La notte, quel magico intervallo di tempo compreso tra il tramonto e l’alba, in cui il Sole resta al di sotto dell’orizzonte ed in cui, generalmente, gli esseri viventi riposano in una fase chiamata sonno. Proprio alla notte, a quest’ultima suddetta, il superlativo compositore polacco naturalizzato francese Fryderyk Chopin (1810-1849) dedicò le notorie composizioni al pianoforte recanti il nome “I Notturni”. Queste sublimi e magnifiche composizioni erano inerenti ad una certa qualità della musica, destinata in un certo senso ad essere eseguita nelle ore della notte, o in altro modo ispirata proprio dalla notte, oppure proprio tale ad evocarla. Chopin riconobbe al suo predecessore irlandese, John Field, il merito di creare l’originale genere di “musica notturna”, ovvero una sorta di serenata per differenti complessi strumentali, che configuravano numerosi stilemi di carattere tecnico, dotati di una semplice forma tripartita (A-B-A’), e dove è presente la preponderanza del cantabile sostenuto da vaporosi accompagnamenti, ricolmi di abbellimenti, soventemente arpeggiati.
Il mesto compositore francese ammise i suoi debiti nei confronti del pianista irlandese, anche se sarà proprio Chopin ad essere riconosciuto dalla storia della musica il vero e proprio padre dei “Notturni”. Proprio con queste famosissime composizioni conquisterà i cuori e le menti di tutti gli amanti della musica, sia dei ceti nobiliari sia di quelli popolari. La formazione musicale di Chopin fu comunque influenzata dall’ambiente in cui era immerso, dove era molto elevata la richiesta di musica semplice, di facile ascolto e facile fruibilità, dalla tinta profondamente sentimentale, che diffondesse negli sfarzosi saloni dei palazzi ma nello stesso modo anche nei salotti delle magioni borghesi, lo “spirito sentimentale” del sostrato d’opera italiana, in gran voga al tempo. Non c’è che dire, proprio quel tipo di composizione era alquanto adatto e affine al suo temperamento. Egli era assai votato all’espressione beve, ad impiegare strutture come se fossero un involucro da riempire di “puro canto”, venato da estrosità e stravaganze armoniche che ne accentuassero l’effetto. Il nostro compositore francese era solito cimentarsi nell’improvvisare “notturni” quando l’ora si faceva tarda, ed accanto a lui si univano gli amici più fedeli. Suonava prettamente per sé, per esprimere la sua esigenza di musica, il suo bisogno di sentire e vedere, vedere con gli “occhi della musica”. Sono inequivocabilmente les “Nocturnes” i brani che ci rendono nel modo più accurato e fedele il ritratto dell’uomo Chopin in quanto artista.
Le otto raccolte dei “Notturni” e i tre numeri singoli comprendono ventuno brani complessivamente, disseminati nel corso della sua incisiva ma seppur breve esistenza. Le composizioni precedentemente menzionate sono con le Polacche, Mazurche e Valzer un genere musicale che Chopin non abbandonò mai, e che accompagnarono la sua evoluzione artistica. Gli atteggiamenti posti in atto erano vari, per far si che in tal modo l’esperienza di ascolto risultasse sempre unica ed irripetibile nello stesso senso. Potevano trattarsi sia numeri celeberrimi, che rappresentavano il polacco che era presente nel cuore di ognuno, come il secondo dell’opera 9, sede di una tenerezza infinita espressa e priva di alcun remore, ma erano presenti anche brani più sperimentali, come il terzo dell’op. 15, dove nella forma è assente la ripresa, per consentire così una conclusione strabiliante.
All’inizio le melodie sono intrise dello spirito dell’amico Vincenzo Bellini, ma in successione Chopin adegua il cantabile verso motivi più ricchi e complessi. Il “Notturno” diventa un puro dramma, eseguito con fattezze ineguagliabili (es. n. 1 dell’op. 55), o diversamente è dilatato fino a rivestire pressapoco le dimensioni di una grande forma (primo dell’op. 48), arrivando a commisurare, nella sua totalità, le esigenze “visionarie” che animano tutta la composizione musicale prodotta dal “malinconico esecutore polacco” durante gli ultimi anni, dove il suono del pianoforte, con reminiscenze impressionistiche, ottiene il primato indiscusso tra tutti i parametri nella composizione, e come se tale strumento prendesse vita autonoma e dettasse la propria legge e la propria volontà. Gli ultimi brani sono pregni di armonia che precede esiti che la musica francese avrebbe esperito e sperimentato trent’anni dopo.
“L’improvviso” aveva trovato una sua collocazione ed attuazione, prima di Chopin, nell’incarnare la contrapposizione romantica al formalismo viennese: proporzioni brevi, contenenti elementi stilistici diversi congiunti, così il genere esprimeva, un approccio “improvvisato” dall’esecutore. Franz Schubert ne codificò la struttura con le famose raccolte scritte negli ultimi anni di vita, Chopin ne raccolse l’eredità e, al di fuori della parvente spontaneità e semplicità di scrittura, nascose un minuzioso e assiduo lavoro formale. È superfluo aggiungere che la sonata non è scevra dei suoi elementi drammatici.
I primi due numeri della raccolta posseggono tratti di similarità, precisamente l’op. 66 e l’op. 29, dove l’ampio gesto lirico della parte centrale è osteggiato da sezioni palesemente anguste ed inquiete, dove affiorano intermittenti lacerti melodici. Il “sensibile” Chopin recide i contrasti eccessivamente energici, riduce il virtuosismo di matrice e memoria lisztiana, e lo mette al servizio di un forma espressiva più ricercata e raffinata, con innumerevoli sfumature, prescrive un’estrema eterogeneità di “messe di voce”. Nell’ultimo brano, poco accattivante al primo ascolto, e privo di estro creativo, tende ad una pura riflessione elegiaca trasposta in musica, riconducendo in questa prospettiva la ripresa accorciata. Ma in tutti i modi il compositore francese del quale sinora si è parlato ha raggiunto ed è entrato a tutti gli effetti a far parte delle vette dei compositori di musica classica di tutti i tempi e fra i più grandi romantici della storia, per sempre. Infine come ebbe a dire di Chopin uno dei critici musicali più arcigni ed illustri dell’800, Robert Schumann, ammettendo apertamente inoltre quest’ultimo l’encomio nei suoi confronti: “Per essere chiamati poeti, non c’è bisogno di ponderosi volumi: per una o due vere poesie si può meritarne il nome, e Chopin ne ha scritte ben più di una o due”.