La melagrana

di
Grazia Deledda

tempo di lettura: 7 minuti


Era una domenica, di novembre. La serva del Paradiso doveva avere anche lei, per l’arrosto festivo, spennacchiato piccioni e pollastrelle, perché il cielo, bianchiccio come un’aia pulita, era sparso di piume violacee e lionate. La stiratrice del quartiere, che quel giorno non doveva lavorare, lavorava il doppio: aveva lavato, nella vasca per il bucato, i suoi sette bambini, li aveva cambiati e, con in mano ciascuno un pezzo di pane e una fetta di ricotta, lasciati uscire nella strada: e adesso lavava le loro vesti, nell’acqua insaponata e oleosa del loro santo sudiciume. Aveva mal di denti, ma era contenta lo stesso, perché il marito stagnaio aveva mandato i soldi dall’Africa; e orgogliosa dei suoi bambini sani e puliti, che si erano addossati in fila, come in un altorilievo, sul muro color creta del giardino del Commendatore: le pareva, anzi, di sentire una voce cantare, in lontananza, nella lontananza della sua fanciullezza con un tono dolciastro e irreale come quello del cielo sopra il giardino: era la radio del Caffè del Dopolavoro, in fondo al campo del pattinaggio.
La strada è di tutti. E dunque uscirono ben presto i figli del fornaio, e i due maschietti del lucidatore di mobili. Questi due erano i più meschini, sporchi e, sembrava, affamati. Ma si capiva perché: la madre era morta di mal di petto, il mese prima, e adesso badava a loro una parente anch’essa malaticcia e stanca: ad ogni modo tutti erano pronti a gridare, ad arrampicarsi dove si poteva, e sopra tutto a darsi le botte: e la battaglia sarebbe presto cominciata se in fondo alla strada, dove finiva il muro del giardino, non fosse apparso il nemico comune.
Nemico temuto e temibile per la sua audacia, ma anche per un certo suo colore misterioso.
Era tutto nero, con un grembiale che aveva il luccicore duro e unto del carbon fossile; solo i capelli erano color terra, opachi e umidi, come se egli, sbucando da una miniera intatta, avesse sfondato con la testa l’ultimo strato di argilla. E da una specie di cava egli invero sbucava; perché era il figlio del carbonaio.
Come i ragazzini del lucidatore di mobili, neppure lui aveva, per la pausa festiva, mutato vesti; e neppure s’era lavato, cosa per lui perfettamente inutile; ma lo spirito della giornata gli turbinava dentro, con una voglia ebbra di fare cose cattive, di sentirsi libero del demone che per sei giorni della settimana lo schiacciava coi sacchi del carbone portati a spalla, demone a sua volta. Un’occhiata gli bastò per avvolgere in un principio di gas asfissianti l’orda nemica; specialmente le bambine, che pure avevano per lui l’ammirazione morbosa che si ha per il figlio dell’orco: le bambine che conoscevano, sulla pelle bianca delle loro braccia, i mazzolini di violette delle ecchimosi dei pugni di lui. Appena lo videro si strinsero meglio al muro, mentre i maschi si schieravano loro davanti: tutti disposti al coraggio, alla lotta.
Ma una cosa insolita avviene. Arrivato a metà del muro, il ragazzo si ferma, spalanca gli occhi, e con un baleno di cristallo, li richiude, fa un cenno di sì con la testa, come rispondendo a una sua fulminea domanda: e apre la bocca, coi denti di smalto che riflettono la luce. E con un solo slancio balza sul muro, scavalca la bassa cancellata, si lascia andar giù, come un sacco vuoto del suo carbone. Il gruppo avversario non si sorprende: anzi, dimenticando la difesa delle bambine, le strapazza per veder meglio dentro il recinto: sebbene sappia già di che si tratta.
Si trattava che nell’ultima settimana un uragano aveva, con una violenza da esercito in guerra, devastato il giardino. Le foglie erano quasi tutte cadute: quelle della paulonia pendevano come stracci dalle fronde stroncate; e quelle del fico nano, che con le contorsioni grottesche dei suoi rami rappresentava il buffone del giardino, sembravano pipistrelli addormentati. Così il luogo aveva perduto alquanto il suo richiamo di piccolo paradiso terrestre, di paradiso perduto per la razza dei bambini poveri del quartiere, ma in cambio si vedevano, non più velati dal ricco fogliame, alcuni frutti meravigliosi: gli ultimi cachi, rossi e lucidi come boccole di corallo; e la prima melagrana del giovane albero, che la offriva in mostra, rossastra, dura e col capezzolo spaccato, con una insolenza provocatrice.
