La forbice di legno
di
Carlo Dadone
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— Giulio, smetti un momento, mangia un po’ di minestra; è una zuppa di ceci che mi è riuscita proprio gustosa. Così digiuno mi fai una pena da non si dire.
— Grazie, nonna; ti ripeto che non ho fame… ho un acuto mal di capo, qui, e sono molto stanco. Lasciami tranquillo; se mi riesce, faccio presto con queste bozze, e poi me ne vado subito a letto.
La vecchia non disse più nulla, ma stette lì, con la scodella fumante che le tremava fra le mani scarne, a guardare il giovane che di nuovo si era chinato su certe prove di stampa, sotto il chiarore tranquillo della lucerna a petrolio; stette ancora lì a guardarlo con tanta amorosa ansietà negli occhi piccini e poi, adagio e a malincuore ritornò al camino, posò la scodella su l’orlo del focolare, e risedutasi sulla confidente sedia a braccioli, tratta di tasca la corona del rosario e chinato il capo bianco e chiusi gli occhi, cominciò a bisbigliare le tarde avemmarie.
Fuori imperava un placido silenzio di abbondante nevicata, un riposo bonario che sapeva d’indulgente protezione.
Il giovane, chino ed assorto, pareva correggere con molta cura le pagine di stampa; ma poi si era fermato alle ultime, alzando il capo e guardando lungi nel vuoto buio della stanza; ed aveva mosso le labbra ad un tremito doloroso e socchiusi. gli occhi.
Così, per un istante, inerte; quindi, tratta da sotto i fogli una lettera fitta di calligrafia minutissima, la rilesse palpitando, rivedendo nel pensiero l’adorata cugina che forse in un momento di noia capricciosa glie l’aveva scritta; e la rivide alta, bruna, molto elegante ed imperiosa ed un pochino fredda, con quei suoi occhioni scrutatori, con quel suo fare sagace ed astuto di calcolatrice… E pure, quanto bella e desiderata e amatissima da lui, povero e meschino, che certo s’illudeva in vane speranze ch’ella fosse per amarlo, un giorno…
Sospirò, aggrottò le sopracciglia alzando il capo con fierezza, guardò a lungo la nonna, e scosso da un tumulto di pensieri posò la penna chiamando:
— Nonna.
— Vuoi…? – chiese la vecchia quasi svegliata d’improvviso, ma pronta. – La minestra è sempre lì, calda…
— No, non la minestra; voglio te, nonna; vieni qui, vicino a me… ecco, siedi, così… povera nonna, tanto stanca e tanto paziente e buona!
— Giulio, caro Giulio… che Iddio ti benedica! Ma tu mi sembri più triste del consueto; perchè?
— Siamo così infelici… E dì, tarderà molto il babbo a rincasare stasera?
— Non credo; sono già sonate le vent’una a San Lazzaro.
— E dopo uscirà di nuovo?
— Non so…
Tacquero un momento, pensierosi; poi il giovane riprese:
— Nonna, mi vuoi dare una spiegazione, proprio sul serio?
— Con tutta l’anima, caro.
— Ma senza reticenze, eh? Dove va il babbo quelle notti che non dorme in casa? Credi proprio, tu, che le passi all’ospedale?
— Ma certo. O che vorresti si dannasse in giro tutta la notte, per divertimento?
— Io non voglio nulla; ma perchè egli non si è mai spiegato bene, in proposito? Dice che va di guardia… a guardare che cosa? Fosse stato prima, quand’era inserviente di fiducia dei chirurghi… ma ora che, ubbriacone impenitente, fu licenziato da quel posto e solo per compassione tenuto quale servitore diurno e aiuto-giardiniere, che cosa va a fare, di notte, a San Lazzaro? Perchè non vuol dirci nulla? Vi sono tanti misteri e tante cose oscure e brutte! Quel certo passato – vedi, te lo ripeto per la centesima volta – non me lo sono mai potuto spiegare. È impossibile che tutto sia sparito, così, come un soffio. Ah, se non fosse di questa miseria che ci soffoca, non direi: ma così è troppo! Del resto, sei tu sola oramai che credi oro colato ogni sua parola. Gli altri no…
— E tu, tu, suo figlio, sempre con gli altri! – gemè la vecchia. – Oh, non ritornare più su queste angoscie, Giulio!
— Bisogna pure che ci ritorni mio malgrado; il dubbio è troppo terribile… Ma non capisci, ripeto, che non mi sono mai potuto spiegare nulla? Non capisci che è impossibile siano spariti tutti quei valori senza che più nessuno al mondo li abbia visti, nè saputo nulla?
— E continui tuttavia a credere che tuo padre…
— …Sì, che lui, sempre schiavo della sordida avarizia che lo consuma, abbia nascosto chi sa dove quella ricchezza, e che si rechi sovente, di notte, ad adorarla, come un folle, inebetito oramai dall’alcoolismo; e che ne goda egli solo, smisuratamente, nel palparla, nel vederla, nel saperla tutta sua… Una cosa orribile, è vero… ma tu non sai come la orrenda passione possa trascinare a rovine morali inaudite!
