Ditta al farabi“La verità è che non si può insegnare oggi, / o si diventa oppressi”: oppressi dal sistema meccanico ed alienante dei “debiti” e dei “crediti”, delle “finalità” e degli “obiettivi”, che già da anni sta imponendo, paradossalmente, una logica aziendale, e dunque utilitaristica ed eterodiretta, anche a saperi – in primis quelli umanistici – che dovrebbero di per se stessi essere disinteressati, incondizionati, animati solo dal puro e spontaneo amore della conoscenza in quanto tale.

Questo è il presupposto – indiscutibile e desolante – da cui trae motivazione ed impulso il variegato, umile e insieme profondo, “viaggio in Italia” narrato da Giselda Pontesilli nel libro Ditta al-Farabi, edito, con una dotta ed acuta prefazione di Paolo Lagazzi (il noto studioso di Attilio Bertolucci), nella garbata collana di poesia dell’editore Il Ponte del Sale (Rovigo 2006, pp. 110, euro 13).

E la via di fuga dal sistema alienante ed oppressivo dell’istruzione mercificata e massificata è offerta, paradossalmente, dal commercio – dalla “vita ruvida concreta / del buon mercante inteso alla moneta” che Gozzano diceva di preferire a quella “sterile, di sogno” dell'”esteta gelido” -; ma un commercio visto e vissuto un po’ come l’antica “epopea dei mercatanti”, come dedalo di esperienze, incontri, smarrimenti, imprevisti, come crocevia di spazi aperti ad una mobile e vitale curiositas umana ed intellettuale, e dunque come salutare antidoto alla realtà fredda, anonima e spersonalizzante della civiltà dei consumi, alle catene inflessibili ed onnipotenti della “grande distribuzione”.

“Così noi siamo, / che andiamo con le borse lungo il mare”. Qui si sente, forse, l’eco straniata ed ironicamente distorta dei pastori dannunziani che “lascian gli stazzi e vanno verso il mare” – ma, dalla patina prosastica e dissonante, trapelano ancora, impliciti, il respiro liberatorio, la limpida felicità del “tremolar della marina”. Solo così, ad ogni modo, si può essere “fuori da ogni costrizione, / demagogia, falsità”, ed immergersi, liberi, sospinti da questa paronomasia profonda e rivelatrice, nell'”anima unanime di ogni bella cosa”.

Non si tratta di un estetismo vaporoso e retorico, ma, semmai (secondo la grande lezione di Rosario Assunto, qui affettuosamente rievocato), di un neoumanesimo nutrito dal culto della bellezza còlta in un testo, in un’architettura, in un incontro, in un momento, in un paesaggio, preservata e resa assoluta dalla forma poetica, e infine gettata contro ogni alienante e reificante mercificazione.

E non è un caso che venga richiamato anche John Ruskin, cantore (accanto a Willliam Morris, e in anticipo su Wilde, su Pater, sul D’Annunzio meno ideologizzato) della gioia e della bellezza del lavoro, vissuto come preziosa ed amorevole opera d’arte calata nel molteplice fluire del quotidiano.

Memore di The Stones of Venice, la poetessa rincorre, e per così dire ricalca, con una versificazione agile, slanciata, cesellata senza affettazione, “capitelli, trafori, archi foliati, / sempremai nuovi, / sempremai variati, / rimeditati, / rimediati // ridati, / in libertà”. È la “bellezza antica e nuova” di Sant’Agostino e di Pascoli che qui, effigiata nel marmo e negli smalti, nei pieni e nei vuoti ariosi delle arcate, il canto contempla e rimodula. Ma tutto – ogni forma, ogni percezione, ogni memoria, ogni evento – è infine avvolto dal silenzio della pagina, dalla quiete della lettura e della scrittura, dal dialogo muto ed assorto con la parola del passato – dalla temporalità rarefatta, trascendente, assoluta, metatemporale, dal petrarchesco “sine tempore vivere”, dell’intelletto e della c reazione: “silenzio (…) unisono, / sonoro, / questo tempo / che non svia, non sfugge, non dispiace / umile tempo nostro / mite, segreto / grande tempo disteso / di studio, leggiadria”.
Il tempo ridiventa così, come in Platone, imago aeternitatis, “immagine mobile dell’eternità”: forma fluens in cui si manifesta e si dispiega un valore perenne. Non a caso, nel libro è evocato anche il Platone del Cratilo, in cui è discussa proprio l’ipotesi che il continuo fluire del linguaggio – diviso e bilanciato fra segno e concetto, fra suono e fonema – rispecchi il cangiante e diveniente dualismo che solca ed incrina le forme del reale; e, come nota Lagazzi nella prefazione, tutto questo originale “romanzo in versi” – che, all’interno del genere, da un lato evita i prosaismi, le durezze e le ossessive iterazioni del Pagliarani della Ragazza Carla, dall’altro non ambisce al vasto e rischioso respiro epico e proustiano del Bertolucci della Camera da letto – si pone, fin dal titolo, sotto il segno di Al-Farabi, rinviando non solo al mondo dell’immigrazione, dell’integrazione, dell’intercultura, ma in modo specifico al filosofo arabo che – aprendo la via all’aristotelismo e alla scolastica – scrutò la relazione e la tensione fra essere necessario ed essere possibile, fra l’eterno e il transeunte, il divino e l’umano, e i reciproci riflessi, le reciproche screziate risonanze, dell’una nell’altra dimensione.

