viene e l’accompagna il cielo
Con tal conforto, che né dar, né tôrre
Gli uomini puonno.

E questa morte, colle sembianze d’un Serafino, sciolse l’anima d’Eloisa dalla troppo affaticata sua argilla, e la ritirò dal mondo, dove da gran tempo piú non viveva. V’hanno pur troppo situazioni nella vita, in cui il passato ti strazia l’anima colle sue ricordanze, amare tutte, poiché la gioia che passò in eterno senza speranza di ritorno, è l’atrocissimo di tutti i tormenti; l’avvenire è un deserto sterile, tenebroso; e l’anima sta nel mezzo, come sopra una rupe in tentenno tra due precipizii. Allora viene la morte e ci adagia nel sepolcro, come la nostra madre ci componea nella cuna.

Eloisa, sentendosi venir meno, accennò colla mano che le aprissero la fenestra; gettò ancora avidamente lo sguardo sull’orizzonte; cercò una vela, sospirata tanto, ed invano! la superficie dell’acque è deserta; ed ella non ha piú che un momento per aspettare.

— L’eternità si frappone tra di noi, o Achmet!

disse ella tristamente, appuntando la fronte sopra la mano, quasi a reprimere il doloroso battito delle sue tempia. – Guardò il cielo, come persona che non ha piú vincolo sopra la terra; pregò piú collo sguardo che colla parola, e volle che il mazzetto di fiori, avuto dalla mano del Saraceno, le fosse deposto accanto nel suo feretro.

VII

Il vecchio padre non ebbe cuore di rimanere tra quelle mura; scomparve, né s’intese piú di lui. Il castello, omai deserto, additato dal passeggiero con un rispetto misterioso, venne presto a decadenza, e la decadenza in rovina.

Ma ivi a parecchi anni vi giunse uno straniero, solo, e vestito all’orientale. Ristette all’entrata del castello, quasi l’animo gli fallisse per innoltrarsi, e guardò la fenestruola ogivale della camera d’Eloisa; la colomba selvatica vi tesseva il nido, e l’edere abbarbicate l’ammantavano. S’aprì un varco tra l’erbe, li sterpi ed i cumuli delle rovine; entrò dentro, s’assise sopra un masso che giacea appunto nella vuota stanza, dove Eloisa era morta. Solo, tacito, passò la notte; non udiva che il mormorio del fiotto marino ai piedi delle torri, e il cader lento, misurato d’una goccia d’acqua dalle fessure della vôlta. L’imagine d’Eloisa, allo splendore della luna, parea abitasse quelle rovine, quel santuario abbandonato, candida, luminosa, sempre bella agli occhi dell’infelice che troppo tardi vi ritornava. Brillò il mattino; il cielo e l’acque si colorarano in viva porpora; la brezza agitò mollemente l’erbe selvatiche, le ghirlande d’edere, sospese leggiadramente a quelle rovine. Lo straniero, che il nostro lettore avrà già riconosciuto, uscì dalla camera d’Eloisa; ma giunto alla soglia, si volse addietro; il passato risorse intero, vivacissimo nella sua anima; ma tutto è muto, tutto è deserto.

Nessuno seguì le traccie dello straniero; ma la tradizione soggiunge che uno sconosciuto si recò all’isola di Bergegi; che i buoni monaci lo raccolsero, né mai lo richiesero dell’esser suo. Il pellegrino, seduto talvolta sull’aspra cima dell’isolotto, solo, in profondo raccoglimento, contemplava le torri del Saraceno; né avvedeasi della notte che lo circondava e talvolta della pioggia tempestosa che lo percuoteva. Anch’egli, a breve andare, calò nel sepolcro, rassegnato e credente nella croce di Gesù Cristo. Poca terra, accumulata sopra quel capo, nascose in eterno la sua origine, il secreto del suo dolore e la storia della sua vita.

Questo sconosciuto era forse il Saraceno?