— Ma non è così, Giulio! Quante volte ti ho detto tutto, tutto? E pure io mi sono rassegnata alla grande sciagura… Ma se avessi preveduto che un giorno tu avresti dubitato di mio figlio, di tuo padre, sarei morta prima. Come è vero Dio, ci fu rubato ogni cosa: le trecentomila lire del Percival e le nostre centomila. La cassa fu aperta con un’abilità straordinaria; tuo padre fu per impazzire, così che perfino gli s’incanutirono i capelli, a ventinove anni! Tua madre morì… Il ladro, l’abilissimo intarsiatore Alessandro Rabbeno, che era nostro pigionale ed abitava nelle soffitte…..
— …In queste stesse dove noi siamo ora…
— Ah, tu sai…?
— Sì, so questo ed altro, nonna; ma continua pure.
— Il ladro, dunque, fu scoperto ed arrestato dopo un mese dal furto, mentre tentava di vendere un nostro gioiello. Disse di averlo trovato. Gli perquisirono l’abitazione, ma inutilmente; e noi fummo obbligati a vendere questa casa, subito; e le duecentomila lire ricavatene, fino all’ultimo centesimo, furono date al dottore Percival, di cui tuo padre custodiva le trecentomila rubateci mentre egli per istruzione visitava le più celebri cliniche d’Europa… E perfino i mobili, le masserizie, le ultime carabattole ci presero… proprio tutto, tutto. Così che per noi fu miseria completa, al punto da impietosirne il compratore della nostra casa, di questa casa; e noi, i padroni di prima, in quei momenti di disperazione accettammo da lui l’elemosina di queste tre soffitte, già abitazione del ladro; e fu somma grazia, per noi. Tu non avevi ancora cinque anni… Ma perchè, ti ripeto, ricordare tutto ciò? Il ladro, poi…
— Il ladro che forse non era tale…
— Ah, non dirlo, Giulio…! Il ladro fu giudicato e condannato due volte, capisci? Negò sempre, è vero; ma fu schiacciato sotto un cumulo di prove. Tuo padre fu calunniato da molti nemici in quei giorni: chè pur troppo, dominato dall’avarizia aveva seminato odî e rancori; ma disonesto non lo fu mai! Così si giunse a credere… Gesù, Gesù!
— Si giunse a credere ch’egli avesse finto il furto per impadronirsi delle trecentomila lire del dottore Percival, del suo intimissimo amico! Oh la sua tremenda avarizia! Peggio di una pazzia! Non dire altro, nonna, è inutile: soltanto la luce della verità potrebbe scacciare le tenebre del dubbio che mi oscurano la mente. Avessi potuto rintracciare quel supposto ladro, e parlargli, quando uscì di prigione! Ma la luce, credo io, verrà egualmente; sento che mi verrà o prima o poi: perchè questo continuo dubitare mi tortura! Non mi hai ricordato tu stessa più volte come, persino allora che eravamo ricchi, la sua cocciuta avarizia fosse giunta al punto da farci soffrire la fame… quasi come ora? La sua insaziabile brama di denaro…
— Ma basta, Giulio, basta per l’amor di Dio! Vedi bene che adesso non è più tanto avaro: vedi quante sono le sue sofferenze…
— E di che cosa dovrebbe egli essere avaro se non abbiamo più nulla? In apparenza, no; perchè ormai la sua avarizia è celata, in certo qual modo dall’alcoolismo che lo arde e lo stringe tra le sue spire maledette… Oh che infamia, che vita! Se non fosse per te, pei tuoi capelli bianchi, non sarei più qui, no… ma non posso abbandonarti.
— Sei tanto buono e non mi vuoi credere! Tuo padre beve per ira, per vergogna, per dimenticare; vedi bene che vive una vita di strazio. Innocente, sa i tuoi dubbi, trema, quasi non osa guardarti in faccia, e ti ama come un pazzo! Egli si dannerebbe l’anima per vederti felice! Di nascosto, a tua insaputa, legge i tuoi lavori, piangendo, e dice che sei un genio, e che hai fatto bene a lasciare quegli ufficî delle ipoteche, dove intristivi, per fare tutto quanto vorrai tu…
— Nonna, povera nonna…
— Sì, tutto quanto vorrai, pur che tu sia contento….. Non credi forse che possano sorgere giorni migliori? Hai tanto ingegno, sei giovane… Ma senti, senti: ecco il suo passo… per amor mio, Giulio, ti scongiuro: sii buono…
Di nuovo ritornò presso al camino; il giovane si chinò sui fogli palpandoli inconsciamente, ed un istante dopo entrò in casa Poldo Ferray, il babbo; entrò adagio, timido, un po’ malfermo sulle gambe esili, attraversando il primo stambugio; e appeso ad un chiodo il mantello imperlato di nevischio, si fermò poi sulla soglia a guardare il figlio, a lungo, senza osare un saluto, per non disturbarlo.