Il metafisico arabo (come poi Alberto Magno, Bonaventura e Dante) prospettava, senza riuscire e gli stesso a portarlo a termine, un cammino dall’immanenza alla trascendenza, dall’intelletto potenziale a quello attuale, dalla realtà terrena al cielo delle idee. Tuttavia (scriveva il filosofo nella Medina al fadhila, cioè nella Città dell’ideale) “ogni forma ha il suo opposto”, e ciascuno dei due opposti “ha una partecipazione all’esistenza e alla durata”.

Forse è proprio per questo che l’autrice pone il suo dire poetico sotto il segno di Al-Farabi: sotto il segno, cioè, di una perennità, di un’immortalità di valori fatte, però, carne, corpo, tempo, esistenza, immerse nei mutamenti e nei contrasti di un divenire dialettico, in cui la generazione e la nascita sono presupposto della morte e poi della memoria, del ricordo, dell’eredità umana ed intellettuale – di una reminiscenza che con vicissitudine assidua restituisce l’umano al cielo, il tempo all’eterno, l’immagine immanente e sensibile al suo celeste archetipo, pur se sempre incarnato e vissuto nel qui e nell’ora.

Così la Pontesilli trova l’essere necessario già calato nella sfera terrena, nella selva di luoghi, memorie, incontri, rivelazioni segrete e dimesse, entro la quale si sdipana il suo viaggio umile e prezioso: un viaggio, peraltro, in cui, un po’ come in quello del mistico, l’andare nel tempo coincide, in fondo, con l’immobilità e l’immutabilità dell’eterno, e la meta è già stata raggiunta, appena concepita o intravista, nella mente e nello spirito, prima ancora di partire.

Il “tempo senza tempo” in cui si muove il discorso poetico dell’autrice è, forse, proprio questa fusione di possibilità e necessità, di realtà umana e indicibile trascendenza, nell’istante eterno della parola e del dire.
Ma, alla fine, sulla vicenda e sul percorso del libro sembra discendere “l’inverno dello scrivere nemico”. È proprio questo il verso con cui si chiude e si suggella, con una cupezza raddolcita dalla vibrazione durevole della malinconia e della nostalgia, la silloge-poemetto: un verso in cui Beppe Salvia, giovane poeta romano d’adozione, lasciava presagire (quasi come i corvi minacciosi e gli allucinati gorghi dell’ultimo Van Gogh) il suo volontario, lungamente accarezzato, quasi avvolto in una tragica dolcezza, congedo dal reame, invero così fatuo ed effimero, dei vivi. E certo la Pontesilli, al pari di Claudio Damiani, riecheggia, proseguendoli idealmente, la classicità, la limpidezza, la “naturalezza”, l'”equilibrismo” – del tutto coscienti, lievissimi, quasi danzanti, eppure privi di qualsiasi affettazione, studio, manierismo -, insomma l’oraziana ng1040difficillima facilitas, che contraddistinsero la straordinaria stagione creativa legata alla rivista “Prato pagano”.

Ma non sarà un ghiaccio perenne, il “freddo perenne” di un Ortesta o di un Magrelli, un intellettualistico gelo che soffoca ed inaridisce ogni vita; non sarà la “stanchezza” del povero Salvia, “paziente / chiosa di sensi mente bellezza”. Questo inverno sarà, piuttosto, un manto premuroso di neve, che nasconde e cova il rifiorire della primavera.