La farfalla
di
H. G. Wells
tempo di lettura: 17 minuti
Voi avrete molto probabilmente inteso parlare di Hapley, non già di W. T. Hapley il figlio; ma del celebre Hapley del Periplaneta Haplia, Hapley l’entomologo. Se è così, voi conoscerete almeno la grande questione che si sollevò fra Hapley e il prof. Pawkins.
Nonostante, la conseguenza di tale questione vi riuscirà certamente nuova. Per coloro che non fossero al corrente, due parole di spiegazione sono forse necessarie. Il lettore pigro le percorrerà d’un rapido sguardo se pure la sua indolenza glielo consiglierà. È strano dover constatare come sia poco conosciuto un fatto così importante come la disputa fra Hapley e Pawkins! Ancora una volta, queste controversie che fanno epoca e che hanno agitato il seno della Società di Geologia sono, io credo, quasi completamente sconosciute al di fuori dei membri della Società. Io ho udito degli uomini, anche dotati di una coltura generale, fare allusione alla grande scena di questo incontro, come se si fosse trattato di un semplice battibecco tra fabbricanti.
E per tanto questo grande odio reciproco di geologi inglesi e scozzesi dura da un mezzo secolo e, come dicono i giornalisti, «ha lasciato nella scienza traccie numerose e profonde». Orbene, Hapley e Pawkins hanno sollevato passioni assai profonde. Il profano non ha un’idea dell’ardore che può animare un dotto ed un cercatore, del furore di contraddizione che può risvegliarsi in lui, e sotto una forma novella: odium theologicum.
Vi sono delle persone, per esempio, che vedrebbero con somma gioia arrostire il prof. Ray Lankester a Smithfield per il modo col quale ha trattato i molluschi nella sua enciclopedia. Questa fantastica estensione data al gruppo dei Cefalopodi per cercare di conglobarvi gli Steropodi…. Ma mi accorgo che mi allontano dalla storia di Hapley e Pawkins.
Essa cominciò molti e molti anni fa, in seguito ad una classificazione dei microlepidotteri (dei quali io non voglio dir niente) fatta da Pawkins, nella quale egli citava come scomparsa una nuova specie scoperta da Hapley. Questi, molto focoso, rispose con una pungente critica dell’intera classificazione di Pawkins, e Pawkins nella sua risposta fece comprendere che il microscopio di Hapley doveva essere tanto deficiente quanto la sua facoltà d’osservazione, e chiamò il suo avversario un confusionario irresponsabile. A quell’epoca Hapley non era ancora professore. Hapley nella sua risposta parlò di «certi compilatori sventati» e qualificò, come per inavvertenza, di miracolo di ignoranza la classificazione di Pawkins.
Cominciò allora la guerra a coltello.
Tuttavia per chi ci legge sarebbe di scarso interesse il conoscere i particolari della lotta di questi grandi uomini, e il modo come la questione si allargò, al punto che, separati da principio dalla questione dei Microlepidotteri, vennero in seguito a battersi su tutte le questioni rimaste sospese in entomologia. Furonvi realmente delle circostanze memorabili. Si può dire, senza tema di esagerare, che qualche volta nulla parve più rassomigliante ad una discussione alla Camera dei Deputati, delle riunioni della Società Reale d’Entomologia.
Ma io credo che Pawkins fosse più vicino di Hapley alla verità. Hapley però era un bel parlatore, maneggiava l’ironia con un’abilità rara in uno scienziato, era dotato di una grande energia ed aveva sentito assai vivamente l’ingiuria fattagli di considerare come scomparsa una delle «sue» specie.
Pawkins invece era un uomo di poca presenza. Il suo discorso era noioso e di forma assai somigliante a quella di un barile; coscienzioso all’eccesso nelle testimonianze, e sospetto di trafficare sulle nomine del Museo; cosicchè i giovani si affollavano intorno ad Hapley per applaudirlo. Fu una lunga lotta aspra fin dal principio ed esasperantesi alla fine, sino a raggiungere un accanimento senza pietà. Le diverse alternative, vantaggi da un lato, vantaggi dall’altro, oppure Hapley seccato da qualche vittoria avuta da Pawkins, o invece Pawkins eclissato da Hapley, tutto ciò appartiene più alla storia dell’entomologia che a questo racconto.