— La minestra è pronta, Poldo, se vuoi cenare – disse la vecchia.– Ci sono ancora le mele cotte di stamane…
— Grazie; non ho molto appetito – e sedette allo stesso tavolo di Giulio, di fronte al figlio che si chinò di più sulle pagine di stampa; mangiò silenzioso senza toccare la scodella col cucchiaio, spezzando il pane dolcemente: pensò di abbassare la fiamma della lucerna chè così era uno spreco di petrolio… ma non osò; anche, in confuso, vide troppa legna nel camino, e troppa carta bianca per quelle poche righe stampate sui fogli che erano sotto gli occhi di Giulio. Se avesse potuto rimpicciolire per non dargli fastidio, l’avrebbe fatto tanto volentieri! La nonna si attardò ancora intorno al focolare, ansiosa, guardando ora il figlio ora il nipote, non avendo cuore di recarsi a letto perchè intuiva la burrasca; e rotta dal sonno era per abbandonarsi ancora una volta sulla sedia, quando Giulio la riprese con assai dolcezza:
— Nonna, perchè non vai a letto? Via, è tardi… lì pigli freddo; metti lo scaldino fra le lenzuola. Vuoi che ti aiuti?
— Sì, vado, Giulio; ma faccio io grazie. – Smosse la brace nel veggio, diede la buona notte a tutt’e due, e curva, senza avere osato farsi una mezza chicchera di caffè, se n’andò a letto quasi digiuna, entrando nell’ultimo stanzino, al buio.
Un momento dopo il giovane, finito di correggere le sue stampe le ripiegò mettendole in tasca insieme con la lettera che aveva riletta ancora una volta; poi rimase lì dell’altro, assorto in tanti pensieri che lo angustiavano irritandolo, con la testa china sulla mano e gli occhi intenti al fuoco del camino; e suo padre, muto, lisciando inconscio la barba grigia, guardava i capelli biondi del figlio, quei capelli fini che avrebbe voluto accarezzare, baciare; guardava quel volto fiero e buono, di ribelle e di santo… e avrebbe voluto inorgoglire di essergli padre, se il sentimento della sua miseria vile non lo avesse umiliato.
Giulio si riscosse, ad un tratto; parve ascoltare guardando l’uscio dietro al quale la nonna era sparita, e poi, pianissimo, volto al padre:
— Esci ancora stasera? – gli domandò.
— Sì….
— Vuoi dirmi dove vai?
— A San Lazzaro, come al solito… sono di guardia.
— E che cosa guardi?
— O bella! non guardo niente. Sto là in panciolle ad aspettare caso mai si avesse bisogno di me – e si provò a sorridere: un sorriso triste che sapeva di bugia detta per forza.
— La notte scorsa ti ho seguito, sai?, e te ne sei accorto perchè cambiasti strada e finisti a San Lazzaro. Vi sei entrato dalla porticina del giardino dietro l’ospedale.
— Ma io non mi sono accorto di nulla! Sono entrato all’ospedale, come sempre quando mi ordinano di guardia, e nient’altro.
— No, no; non era quella la tua mèta; ti sei accorto che ti seguivo ed hai cambiato strada. Intanto oggi ho visto i Barthet, ed abbiamo parlato molto di te.
— I Barthet!
— Sì, li ho visti; ma non credere ch’io sia andato a cercarli, no, fu lo zio professore che mi volle per chiedermi schiarimenti a proposito di un mio articolo di polemica letteraria.
— Ed avete parlato molto di me! Dio mio, ci siamo… alle solite. Ah, Giulio, Giulio!
— Perchè non vuoi parlare, tu? I Barthet, specialmente lo zio, sono sempre convinti che tu….
— Ma è una fissazione malvagia la loro, la tua! Ma non vedi come mi logoro, come mi consumo, quali acerbe amarezze mi travagliano, sì che mi brucio con l’acquavite per vincere la vertigine che mi vorrebbe trarre al suicidio? Non senti, Giulio, che ti voglio bene, che vorrei possedere le ricchezze di un Creso per farti felice? E tu, invece, continui a credere alle…. Ma io non so nulla, nulla! Quante volte, tremando per non lasciarmi vincere dall’ira, chè nel vedermi così ingiustamente sospettato mi sento cattivo, quante volte ti ho fatto questo giuramento? Ah, perchè sono avaro, dici! Sì, forse lo sono ancora, sempre… ma per te, per te solo. Quando pago l’acquavite, mi par di pagarla con il mio sangue, e talora piango…. e pure non posso più farne a meno; e vorrei non mangiare, non bere, non vivere se fosse possibile, per vederti in fortuna. Ma perchè mio padre non mi ha mai obbligato, magari con la sferza, al lavoro, allo studio? Non sarei un buono a nulla, non sarei finito servitore a San Lazzaro. Non sono queste le cose che ti ho già detto tante volte? E pure tu continui ad incrudelire…
— Non è vero, no, perchè soffro anch’io mille tormenti; non ultimo quello, a dirittura straziante, di aver saputo che noi abitiamo le soffitte di colui, del Rabbeno. Una cosa semplicemente incredibile!
— Anche questo…
— Sì, anche questo mi dissero i Barthet. Che umiliazione! Ma intanto strappami, se puoi, al dubbio malvagio che mi strugge. Pensa: con il tuo denaro, con «quel denaro», potrei vincere la folla, capisci? Ed essere grande. Così, invece, sono un reietto, un cencioso, non valgo nulla, mi si compassiona. Essere compassionati! Il peggiore degl’insulti… Ed anche non ti ho forse detto che vorrei far mia la cugina Irene, la superba figlia dei Barthet? Ma costoro non mi vogliono, senza i denari, ed hanno ragione. Mi dicono che tu li hai; lo giurano, capisci? Tutto ciò sembrerebbe un assurdo, una fantasia da matti se non fosse invece un incubo che mi tortura giorno e notte! Vorrei anch’io poter bere, come te; anch’io rovinarmi per dimenticare…
— Dio, Dio… sento che morrò presto pazzo. Se non ti amassi… ti ucciderei. Io ladro, io dissimulatore, io padre esoso e crudele… Finirò per ribellarmi, sai? Vedo rosso… Giulio, Giulio, non più una parola…!