Era quello che ci voleva, quel giorno, per il figlio del carbonaio: strisciando come il serpente fra i cespugli si avvicinò alla pianta, vi si allungò, tese il braccio: il frutto cadde, come una meteora, fra lo scintillare dorato delle foglie che l’accompagnavano: il ragazzo se la cacciò in tasca e fuggì via correndo quasi carponi sotto il muro, mentre una voce tonante, simile a quella che scacciava appunto i nostri padri dal paradiso terrestre, risonava dall’alto di una finestra. Ma quando il servo del Commendatore venne giù, in giacchetta azzurra e scarpe di feltro, il vero ladro era sparito, e due dei suoi disgraziati ammiratori, i figli del lucidatore, tentavano di seguirne la traccia, quasi fiutando l’odore del frutto proibito. L’uomo li conosceva bene tutti, canaglie figli di canaglie; inseguì dunque questi due, d’impeto, li afferrò con le dita, come un rastrello, per le orecchie e i capelli, fece atto quasi di sbatterli uno contro l’altro come faceva con le pantofole del padrone, poi se ne lasciò sgusciare di mano uno, il più grande, per meglio pestare a pugni e schiaffi l’altro, che allungava il collo e faceva un viso di gatto strangolato.
— Non siamo stati noi — gridò correndo in avanti il fratello.
— Chi è stato dunque, mascalzoni?
Ma nessuno di quelli che lo sapevano fiatò: forse per un istinto di omertà, forse per vendicarsi in qualche modo dell’uomo che picchiava. Passò però una piccola suora di porcellana nera e bianca, con un po’ di azzurro negli occhi e un po’ di viola sulle labbra, e volle rendere giustizia. Una melagrana? Sì, aveva veduto un ragazzo, alla svolta della strada, che spaccava contro il muro una melagrana e la mordeva. Ma neppure lei disse chi era.
Così il servo lasciò il ragazzo, che corse via piangendo verso casa, ma per non prenderne ancora dalla zia, – il padre fortunatamente non c’era, – si rifugiò coi bambini della stiratrice nell’antro di questa. Tutti dentro, come pulcini spauriti dal passaggio del nibbio: tutti bianchi come la ricotta appena finita di mangiare. La zia però, col viso livido, venne a cercare i ragazzi, e avrebbe finito lo scempio se il piccolo nipote non si fosse d’un tratto piegato in avanti, stringendosi con le mani il ventre. E vomitò: vomitò un liquido rosso che colorì il pavimento bianchiccio di varechina. Le due donne si guardarono con terrore: poi la stiratrice mise la mano sulla fronte del ragazzo, aiutandolo a finire di sputare sangue e saliva. Mormorava:
— Non è nulla, non è nulla — ma tremava tutta, e quando il ragazzo fu adagiato su una sedia, vuoto e sudato come una camicia bagnata, ella spazzò con la scopa intrisa di varechina la pozza del sangue, accanendosi come per far sparire il segno di un assassinio.
L’altro fratello intanto, spinto da un furore di paura e di rabbia impotente, correva dietro il ladro: lo vide che risaliva la strada succhiando metà della melagrana, e con l’altra raschiando il muro; e questo evidente disprezzo del frutto proibito accrebbe la sua esasperazione. Cercò e trovò un sasso, lo lanciò giusto sulle spalle del malfattore: lo vide trasalire, e senza fermarsi, anzi correndo nel sentirsi inseguito, sputare anche lui qualche cosa che sembrava sangue: erano il succo e i chicchi masticati della melagrana. Della quale buttò via i residui, che potevano accusarlo. L’altro li raccolse, li pulì contro la sua giacchetta, ma cercando di nasconderli; e fuggì via in senso inverso al nemico. Dalla porticina della stiratrice vide, fra il gruppo dei bambini e delle donne pietose, il fratello che pareva un piccolo Cristo deposto col vestito sanguinante e il visino lilla stranamente invecchiato. E quando, per tentare in qualche modo di rianimarlo, gli avvicinò alle labbra uno spicchio della melagrana, dal quale aveva scorticato la buccia scoprendo i chicchi di perle granate, vide quel viso riprendere un respiro di vita, sì, ma con un brivido di raccapriccio: poiché il frutto, aspro e bastardo, aveva proprio il sapore della spugna con cui fu abbeverato Gesù.


Fine.


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TITOLO: La melagrana
AUTORE: Grazia Deleddda

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: {Novelle} 6 / Grazia Deledda - Nuoro : Ilisso, \ 1996 - 278 p. - 18 cm. - Bibliotheca Sarda. Fa parte di: Novelle / Grazia Deledda ; a cura di Giovanna Cerina

SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)