***
Nel 1891 Pawkins, la cui salute da qualche tempo era cagionevole, pubblicò un lavoro sul «mesoblast» della farfalla a testa di morto. Ciò che sia il «mesoblast» della farfalla a testa di morto non c’interessa pel momento. Ma il merito di questo lavoro fu ben inferiore, e fornì a Hapley un’occasione che questi desiderava da anni.
Egli deve aver lavorato notte e giorno per trarne il miglior partito.
In un resoconto critico assai accurato egli ridusse Pawkins addirittura a pezzi. Si può immaginarlo co’ suoi capelli neri in disordine, figgente sull’avversario i suoi occhi neri lancianti strani bagliori. Pawkins fece una risposta incerta e senza importanza che fu accolta con silenzî penosi, ma pur malevoli. Nessun dubbio possibile sulla sua intenzione di colpire Hapley, nè sulla sua impotenza a riuscirvi. Solo poche delle persone che lo udirono – io non assistevo a quella seduta, – indovinarono come quell’uomo era ammalato.
Hapley aveva atterrato il suo nemico: volle anche finirlo. Continuò con un attacco semplicemente brutale contro Pawkins, sotto la forma di uno studio che attestava fino all’evidenza un cumulo affatto straordinario di lavoro mentale, benchè redatto nello stile della polemica più violenta. Per quanto violenta essa fosse, era ancora attenuata, almeno così pretendeva di far credere in una sua annotazione. Pawkins doveva essere coperto di vergogna e di confusione. Hapley non gli lasciava la menoma scappatoia, le sue argomentazioni uccidevano e la sua voce non poteva essere più sprezzante. Fu un colpo schiacciante per un uomo giunto alle ultime tappe della sua carriera!
Gli entomologi aspettavano impazienti la risposta di Pawkins. Questi ne volle tentar una, egli che non aveva mai indietreggiato: ma quando essa apparve, cagionò una generale sorpresa. La risposta di Pawkins fu: ammalare d’influenza, prendere in seguito una polmonite e poscia morire!
Forse era la risposta più efficace che potesse dare in tali circostanze, perchè essa rivolse l’opinione pubblica completamente contro Hapley. Coloro stessi che avevano applaudito con gioia al combattimento di questi moderni gladiatori, diventarono muti dinanzi all’esito della lotta.
Non era da dubitare che il dolore della sconfitta avesse contribuito alla morte di Pawkins. Anche nelle discussioni scientifiche eravi o doveva esservi un limite, soggiungevano le persone serie.
Un altro attacco schiacciante era in corso di stampa ed apparve alla vigilia dei funerali. Non credo che Hapley abbia cercato di impedirne la pubblicazione. Il pubblico non aveva dimenticato con quale ardore Hapley aveva inseguito il suo rivale, e scordò i difetti del rivale. La satira inasprita si spiegava malamente su una tomba chiusa da poco tempo. Il fatto provocò varî commenti nei giornali quotidiani, ed è appunto per ciò che io ho creduto che voi conosceste la storia della disputa di Hapley.
Ma, come ho accennato, gli scienziati vivono in un ambiente molto limitato, ed io credo infatti che la metà degli oziosi che passano tutto l’anno da Piccadilly all’Accademia non sappiano dirvi dove hanno sede le società scientifiche. Molti fra costoro stessi pensano che il laboratorio di ricerche scientifiche sia una specie di comoda gabbia dove molte persone dormono tranquillamente!
Certamente Hapley non poteva nelle sue riflessioni personali scordare la morte di Pawkins. Da principio questa morte era stata per Pawkins un mezzo vigliacco per sfuggire agli schiaccianti argomenti che Hapley manovrava contro di lui; ma in seguito lasciava uno strano vuoto nello spirito di Hapley.