— E tu parla, fa tacere gli altri…
Ma l’inquisito si alzò tremante, livido, con i pugni chiusi; mosse contro il figlio che spaventato balzò in piedi indietreggiando; mozzò una imprecazione e proruppe fremente d’ira:
— Taci, taci; ti potrei strozzare: in questo momento ti odio! Tu, mio figlio, non mi credi… È una vita infame la mia, la nostra. Ah, se non fosse per quella povera vecchia! Ma che m’importa, ora, anche di lei? La finirò una buona volta con questa vitaccia da cani, vedrai! Dove vado, io, di notte, vuoi sapere? Ad un mestiere vile… sicuro: per quaranta lire mensili in più io mi vi lasciai trarre… e queste mie mani sono lorde, immonde… ma io sono onesto, capisci? Onesto, onesto, onesto! – e glie lo gridò in volto, quasi ruggendo, spingendolo contro il muro; così che il giovane, terrorizzato, chiuse gli occhi provando di botto un gran rimescolìo di pena e di rimorso, una commozione che gli mandò il sangue al cervello ed il pianto in gola: ma quando li riaperse suo padre era già fuggito come un disperato, senza prendere il mantello, tirandosi dietro uno schianto d’usciata, e precipitandosi giù per le scale buie, via, come una maledizione.
E Giulio cadde su d’una sedia, singhiozzando, con il volto nelle mani, mentre la nonna che erasi svegliata, dal suo letto gridava:
— Giulio… Poldo… Gesù, Gesù… Gesù!
Sulla soglia del portone si fermò sconvolto, con i pugni ancora chiusi, soffocato dalla disperazione che pareva gli urlasse nel cervello: «ammàzzati! ammàzzati!». Si fermò un istante, come uno spettro, e poi mosse tra la neve bianca, sferzato dal vento rigidissimo; attraversò la via, la piazza; infilò il ben noto vicolo sudicio, e dalla porticina del retrobottega entrò nel lurido covo, nella «Taverna del Gufo», abbandonandosi seduto in un angolo buio del secondo stanzino, dietro il sottile trammezzo che divideva quello dalla prima sala della «Taverna».
Morire, morire… l’unica via, l’unico scampo! Impossibile sottrarsi alla fatalità del terribile destino! Da tutti odiato, sfuggito, creduto un miserabile! La disgrazia tremenda del furto patito che lo aveva percosso, era un nulla paragonata alle angoscie che ora lo schiacciavano. Maledetta quella ricchezza perduta se per essa gli era tolto l’amore del figlio… Maledetta la vita, il mondo, tutto, tutti! Oh, avrebbe saputo morire, fra i suoi morti! Due tagli di bisturì ed ecco la liberazione, per sempre.
— Sì, sì, vecchio mio – mormorò al taverniere – portami la bottiglia del rhum; fa un freddo da lupi; non senti che freddo?
Venuta l’acquavite bevve, bevve, riandando il passato, smarrendosi a volte in dolcezze di ricordi buoni, a volte in fremiti di rimpianti ed in ire represse di sdegno e di ribellione; poi piegò il capo, ed in ridda le idee ed i pensieri gli tumultuarono nella mente insieme con le risa e le urla degli altri avventori dall’altra parte del sottile trammezzo a vetri sporchi smerigliati: giuocatori, beoni, e sgualdrine.
Restò tranquillo un istante, di quella verde tranquillità onde l’alcool assonna la psiche; quindi sognò ad occhi aperti: una gran pace bianca… bianca come la neve di quella notte senza fine; vide i suoi morti, ma li vide buoni, sorridenti, tutti in fila sui marmi freddi… tanti, tanti, tanti… E così pure vide sè stesso disteso immobile, ignudo, con il rosso vivo delle due ferite, in un lago di sangue. Ma che dolcezza di riposo, non è vero? Un cullarsi vago in un sopore leggèro, morbido, soave…
Ad un tratto sussultò svegliandosi. Chiarissimamente, in modo strano, dall’altra parte dal trammezzo, e vicinissimo, egli aveva udito nominare il ladro… il suo ladro, Sandro Rabbeno…..
Si raggomitolò tremante, chinando più ancora il capo, accostando l’orecchio al sottile assito ed ascoltò.
Non si era ingannato. Una voce di donna, fra il clamore della taverna, aveva biascicato una bestemmia e gridato con voce irosa:
— Finalmente sei giunto, Gigi; ti aspetto da più di un’ora.
— Non ho potuto prima, assolutamente; – e la voce del nuovo arrivato ansava. – Ebbene, dì, e il Rabbeno?
— Mio marito, quel boja, è morto appunto mentre giungevo a San Lazzaro, alle diciannove di stasera: non disse più una parola; lo vidi far quattro smorfie, rantolare e spirare.
