La torre del fattucchio
di
Giuseppe Lipparini
tempo di lettura: 11 minuti
Il mio amico Gigetto del Serinaccio è poeta e cacciatore d’immagini. Poeta come sono tanti lassù, a Pian degli Ontani, nella patria della grande poetessa illetterata Beatrice; di quelli a cui l’ottava sgorga spontanea dal duro travaglio cotidiano nei boschi o da una rozza gioia conviviale. Cacciatore d’immagini perchè possiede una macchina fotografica con la quale ha ritrattato in mille modi le persone e i paesi della sua terra. Giacchè per quella striscia di terra balzosa e boschiva che forma la bassa valle del Sestaione nella montagna pistoiese, dallo snellissimo ponte sulla via maestra, sù sù per il torrente limpido e tortuoso, fin dove al Ponte alla Sega cominciano l’Alpe e il Demanio, egli è come un piccolo re. I castagneti bassi sul fiume sono in buona parte di lui; e sua è anche la grande faggeta che abbraccia i balzi a ponente, dalla quale la Torre del Fattucchio emerge snella e rosea nei tramonti come una gemma immensa incastonata in uno smalto verde.
Ma la terra montanina è una madre parca e poco può donare ai suoi figli. Così Gigetto ha nel podere del Serinaccio un deposito di carbone e quando è il tempo dei tagli si mette per il bosco con le ambasciate dei carbonai. Segna i sentieri per i muli carichi, gli spazi tondi per le carbonare, i rifugi sotto una capanna di zolle nelle notti fredde e piovose. La sera, mentre l’ardore nascosto fuma silenziosamente e le cataste lontane rosseggiano, i carbonai si adunano attorno al loro piccolo re e incominciano dopo la cena frugale una gara di canto. Il giorno, nei brevi riposi, il capo si diverte a imprigionare la luce.
— Perchè – chiesi un giorno al mio amico – non hai fotografato la Torre del Fattucchio? Hai dimenticato una delle più belle rarità della nostra montagna.
— Non l’ho dimenticata – mi rispose versandosi dal fiasco l’ultimo bicchiere di vinetto agro – ma temo che mi debba portare sfortuna.
— Non ridere! proseguì con aria severa. – C’è una storia che qui tutti sanno e che nessuno ti avrà raccontato per rispetto di me. Ma è una cosa terribile. Ne riparleremo. Se mai, se ti preme per il giornale, puoi ritrattarla tu.
E per tutto quel giorno fu di umore accigliato e stette quasi di continuo seduto sul botro che porta l’acqua del torrente al mulino di sotto. Io leggevo un libro di novelle noiose sotto un castagno non lungi da lui; e come alzavo spesso gli occhi dalle pagine gravi, vedevo il suo volto peloso in cui gli occhi e la bocca parevano quasi sparire nella gran barba rossa e nelle sopraciglie irsute. Pareva la testa di un faggio nodoso, d’inverno, quando le foglie sono purpuree, e, da lontano, tutta la boscaglia al sole pare che bruci. Ora, pensandoci, io mi ricordavo di aver sentito nei discorsi degli altri qualche accenno ad un fatto tragico; ma non sapevo che la Torre del Fattucchio c’entrasse. Dicono che molti secoli or sono, là sotto, nella roccia, una fattucchiera nascose un tesoro. Nessuno lo ha mai trovato, perchè il gigante quadrato lo custodisce sotto il suo macigno sul quale i falchi hanno posto il nido. Di dove stavo leggendo, io vedeva, dietro la cortina dei faggi, il masso snello staccato dal fianco della montagna e profilato netto sul cielo, liscio e quadrato come un’opera degli uomini ingegnosi e pur dovuto alla natura inconsapevole o, come credevano lassù, al sortilegio di una maga. Proprio ai piedi della Torre, pericolosissimo ma accessibile, c’è un lastrone sul quale io un giorno avevo passato alcune ore, sospeso sul baratro, come un anacoreta della Tebaide su una stele sacra. E mi ero sentito fratello della roccia grigia e tutt’uno coi falchi che mi stridevano intorno senza timore.