Per vent’anni egli aveva lavorato con accanimento, talvolta fino a notte avanzata e sempre sette giorni per settimane, col microscopio, scalpello, penna, rete per farfalle, e tatto ciò quasi unicamente per tener fronte a Pawkins. La fama ch’egli si acquistò in Europa gli venne dal corso di questa grande polemica senza che vi pensasse. In quest’ultima disputa egli era esausto dall’eccessivo lavoro; ciò che aveva ucciso Pawkins aveva nello stesso tempo anche sfinito Hapley, ed il suo medico gli consigliò di abbandonare per qualche tempo qualsiasi lavoro e di riposarsi. Hapley si ritirò dunque in un tranquillo villaggio di Kent, dove pensava giorno e notte a Pawkins. Ora non abbiamo più nulla da dire su quest’ultimo.
Infine Hapley comprese a quale fine tendevano le sue preoccupazioni, risolse di sfuggirle e cominciò a provare a leggere dei romanzi, ma non riuscì a stornare i suoi pensieri da Pawkins che gli appariva pallido in volto, pronunciando il suo ultimo discorso, quel discorso del quale ogni pensiero aveva dato a Hapley l’occasione di un successo. Ritornò alle finzioni del romanzo per accertarsi che esse non avevano alcuna influenza su lui: lesse le «distrazioni delle notti d’Islanda» fino a che la sua ragione fu scossa oltre ogni limite dalla storia del diavolo dentro una bottiglia. Allora passò a leggere Rudyard Kipling e trovò che «non provava niente», senza considerare inoltre che esso era irriverente e volgare. Questi scienziati hanno le loro esigenze particolari. Poi provò a leggere per disgrazia: «L’intimo di casa» di Anna Besant: il primo capitolo lo riavvicinò alla Società di Scienziati e una volta di più a Pawkins.
Hapley ricorse al gioco degli scacchi: era un trattenimento un po’ più calmo della lettura. Apprese in breve tempo a fare le mosse dei pezzi; le principali combinazioni, le regole sulle posizioni da prendere; e cominciò a vincere persino il Pastore. Ma presto anche la rotonda forma del Re avversario evocò a’ suoi occhi un Pawkins che cercava inutilmente di essere scaccomatto. Hapley risolse di rinunciare anche agli scacchi. Forse, dopo tutto, l’applicarsi a qualche nuova scienza sarebbe stato per lui una migliore distrazione. Non vi è miglior riposo per lo spirito che il cambiamento di occupazione.
Hapley decise di tuffarsi nel mondo degli esseri infinitamente piccoli; fece venire da Londra uno de’ suoi piccoli microscopi e la monografia di Halibut. Egli pensava che se avesse potuto impegnare con Halibut una violenta polemica, sarebbe forse riuscito a ricominciare una vita più bella e a dimenticare Pawkins. Si mise tosto all’opera, e coll’ardore e l’energia che erano nel suo carattere, applicò i suoi studî ai microscopici abitatori dei ruscelli. Fu al terzo giorno de’ suoi studî che scoprì un’aggiunta da fare alla fauna locale.
Stava lavorando a tarda ora al microscopio; la sua camera era illuminata soltanto dalla luce di una piccola lampada munita d’un paralume di forma speciale. Come tutti i provetti osservatori, egli teneva aperti entrambi gli occhi. È il solo modo di evitare una fatica eccessiva: un occhio era poggiato sullo strumento e guardava sul chiaro e brillante campo circolare del microscopio, in mezzo al quale si agitava dolcemente un microbo di colore scuro; coll’altro occhio vedeva senza osservarenota 1.