— Così, tutto è perduto! – gemette l’altro con voce sorda
— Tutto. Poteva ben parlare prima! Se ripenso ch’egli sapeva dove sono nascoste le trecentomila lire, mi sento invasa da una rabbia tale, che, vedi… andrei a percuotere quel cadavere!
— Zitta, più sottovoce… per carità… Potrebbero udirci.
— Me ne infischio, ora, che mi odano! E dire che sono venuta col diretto, da laggiù, chiamata da lui che finalmente mi voleva confessare ogni cosa! Potevo ben giungere soltanto un’ora prima! Pensa, Gigi, che vita in seguito…
Poldo Ferray che stupefatto aveva udito chiara ogni parola, alzatosi di scatto e risedutosi gesticolando come un folle, sorridendo e gemendo, aveva poi bevuto l’ultimo bicchierino di rhum; e dopo, quando i due si erano messi a parlare pianissimo, – chè la taverna era ormai deserta e silenziosa, – gettata una moneta nel vassoio, passato per l’altra sala guardando fissamente la donna ed il suo compagno, era uscito fuori, nel vicolo, in mezzo alla neve, rincantucciandosi in un angolo buio.
Gli pareva di aver aspettato un secolo allorchè finalmente vide uscire i due, l’uomo e la donna; e li seguì da lungi per vie e per piazze, fin che lei, salutato il compagno, sparì in una viuzza e venne tosto raggiunta dal Ferray che le mormorò alle spalle
— Fermatevi un momento… voglio parlarvi…
— E perchè?
— Non siete voi Lisa Rabbeno? Ho da parlarvi di vostro marito, morto oggi a San Lazzaro.
La donna si fermò di botto, senza voce, aspettando; il suo volto terreo di femmina viziosa parve per un istante esprimere una indicibile paura, e l’altro, accostandosele così da parlarle piano, con voce convulsa continuò:
— Sì, ho proprio bisogno di parlarvi di lui, del ladro Sandro Rabbeno che rubò trecentomila lire a… a certi Ferray… capite?
La moglie del ladro a tutta prima soltanto potè rispondere con un’esclamazione rauca, ma poi, dominato lo sgomento interiore, volle provarsi a negare e mormorò sdegnosa:
— Io, Lisa Rabbeno? O che vi gira, signor mio? Vi siete sbagliato e lasciatemi in pace!
— Ma che, vorreste negare? Ho udito tutto quanto avete detto al vostro Gigi, or ora… Se negate, domani io vado in Questura a raccontare ogni cosa. È meglio per voi non negare, perchè così non andrà perduto l’ingente tesoro. Perchè noi lo riavremo, sapete, a qualunque costo. Che importa se vostro marito non ha parlato prima? Io so che quella ricchezza la riavremo ugualmente… ma siete forte, voi? Siete coraggiosa fino alla temerità? Se sì, venite meco: riavremo tutto, tutto… Non siate diffidente: io non vi denunzierò; invece faremo a metà… Volete venire subito? – e l’aveva afferrata ai polsi, quasi con ira, traendola a sè; ma la donna, riavutasi, cercò istintivamente di svincolarsi mentre domandava:
— E dove mi volete condurre?
— A San Lazzaro… venite, venite.
— A San Lazzaro?! – balbettò la Rabbeno, con angoscia.
— Sì, proprio là; e sapremo tutto. Volete che sia io solo a scoprire il tesoro ed a impadronirmene?
— Il tesoro… quel denaro…! Dio mio… ma chi siete voi?
— Lo saprete; venite, ora; se no, sarà troppo tardi… ogni minuto che passa è una probabilità di meno in nostro favore.
— E sia… andiamo; tanto fa: non ho paura io… ma però non vi capisco. Lui solo sapeva, ed è morto. Volete interrogare qualcuno? Lui, certo, non ha parlato; sarà inutile. E intanto voi sapete!
— Sì, so proprio ogni cosa, e qualcuno parlerà.
Camminavano in fretta e male, un po’ barcollando, sulla neve soffice, nelle vie deserte e silenziose, e non sentivano neanche il freddo crudo che li pungeva. Stettero qualche minuto silenziosi, così che udivano la neve premuta strizzire compatta sotto i loro passi; poi di nuovo Poldo Ferray interrogò:
— Perchè non vi disse mai nulla, prima, vostro marito?
— Era diventato un orso; i lunghi anni di reclusione lo avevano inebetito e poi non voleva rivelare ad alcuno dove aveva nascosto il tesoro, perchè sperava di poterlo riavere per sè solo, un giorno. Così non poteva… era continuamente vigilato.
— E voi vi eravate separata da lui, non è vero?
— Sì, prima ancora ch’egli facesse il colpo; ero stanca. Dopo lo aiutai in ogni modo, pagandogli perfino gli avvocati che lo credevano innocente, perchè speravo… ma invano. Quando uscì di prigione lo vidi più volte, me gli feci ai panni, ognora invano. Anche con me giurò sempre che era innocente… Innocente lui! Ah, come recitava bene la sua parte! In questi ultimi anni io vissi lontano da qui, perchè avevo perduto ogni speranza… Ed ora, sinceramente, come fate voi a saper tutto?
— Dirò, dirò…. rispondetemi ancora: siete certa che se foste giunta in tempo a San Lazzaro vostro marito vi avrebbe rivelato il segreto?