Fine.


nota 1 – Un famoso storico contemporaneo cosí ci descrive questa battaglia del Bosforo. — «Poderose flotte capitanate, l’una dal genovese Paganino Doria, l’altra dal veneziano Nicolò Pisani, dispiegarono, per combattere a una contro uomo e contro gli elementi, un coraggio ed una perizia, cui niun popolo marino soverchiò mai. Il 13 febbraio 1352 Paganino Doria diede addosso con sessantaquattro galee, nel canale del Bosforo, a’ Veneziani, ai Catalani ed ai Greci, i quali conducevano poco meno di settantotto galee. Nel fervor della pugna, una spaventevole burrasca assalì in quegli angusti mari le due flotte; sopravvenne orribilmente, tanto che l’impeto dei venti e dei marosi confondeva l’una coll’altra. Immensa fu la perdita da ambe le parti, ma la mattina susseguente vide Pisani che la sua non gli consentiva piú di proseguire la lotta; si ritrasse a Candia, ed i Greci fecero pace coi Genovesi.»
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nota 2 – Tutti conoscono la battaglia della Meloria, per cui Pisa fu prostrata interamente.
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nota 3 – La guerra di Chioggia, dove i due popoli, Genovese e Veneziano, fecero prova di tanto valore e con sí tristi conseguenze.
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nota 4 – Descriviamo, colle parole dei Giambullari, questo sbarco de’ Saraceni a Frassineto, poiché può servire di preambolo a ciò che siamo per raccontare:

“Una piccola navicella uscita di Spagna con 20 uomini solamente che buscavano alcuna preda nei vicini liti cristiani, trovandosi gittata dal vento alla riva di Frassineto (castello in que’ tempi fortissimo tra la Provenza e l’Italia, cinto d’ogn’intomo di selva asprissima, eccetto la parte che guarda il mare), que’ pochi Saraceni che vi erano dentro, desiderosi di campare la furia della tempesta, scesero a terra tacitamente per nascondersi nella selva. Ma trovando aperto il castello, e ciascuno in quello a dormire, uccisi tutti gli abitatori senza alcuna scelta o riserbo, mandarono per nuove genti in Spagna, e, fortificatisi colà dentro, si insignorirono del paese. I vicini, che dovevano accorrere a quest’incendio, inimicandosi l’uno coll’altro, attesero piuttosto a nuocersi e a consumarsi tra lor medesimi, che a ricuperare il luogo perduto. Anzi, desiderosi della rovina e della depressione degli stessi Cristiani avversarii loro, cominciò la parte meno forte a collegarsi con questi Mori, ed a chiamarli in sua compagnia, a distruzione della piú potente. Il che facendo i Saraceni molto volontieri, uccidendo gli uomini e guastando il paese, allargarono tosto il dominio: anzi, con le stesse armi dei Cristiani vennero tanto gagliardi, che soggiogarono gli amici e nemici; e fecero grandi prede e danni gravissimi.

“Verso l’anno 941 il re Ugo (Ugo re d’Italia, marchese e duca di Provenza) deliberò fare l’impresa di Frassineto contro a que’ Mori che lo tenevano, per estinguere finalmente quella sementa perniciosa. Alla volta del quale avendo inviato per mare una grossa armata, parte sua, parte venutagli da Costantinopoli con gran copia di fuoco greco, se ne andò per terra personalmente a sbarcar la mala sementa che già tant’anni avea guasto Italia e Provenza. Le navi arrivate nel porto di Frassineto, abbruciarono tutta l’armata dei Saraceni, e, dalla banda di terra, tutta la foltissima selva da noi descritta. Di maniera che, giudicandosi quegli, come erano veramente, quasi che morti, si arrenderono al re Ugo, e senza contrasto alcuno lo riceverono nella terra, e si diedero per servi suoi a tutto quel che piú gli piaceva.

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nota 5 – Dicesi che in questa isoletta siasi rifugiato un santo vescovo, Eugenio, onorato da que’ di Noli come il loro celeste avvocato; e che il convento, di cui veggonsi tuttavia le rovine, appartenesse ai monaci Lerinensi.
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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: La torre del saraceno
AUTORE: Pietro Giuria
CURATORE: Rigoli, Aurelio
NOTE: Racconti popolari che, nella prima metà dell'Ottocento "rinomati scrittori italiani" (Pietro Giuria, Emanuele Celesia, F. Ramognini) recuperarono dalla tradizione orale e trasposero in prosa d'arte, per la ben nota raccolta di Angelo Brofferio "Tradizioni italiane".

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

TRATTO DA: Racconti popolari dell'Ottocento ligure. - Palermo : Edikronos, 1981. - 2 v. ; 17 cm. - vol. 1.: 203 p. - vol. 2.: 226 p. - (I Contastorie)

SOGGETTO: FIC027080 FICTION / Romantico / Brevi Racconti