Egli non poteva scorgere altro, fuori della parete in rame dello strumento, dalla parte del tappeto della tavola, che un pezzo di carta per annotazioni ed il piedestallo della lampada. Ad un tratto la sua attenzione passò da un occhio all’altro. Il tappeto della tavola, fatto di quella stoffa chiamata dai negozianti tappezzeria, era di colore assai vivo. Il disegno era di un giallo oro con una piccola quantità di rosso e di azzurro pallido su un fondo grigiastro; ed in un punto pareva che il disegno si agitasse come se i colori avessero un movimento di vibrazione. Hapley alzò la testa e guardò con entrambi gli occhi; la sua bocca si spalancò dallo stupore. Era un’enorme falena, le cui ali si spiegavano come quelle d’una farfalla. Ciò che era strano era come tale bestia si potesse trovar là, perchè le finestre erano chiuse. Strano che essa non avesse attratto l’attenzione svolazzando prima di posarsi sul tavolo; strano anche che essa risaltasse in tal modo sul tappeto; e ben più strano che essa fosse per lui, Hapley il grande entomologo, affatto sconosciuta!
Tuttavia, nessuna illusione. Essa era là, e piano piano si aggrappava al piedestallo della lampada.
— Un genere nuovo! Sapristì! Ed in Inghilterra! – esclamò Hapley cogli occhi spalancati.
Immediatamente pensò a Pawkins; nient’altro avrebbe potuto far stizzire di più Pawkins…. e Pawkins era morto!
Ed era qualcosa in merito alla testa ed al corpo di questo insetto che costringeva a pensare particolarmente a Pawkins, precisamente come prima il Re del gioco degli scacchi.
— Al diavolo Pawkins! È necessario che io acchiappi la farfalla!
E cercando intorno qualche mezzo per poterla catturare, Hapley si alzò dalla sedia cautamente. Ad un tratto l’insetto spiccò un volo, colpì contro il paralume (Hapley udì il colpo) e sparì nell’oscurità. In un batter d’occhio Hapley tolse il paralume dalla lampada e tutta la camera fu rischiarata. La farfalla era scomparsa, ma ben tosto Hapley, coi suoi occhi abituati, la scorse sulla tappezzeria vicino alla porta. Si avvicinò accostando con precauzione il paralume per catturarla; ma prima che egli fosse alla portata per colpirla, essa aveva nuovamente spiccato il volo e batteva le ali contro le pareti della camera. Volava secondo le caratteristiche di questa specie di insetti; uno slancio impetuoso per ritornare su sè stessa e sparire in un punto per ricomparire in un altro. Vi fu un momento in cui Hapley credette di averla acchiappata, ma il colpo gli fallì. La caccia continuava. Al terzo tentativo Hapley urtò il microscopio: questo si rovesciò, e dopo aver a sua volta urtato e capovolto la lampada, cadde sul pavimento con grande rumore. La lampada si capovolse e fortunatamente si spense. Hapley rimase allo scuro. Sentiva trasalendo che la farfalla gli percoteva il volto. C’era da impazzire! Non vi erano lumi! Se egli apriva la porta, l’insetto sarebbe fuggito. Nell’oscurità vide chiaramente Pawkins ridere di lui. Pawkins ebbe sempre un riso placido. Hapley bestemmiava furiosamente e pestava i piedi sul pavimento. A un tratto udì picchiare leggermente all’uscio; questo si aperse o meglio si socchiuse lentamente. La figura spaventata della padrona di casa apparve dietro la rosea fiamma di una candela.
— Che chiasso! – diss’ella, – è accaduto qualcosa?…
In questo momento la straordinaria farfalla venne a svolazzare vicino alla porta socchiusa.
— Chiudete! chiudete quella porta! – gridò Hapley.
E si precipitò sulla padrona di casa.
La porta fu chiusa con violenza, e Hapley si trovò nuovamente nell’oscurità. Nel silenzio intese la padrona discendere frettolosamente le scale, chiudere una porta e trascinare per la stanza qualche mobile pesante per barricare l’uscio.
Hapley capì che il suo volto doveva essere apparso strano e la sua condotta allarmante.
Al diavolo questa falena! E Pawkins con lei!