All’improvviso, vidi il mio amico alzarsi e venire verso di me. Mi accorsi allora che nei solchi del suo viso arso dovevano essersi incanalate le lagrime. Mi disse:
— Hai ragione; bisogna rompere l’incantesimo. Domattina andremo.
E, la mattina dopo, l’alba ci vide in piedi nel sentiero che risale il torrente sonante. Giù nella valle l’aria era ancora verdina; ma in alto l’alpe ignuda si colorava di rosa. Fresca era la brezza e mormorava tra i faggi giovanetti; c’era diffuso l’odore del mirtillo rugiadoso e della menta selvaggia. Il Sestaione era sempre presente col fragore: or sì or no lo vedevamo apparire e sparire nel suo letto di massi puliti. La Torre non si scorgeva perchè era in alto sopra di noi, e c’era di mezzo la fitta boscaglia.
— Sta attento – avvertì Gigetto; – di qui i carbonai non passano da qualche anno e il sentiero è scomparso. Bisogna arrampicarsi con le mani e coi piedi, ma per ritrarla bene con questa – e accennava alla macchina – bisogna prenderla di qui.
E il fiume ben presto fu in fondo e il suo fragore calò. Ci sorprese, in cambio, il sole a mezza costa, sudati e ansanti benchè allenati a scalar la montagna; ma poichè di mano in mano che salivamo la veduta si allargava e si faceva immensa, il mio spirito alacre obliava la fatica per la gioia degli occhi. E pure il salire era rude; che ci toccava aggrapparci ai massi e ai cespugli e puntare i tacchi chiodati nelle fessure della roccia e balzare di sasso in sasso come le pecore. Appunto, in alto in alto, dalla boscaglia pendula sull’orlo delle rupi si udivano i primi campani dei greggi e i pastori cominciavano a zufolare.
— Eccola! – esclamai io, fermandomi un istante per asciugarmi il sudore. Infatti, la Torre era proprio sopra di noi, dall’altra parte del dirupo.
— Più su – disse Gigetto senza fermarsi, — c’è un piccolo spiazzo di dove la vedremo quasi di rimpetto. Vedrai come è bello, lassù.
E così continuammo ad affrontare la montagna, che ad ogni passo era più dura e più nuda; rare pianticelle di faggio e ciuffi secchi di ginestre erano qua e là. Avevo la gola arida e il cuore si cominciava a stancare; ma finalmente arrivammo.
Gettai un grido. La rupe quadrata, investita dal sole, spiccava netta e snella contro il cielo sereno, pareva elevarsi sopra i monti, la cui curva appariva lontana in maniera meravigliosa. Era come il tronco di un immenso pilastro in un tempio che avesse avuto per volta il cielo; e nel vasto orizzonte che ci attorniava due cose solamente erano grandi: la rupe e il sole.
— Dammi da mangiare – chiese brevemente il mio amico, ritto in piedi sull’orlo del pricipizio. – Io estrassi dalla sacca il pane e il cacio pecorino e la borraccia ricolma. Mangiò in silenzio, ed io, avvezzo ai silenzi della gente di montagna, attesi, guardando il suo volto di bronzo, pieno di solchi come un campo arato.
— Dunque – cominciò egli adagio – là sotto c’è sicuramente un tesoro. Fino a vent’anni or sono, c’era ancora – e abbassò gli occhi e la voce – chi sapeva anche il posto; ma ora nessuno sa più nulla e nessuno lo avrà.