— Certissima, perchè mi fece telegrafare in modo significativo che mi voleva per dirmi ogni cosa.
— Allora siamo salvi.
— Salvi?! Ditemi in che modo, per carità! Mi fate morire d’ansia e di paura.
— Paura? Non dovrete averne; sarete forte, voi. Avete bevuto, or ora, al Gufo? Sì? Non importa, berrete dell’altro. Qualche bicchiere di buon rhum, e… mi aiuterete. Eccoci, siano giunti.
Dopo essere passati dietro il vasto fabbricato dell’ospedale e lungo il muro di cinta, si erano fermati ad una porticina che Poldo Ferray tosto aperse rinchiudendola dopo essere entrato con la donna nel giardino brullo.
— Ed ora, avanti senza timore, – ingiunse lui afferrandola per mano e traendola seco nel biancore semibuio, tra due alte siepi bianche di neve, fino in fondo, passando poi sotto una tettoia, ed arrestandosi dinanzi ad una seconda porticina. – Entreremo qui… è il mio stanzino. – E accese un lume.
La donna, palpitando, guardò in giro lo stanzino freddo: una branda, due seggiole, un armadio, un tavolino e le pareti nude; poi domandò:
— E adesso?
— Adesso, per prima cosa vi prego di parlar sempre pianissimo, che nessuno ci oda; qui sopra è il dormitorio degl’infermieri, e lì, dietro quell’uscio, il deposito d’osservazione.
— Che cos’è? C’è gente? V’è acceso un lume…
— No, non c’è gente… ci sono i morti.
— Ah!
— Zitta, zitta, guardate: – ed aperse l’armadio traendone una bottiglia di rhum ed un bicchiere; – berremo: questo è la forza, la vita; ecco il bicchiere colmo: su, su… bevete, voglio così! – Ed egli pure, messa la bottiglia alle labbra, ne succhiò qualche sorso, avidamente; quindi, con voce rauca, fissando i suoi occhietti ardenti in quelli foschi e spalancati della Rabbeno, continuò:
— Proprio; quello è il deposito di osservazione. Ci sono i morti, lì… certo, anche vostro marito. Ma non farmi scene, ora! Coraggio… vuoi bere ancora? No? Ti dico che non uscirai più da qui fin che non avremo saputo. Verrai anche tu, di là… aspetta, guardo: – e schiuse l’uscio sporgendo il capo e guardando nel deposito illuminato fiocamente da una fiammella a gas, voltandosi poi subito. – Sono in tre, nelle barelle, con il cordone del campanello legato alla mano destra. Caso mai si svegliassero chiamano soccorso. Ebbene: tu mi dirai quale dei tre è tuo marito.
— No, no… è meglio che mi lasciate andare… io non voglio più vederlo, morto…
— Ma che! Devi venire per forza! Vedrai: farò io. E le trecentomila lire? E tu credevi che tutto fosse perduto! Ah, so molte cose, io! Da più di dieci anni sono qui, a San Lazzaro; ed i primi cinque, prima che mi rovinassi con l’acquavite, li passai inserviente di fiducia dei migliori chirurgi. Adesso, invece, sono fra gli ultimi servitori e di notte faccio il barbiere dei morti. Sicuro; io li rado sempre con diligenza; poi li lavo, li liscio, e li faccio tanto belli e puliti, che sembrano di avorio levigato. Sì, sono proprio belli i miei morti; e buoni, e docili… Non fanno male, credimi. E tu non vorresti più? Brava…! To’, eccoti ancora un bicchiere di rhum! così… adesso ti senti meglio in forze, non è vero?
— Sì… non ho più tanta paura… ma se voleste entrare voi solo, lì dentro… io starei qui… – scongiurò ancora lei, ma più debolmente, già in preda ad un principio di ubbriachezza che le saliva ardente al cervello, che le toglieva poco a poco la percezione giusta delle cose che le stavano intorno; e poi, via via, riluttante ancora e pur bramosa di volere, di farsi vedere forte, con uno strano bisogno di sfidare tutti e tutto, afferrata al braccio di Poldo, lo seguì nell’altra stanza, uno stanzone lungo; e con la mano tesa gli mostrò là, nell’angolo di sinistra, nella terza barella, suo marito… Avea le braccia nude e scarne, in croce; un volto bianco, due occhiaie brune e la barba nera.
— È lui: non mi fa più paura. Che cosa gli vuoi fare, tu? È ben morto, ora. Ma senti… copri il volto degli altri due: quelli non li conosco…
— Sta zitta, non dir più nulla. Lì, nell’altra sala, ho da prendere quanto mi occorre: è la sala anatomica. Vieni pure; così non starai sola… Ma ti prego, non far rumore.
Entrarono nell’attigua sala, semibuia per lo scarso barlume che veniva dal deposito d’osservazione; da un grande armadio il barbiere dei morti prese due coltri, una boccetta rossa, un vasetto ed una grossa busta di ferri chirurgici, mentre lei, incosciente, intravvedeva sulle bianche tavole di marmo le povere membra umane sezionate, rosse di sangue; le intravvedeva in confuso, indistinte, come in sogno.
