(voce di SopraPensiero)

Elena Bono, La moglie del Procuratore, Marietti, Genova 2015, pp. 206, € 12,00copertina

Lucido, spietato, sconvolgente e attualissimo. Ho esitato prima di scrivere aggettivi tanto impegnativi. Eppure rendono con esattezza quanto ho provato leggendo quest’opera.

Questo testo fu pubblicato nel 1956 da Garzanti come uno degli otto racconti – il più lungo – del capolavoro di Elena Bono, Morte di Adamo; nei decenni successivi due nuove edizioni e le traduzioni in inglese e francese. E oggi, per la prima volta il racconto vede la luce in veste autonoma (ma presto la casa editrice Marietti pubblicherà gli altri racconti).

In esso l’autrice riversa tutta la sua competenza di classicista (come era anche suo padre). Specie nella prima parte evoca con esattezza i fermenti stoici, epicurei, scettici dell’ambiente colto della Roma del principato di Nerone (54-68 d.C.).

Al giungere sulla scena, Claudia Procla Serena, moglie del procuratore Ponzio Pilato, sembra ed è tanto diversa. Presto si capirà che da una vita è impegnata in un severo combattimento interiore.

Di lei le fonti storiche non dicono nulla; il Vangelo ben poco e non ne rivela il nome: «Mentre egli sedeva in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: «Non avere a che fare con quel giusto, perché oggi, in sogno, sono stata molto turbata per causa sua»» (Mt 27,19). Tradizioni e leggende, al contrario, fiorirono. Elena Bono non le segue; si domanda, però, cosa avrà, in effetti, provato e vissuto. «Non so se ad essergli indifferente, riuscirà mai nessuno» (p. 161), constata Claudia.

Romanzo breve o racconto lungo che sia, questo testo di Elena Bono è più propriamente una pièce teatrale: unità di tempo e di luogo (tutto si svolge in una notte, nella casa di Seneca); un lunga conversazione che evoca fatti epocali, senza raccontarli.

Bono 2Ventotto anni dopo la condanna di Cristo, Claudia, dalla sua villa nella pianura Padana, torna a Roma. Il motivo, lo si saprà dopo, è di cercare un incontro con Paolo di Tarso. La notizia si diffonde e Seneca, che la conosce da quando era ragazza, la invita a una festa nella sua casa.

La scintillante conversazione, a fine serata, tra gli ultimi e più cari invitati di Seneca, cui Claudia assiste pudica e silenziosa, occupa il primo terzo del testo. A prima vista, un po’ troppo. Ma il successivo dialogo ne riutilizza quasi ogni frase. Le posizioni, apparentemente diverse (il duro legalismo politico di Trasea, l’intuitiva e oscura ribellione di Lucano, la pacata dialettica stoica di Seneca, l’esasperante cinismo di Pisone), convergono a tratteggiare una società coltissima ed elegante che ha perso però qualunque speranza: arrivati in fondo alla china, in maniera irreparabile; «poi verranno le fiamme» (p. 45). In questo il testo è di una raggelante attualità: un mondo senza prospettive, impegnato al più a difendere orgogliosamente la propria dignità; lontanissimo dal poter capire la rivoluzione dell’Incarnazione. Paolina, moglie di Seneca, è però costretta ad ammettere: «E c’è un’altra cosa, una cosa che non dice nessuno. Del resto non si sa come dirla […] Ecco, è come se, in qualche modo, per qualche ragione, avessimo […] non so […] fallito lo scopo» (p. 78)

Cuore del testo è il successivo lungo colloquio tra Claudia e Seneca, con tutta l’intimità drammatica della notte. Claudia racconta con ordine, in un prolungato flashback, gli avvenimenti di quella fatidica giornata e la lunga lotta per salvare il marito dalla follia, che si incardina su una domanda: «Cos’è la verità?».

Inedita e affascinante è la prospettiva potentemente femminile del racconto, che ha inizio con quel sogno notturno, in cui Claudia «vede» l’uomo che non conosce e capisce che è «vestito di tutto il dolore del mondo». «Un’angoscia più grande di quella che tutti i cuori umani uniti insieme riuscirebbero a sopportare. E – oscuramente intuisce – forse voleva che lo aiutassi a soffrire» (p. 177). La Bono stessa, moderna Claudia, ha più volte ricordato nelle interviste come questo dialogo le sia nato dall’aver visto, un giorno «un uomo di spalle, dietro una grata» (p. 199).

Il dialogo tra Claudia e Seneca è psicologicamente molto ricco e complesso, quasi un corpo a corpo tra la sconvolgente novità di un dio, finalmente, che piange per gli uomini e il radicato agnosticismo di un mondo ormai stanco. Seneca finemente afferma: «la tristezza, il fastidio morale del mondo è il male più contagioso […] un vino, Claudia, di gusto forte […] una volta assaggiato, ci torni di continuo; gli altri non li beviamo più» (p. 91).

Ma, oscuramente, la femminilità di Claudia capisce molte cose, ben più di Seneca. Capisce che lo scetticismo è «una forma di spavento inconfessato» (p. 134). E anche che vincerà non chi fuggirà il dolore, ma chi saprà dargli senso.

Claudia non è (ancora) cristiana, ma la sua ricerca la orienta. L’autrice lascia in sospeso l’incontro con Paolo di Tarso. Ma, proprio all’alba del nuovo giorno, Seneca è costretto ad ammettere: «La vostra pace, Claudia, sta dentro al fuoco […] solo i giovani possono lanciarsi in mezzo alle fiamme» (p. 186).