«Ascoltami bene – proseguì senza guardarmi, con l’occhio fisso alla Torre e con le mani che tormentavano nervosamente il fustagno dei calzoni, incurante del baratro che gli si apriva di sotto; – ascoltami bene, perchè questa cosa non te la racconterò due volte. Allora, ero giovane e avevo vent’anni di meno. Avevo terminato il servizio militare, avevo conosciuto la vita della città ed ero tornato con l’idea di arricchire anche senza l’America. Volevo essere ricco qui, nella mia terra, per far del bene a tanti e per far star meglio questa povera gente. E intanto pensai a prender moglie. Ma non la volevo povera, s’intende; e non la volevo neppur forestiera: moglie e buoi dei paesi tuoi… Una sera, a veglia da Cecco lungo, dopo che io ebbi tenzonato con altri nel canto, si venne a parlare, non so come, della nostra montagna, che è povera come noi. «E pure – disse uno – abbiamo un tesoro e non lo possiamo godere» . «Sì – aggiunse un altro – sotto la Torre del Fattucchio ci dev’essere, perchè lo hanno sempre detto anche i vecchi; ma chi lo cerca muore. Tanti che hanno provati, sono morti». «Non ci credo – disse allora una ragazza sottile e bionda; – io un giorno lo saprò e ci andrò. E se il tesoro ci sarà me lo godrò con il mio amore».
«Tutti attorno risero e la conversazione mutò. Ma io il giorno dopo cominciai a girare attorno a quella ragazza e ad accompagnarla dietro le pecore nel bosco. Avevo formato un mio pensiero profondo. Ci mettemmo a fare all’amore dopo pochi giorni; ma se la ragazza mi piaceva, più ancora io pensavo al tesoro della Torre. Una sera d’estate, verso il tramonto, eravamo là su quel poggio sotto Pian di Novello, dove ora vedi quei grossi faggi. Poichè la Torre si vede un po’ di sbieco anche di lassù, io ne profittai per chiederle ridendo:
«— O il tesoro, quando lo andiamo a prendere?
«— Porta sfortuna – ella rispose seria seria.
«— E pure, una sera tu dicesti…
«— È vero; ma allora non avevo amore. Ora al mondo ci sto troppo bene con te…
«Io restai male e finsi di darle ragione; ma poco dopo, mentre scendevamo a valle, le domandai:
«— Ma tu sai dov’è?
«— Un giorno lo saprò – mi rispose. E mi raccontò che nella sua famiglia il segreto era stato trasmesso di generazione in generazione da parecchie centinaia d’anni. Allora il depositario era il nonno, un vecchio di ottant’anni che aveva ancora poco da campare e che a lei, unica discendente, avrebbe lasciato un libro antico con tutte le indicazioni. Per farla corta, alla fine dell’estate il vecchio morì ed il segreto passò nelle mani di Lucia. Essendo ella rimasta sola al mondo, le nozze furono affrettate; ma due giorni prima, mentre traversavamo l’ontaneta sul fiume, io la presi per un braccio e le dissi chiaro e tondo:
«— Senti; se tu non mi sveli il segreto della Torre, io non ti sposo.
«Era divenuta in me come un’ossessione. Volevo sapere ad ogni costo quello che c’era; me lo sognavo la notte, ci pensavo di giorno. Lucia quando mi sentì dire così si mise a piangere e non rispose. Forse capiva che io non volevo lei, ma il tesoro. Il giorno dopo venne nella selva con il libro; dentro c’era uno scartafaccio con poche indicazioni semplici e chiare.