Ritornati nel deposito accanto alla terza barella nell’angolo, la moglie del ladro ebbe un sussulto e riprese a parlare, nervosa, a scatti brevi, soggiogata da una smania irresistibile di udire la propria voce, mentre Poldo Ferray, scoperto il cadavere fino ai lombi e slegatogli dalla mano destra il cordone del campanello, gli palpava il torace, il ventre, i lombi…
— C’è ancora molto calore, più di quanto avrei creduto, – mormorò interrompendo il cicalìo febbrile della Rabbeno. – Tu mi aiuterai: gli trapano il cranio, sopra la faccia posteriore del bulbo, come se volessi estirpargli un ascesso intercerebrale… Me ne intendo, io! Vedi, ne so più di tutti insieme i chirurghi di questo ospedale. Tanto è vero che essi hanno sempre creduto e continuano a credere che l’agonizzante muoia subito quando spira. Invece non sanno che il cadavere, dopo, vive ancora dieci, dodici ore, fin che in esso rimane traccia di calore… Ah, ah! Quando affermai la cosa a due bravi dottori, risero tanto! Un folle, io; uno squilibrato alcoolista, uno scimunito mezzo matto e peggio…
La Rabbeno, che aveva cessato di parlare, erasi piegata sopra la barella, ansando, in un doloroso tormento di ricordi e di pensieri, in una visione di sangue e di denaro, in una nebbia torbida e tremula che la obbligò, per un momento, a chiudere gli occhi.
Ma li riaperse tosto balbettando:
— Chi è che parla? Ah, non è lui… sei tu! –
— Tieni questo. – E finita la trapanazione, rimesso il morto supino e dato alla donna il vasetto da tenere in mano, in esso umettò le dita cominciando un vigoroso massaggio all’estinto: un massaggio lungo, febbrile, senza posa, al tronco, agli arti, al collo, alla gola; gli aperse la bocca a viva forza versandogli dentro il contenuto della boccetta rossa; e ciò fatto lo avvolse ben bene fra le due coltri di lana, lasciandogli fuori soltanto il capo e le braccia.
— A te, ora, – ingiunse alla Rabbeno; – afferralo ai polsi, senza tema, così; alzagli ed abbassagli le braccia, in fretta, con forza… Ma non puoi… barcolli… Farò io, ancora una volta. Tienti almeno su; e sta attenta! Ora dovrai udire… bisogna che egli ti veda, se no non dirà nulla.
— Fa presto, non ne posso più… guarda come tutto è rosso… oh, quel denaro… Anche Gigi sa tutto… anche lui, vuole… ma fa presto… fa…
— Vuoi tacere? Vedi che l’ho riscaldato bene… Inginòcchiati qui, che ti veda subito… io sarò dietro… ecco, ecco.
Mentre ella cadeva ginocchioni, ormai inebetita e quasi incosciente, fissando il morto marito negli occhi semiaperti, vitrei, Poldo Ferray, passato di dietro gli sollevava il capo, tenendolo sù; poi lo stropicciò forte alle tempie ed alla gola per qualche minuto, gli afferrò la lingua, fuori dai denti, torcendogliela, e finalmente premette un istante col dito il punto vivo dell’encefalo, il nodo vitale.
Un fremito, un rantolo, una inspirazione larga e rumorosa ed il morto spalancò gli occhi, fissi, vitali, paurosi… e la Rabbeno gemette, emise un grido rauco, soffocato; quindi piegossi in avanti, con il sudore freddo che le bagnava la fronte, e balbettò:
— Tu, tu… Sandro! Sei tu… sono venuta… mi riconosci? Sono Lisa, Lisa… tua moglie… dimmi…
La bocca del risuscitato si schiuse, le sue labbra si mossero lievemente, ma nessun suono gli uscì dalle fauci… e dilatò gli occhi smisuratamente, come in preda ad uno spavento indicibile.
— Di’, di’, Sandro… sono io… voglio sapere… il tesoro… le trecentomila lire… ti farò vivere… non morirai più…
La bocca del ladro si aperse ancora una volta, le sue labbra tremarono, un gorgogliare sommesso gli uscì dalla strozza, ed insieme con un singhiozzo chioccio, orribile, disse una parola, una sola parola:
— … La forbice…
— Hai detto? Ancora, ancora…
Non più una respirazione, un moto, un’ombra di vita; quella bocca si richiuse, per sempre; quegli occhi ritornarono vitrei, fissi; quella testa si piegò, morta… Ma si erse viva e fremente quella di Poldo Ferray; i suoi occhi scintillarono e la sua bocca per poco non si aperse ad un grido furioso… mentre la Rabbeno, sfatta dall’alcool e dalla tremenda emozione, si raggomitolava svenuta sul pavimento.
In fretta ed in furia, ogni cosa a suo posto e il morto riacconciato come prima, dopo un altro sorso di rhum il barbiere dei morti trascinò fuori la vedova del ladro, che allo sferzare della raffica gelata e del nevischio ebbe un ultimo barlume di luce nell’anima e singhiozzò:
— Non disse niente… proprio niente… ah, soltanto: la forbice, la forbice! Una cosa atroce… e adesso… Ma guarda, guarda che buio… e si va giù, giù… – e completamente inerte cascò tra le braccia del Ferray, che ansando la trasse fuori dal giardino, nella strada, e la trascinò come un folle, fino ai gradini della vicina chiesa di S. Felice, sotto l’atrio, fra le colonne; e lì, distesa sul lastrico, l’abbandonò senza più voltarsi, correndo come un pazzo sul marciapiedi, scivolando ad ogni tratto e tenendosi ai muri, ripetendo forte, a sè stesso;
— Sicuro; ella crederà di aver sognato, ed a San Lazzaro non sapranno nulla… Chi potrà anche solo immaginare la bella operazione compiuta dall’ignorante ed ubbriacone barbiere dei morti? – E sempre barelloni ed a sghimbescio, continuando a parlar forte in quel silenzio bianco di neve, giunse al portone di casa; ed apertolo, urtando contro i muri e contro la ringhiera, a tentoni giunse alle soffitte, dinanzi al suo uscio, e picchiò forte.
Il figlio, svegliatosi di botto, infilò lesto i calzoni e venne ad aprire con la candela accesa in mano, ma indietreggiò raccapricciando come dinanzi ad una macabra apparizione.
— Giulio, Giulio, ci sono, vedrai! Ah, che gioia, che gioia! E mi aiuti, non è vero? Faremo insieme, sì. Ma chiudi l’uscio, che nessuno entri… Un martello, un ferro qualunque…
— Babbo, babbo, che cosa ti è accaduto? – balbettò infine Giulio, pallidissimo. – Oh, in che stato sei! Ritorna in te…! Io ti domando perdono… senti, te lo giuro…
— Che! Tu mi crederesti ubbriaco? Questa volta no. Io so: la forbice, capisci? La forbice! È qui, vieni….. qui. – E brancicando, tenendosi ai mobili, seguìto da Giulio si trascinò nel secondo stanzino, sotto la finestrella, dove la trave maestra, più grossa, correva a sostegno del tetto inclinato. In quel tratto, là, dov’era scalcinato e nudo il legno greggio, appariva, intagliata rozzamente a piccolo rilievo, una forbice…
— Vedi anche tu la forbice, non è vero? – E con le mani tremanti, la toccò, la premè, tastando poi in lungo ed in largo la robusta trave, con moti febbrili, senza posa, intanto che Giulio, con la candela accesa in mano, spalancando gli occhi e rabbrividendo, si chiedeva se quella fosse una realtà od un sogno…
— Ah, ci siamo, ci siamo! Quà la candela… vedi, vedi questa impercettibile fessura? – continuò il barbiere dei morti strisciandovi l’indice sopra. – E il martello? Piglialo, su, presto; piglia anche gli altri ferri, tutti, tutti.
— No, lascia, babbo… farai domani… ora, vedi…
— Tu non vuoi?! Voglio io! – gridò veemente, stringendo i pugni chiusi; e Giulio obbedì subito, per forza, come un automa, gemendo; trovò la cassetta dei ferri, la recò al babbo, e questi, posata la candela sul tavolo, menando con ira furiosa il martello, scalcinò in breve un altro tratto della trave. Non aveva quasi più la forza di tenersi in piedi, vinto da un’indomabile foga di distruzione; ed i colpi risonavano incessanti, sonori o cupi, nel silenzio della notte, così che la vecchia Ferray, la nonna, svegliatasi impaurita ed avvoltasi in uno scialle, scese a vedere, spalancando l’uscio.
— Poldo, Poldo… Giulio… che cosa fate? – gridò giungendo le mani.
Poldo, che ora aveva abbandonato il martello e dato di piglio ad una leva di ferro sottile e robusta, parve non avere udito. Giulio, invece, come a sfogo balzò pronto ad abbracciare la nonna per ricondurla a letto, mentre le susurrava disperato:
— Guarda, guarda, buon Dio… è una disgrazia terribile… sembra impazzito! Ed ho paura… ho, nonna, nonna!… ho paura di essere stato io a farlo impazzire!
La vecchia singhiozzò, e svincolatasi corse presso il figlio, afferrandolo per un braccio, subito respinta da lui che madido di sudore continuava nella sua demolizione irruente.
— Indietro anche tu, mamma… E dire che questa forbice la ho guardata tante volte, come un imbecille, senza mai capirne nulla… Lasciami, dico… ah, ecco, ecco, cede… si scardina… gran Dio! Qui, qui, Giulio; aiutami a far leva, a schiantare… guarda!
Il giovane, fremendo, vide tutta la parte scoperta della trave muoversi, in linea quadra, quasi un cassetto fosse per balzarne fuori… Intuì, e slanciatosi sul ferro, sulla leva, premette, si piegò con forza, puntò i garretti, e dalla trave sventrata caddero pacchi, borse, monete, carte, gioielli: una pioggia improvvisa di ricchezze e di felicità.
Il barbiere dei morti die’ un urlo e si buttò ginocchioni, annaspando sul tesoro, piangendo; Giulio, ancora con la leva in mano, restò come impietrito dinanzi a quella visione di future vittorie; e la nonna, povera vecchia, alzando le mani al soffitto, balbettò rapita:
— Gesù, Gesù, Gesù…!
Fine.
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TITOLO: La forbice di legno
AUTORE: Carlo Dadone
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: La forbice di legno / di Carlo Dadone. - Nuova ed. economica. - Milano : F.lli Treves, 1911. - 229 p. ; 20 cm. - (Biblioteca amena ; 817).
SOGGETTO: FIC015000 FICTION / Horror