«– Per carità, – ella scongiurò gettandomisi ai piedi; – per carità, non andare! I miei vecchi hanno sempre detto che preferivano restar poveri, perchè quando uno si avvicina al tesoro qualcuno muore. Un fratello del mio nonno ci si provò; ma precipitò giù e lo trovarono col capo sfracellato fra i massi del fiume…
«Figurati che bisognava salire in cima alla torre, dove non fanno il nido altro che i falchi, e scendere nell’interno per un pozzo liscio che ci doveva essere. Io vidi subito che era cosa da fare adagio e da preparare con ogni cura. E poi bisognava andarci di notte perchè gli altri non se ne accorgessero. Ma ormai ero padrone del fatto mio e non avevo più impazienze. Finsi di essere persuaso e la sposai. Tre mesi dopo (tu sai che accade spesso, da noi: chi li guarda gli innamorati per i boschi?) partorì un bel maschio. Intanto era caduta molta neve e la montagna era inaccessibile. Poi venne la primavera, i fiumi e i torrenti si gonfiarono e vi fu, come il solito, qualche ruina. A maggio, il bambino aveva cinque mesi ed era bello e fiero come la sua mamma, che si era ingrassata ed era divenuta un fiore. Allora, con la stagione ferma, io tornai ai miei disegni antichi; ma lo feci con molta circospezione, perchè Lucia, solo a parlarle della Torre, tremava tutta e diventava bianca; nè io volevo darle dispiacere, perchè a poco a poco me n’ero innamorato sul serio. Ogni giorno, senza che ella lo sospettasse, andavo dietro la rupe a studiare il modo di salirla. Ma ben presto mi accorsi che per arrivarci in cima non c’era altro mezzo che scavare dei gradini nella roccia. Portai lassù di nascosto un piccone e mi preparai a cominciare la mia fatica.
«Ora guarda laggiù la mia casa. Da una parte c’è il fiume, dall’altra c’è l’aia di sassi, poi comincia l’erta e su questa, dopo poche braccia, il dirupo sovrastato dalla Torre.
«Quando ci salii una mattina della fine di maggio, era un tempo splendido. Faceva dolco e l’aria era serena. Arrampicandomi nascosto dietro i faggi, scorgevo duecento metri più sotto la mia casa avvolta nel sole. Ero già sotto la Torre, quando vidi la mia donna uscir fuori col bimbo in braccio e posarlo su un mucchio di foglie secche perchè giocasse; poi prese alcuni panni e si mise a lavare alla fontana, mentre mia madre stava al fuoco, come imaginavo dal camino fumante. Mi ricordo tutte queste cose come se le vedessi ancora; ma allora non ci feci caso perchè ero infatuato dall’idea dell’oro».
I suoi occhi si contrassero per reprimere il dolore, sì che parvero affondati nell’orbita e non si vide altro che le sopracciglia vellose. Le rughe della fronte parevano incise con un’arma tagliente.
«Dunque – continuò – c’era una scheggia di roccia così grande che avrei potuto agevolmente abbracciarla due volte. Una scheggia, ti dico, più leggera di un mezzo sacco di grano. Ma bisognava passarci sopra ed era pericolosa perchè scoteva. Penso di spostarla in modo da lasciare libero il passo e imagino che debba subito arrestarsi contro un grosso tronco abbarbicato alla roccia. Ci puntello sotto il piccone e faccio forza con tutta la persona. La scheggia va addosso al tronco, come avevo preveduto; ma il tronco, vecchio e marcio, cede al peso pur lieve e si spezza; il sasso precipita. Trattengo un grido e balzo con grande rischio all’aperto, per vedere. Poteva voltare di qua, di là, in cento direzioni: cadere nel fiume come accadeva spesso d’inverno. Perchè proprio avrebbe dovuto…. Insomma, fu così. Piombò in mezzo all’aia, mentre io gridavo frenetico dall’alto masso, sull’abisso, impotente d’ira e di furore.
Feci a tempo a veder lei che balzava dalla fonte atterrita, mentre il macigno si abbatteva di colpo sul piccino e su lei…».
— Eppure – concluse egli più tardi col viso ancor pieno d’ombra e d’orrore – eppure il tesoro c’è. Sono sicuro che c’è. Ma nessuno lo avrà mai.
Poichè si avvicinava il meriggio, scendemmo. Io parlai di cose allegre per distrarlo; ma il suo pensiero era lassù e volava coi falchetti, ch’egli invidiava come custodi dell’oro inviolabile.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: La torre del fattucchio
AUTORE: Giuseppe Lipparini
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: La visita pastorale ed altre novelle / Giuseppe Lipparini. - Bologna : N. Zanichelli, stampa 1914. - 122 p. ; 17 cm.
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)