Tuttavia era un peccato perdere questo insetto. Andò a tastoni nell’anticamera e posò la mano sui fiammiferi, facendo cadere il suo cappello che rotolò per terra con un rumore simile al rullo del tamburo. Con la candela accesa ritornò nel salotto. La farfalla non c’era più! Un momento dopo gli parve che essa svolazzasse sulla sua testa. Hapley decise bruscamente di rinunziarvi e di andare a letto. Ma era eccitato oltre ogni dire. Tutta la notte il suo sogno fu turbato da incubi dove passavano la falena, Pawkins e la padrona di casa. Due volte scese dal letto e tuffò la testa nell’acqua fredda. Una cosa gli era assai chiara. La padrona non potrebbe comprendere la storia della straordinaria farfalla, sopratutto perchè egli non era riuscito ad appropriarsene. Solamente un entomologo avrebbe potuto comprendere quanto egli aveva provato. Ella sarebbe stata spaventata del suo modo di agire; ciò non ostante egli non trovava il mezzo di spiegarglielo.
Risolse di non parlare degli avvenimenti della sera antecedente.
Nel dopopranzo vide la padrona nel giardino e decise di andare a parlarle per assicurarla sul proprio stato. Le parlò dei fagioli, delle patate, delle api, dei bruchi, del prezzo delle frutta. Ella rispondeva col suo tono usuale, ma lo guardava, con un po’ di diffidenza; camminava insieme con lui, ma in modo di lasciar sempre fra loro o un cespuglio di fiori o un filare di fagioli.
La farfalla, portando seco come una specie di odore di Pawkins, l’accompagnò in questa passeggiata, quantunque egli facesse del suo meglio per distogliersela dalla mente. Ad un tratto la vide assai nettamente, le ali tese, sull’antico muro che circonda il parco; ma avvicinandosi riconobbe che trattavasi soltanto di due pezzetti di lichene grigio e giallo.
— Questa è l’ironia della illusione frequente. Invece di essere una farfalla somigliante ad una pietra, è una pietra che fa perfettamente l’effetto di una farfalla.
Nel pomeriggio Hapley andò dal Pastore e discusse con lui su questioni di teologia. Stavano seduti sotto un pergolato coperto di rovi, e fumavano discutendo.
— Guardate quella farfalla, – esclamò Hapley ad un tratto additando l’orlo della tavola di legno.
— Dove?
— Non vedete voi una farfalla là sull’orlo della tavola?
— No certo.
Hapley era atterrito. Respirava appena. Il Pastore lo guardava senza capire. Evidentemente lui non vedeva niente.
— Gli occhi della fede non sono migliori di quelli della scienza, – aggiunse distrattamente Hapley.
— Non comprendo a che cosa vogliate alludere, – replicò il Pastore, che credette essere questa sentenza riferita all’argomento.
Quella notte Hapley scorse la farfalla aggrappantesi sul suo copripiedi. Sedette sull’orlo del letto e ragionò fra sè:
— È un’allucinazione?
Conobbe che vaneggiava e si sforzò di riconquistare la ragione colla stessa energia muta che l’aveva sorretto prima nella sua lotta contro Pawkins. Le abitudini mentali sono così persistenti, che ancora gli sembrava di essere alle prese con Pawkins. Molto profondo in psicologia, egli sapeva che le allucinazioni sono le conseguenze dell’eccessiva fatica dell’intelletto. Tuttavia non solo egli aveva vista la falena, ma l’aveva udita quando aveva urtato contro l’orlo del suo paralume, e più tardi quando aveva urtato contro il muro della sala; e l’aveva sentita quando essa lo aveva colpito nell’oscurità. Guardò la farfalla; non si trattava completamente di un sogno; l’animale era proprio là reale, visibile alla luce della candela. Egli vide il suo corpo vellutato, le sue corte antenne leggere, le zampine articolate, come pure una parte del dorso dove il leggero pelo era stato tolto dall’ala. Si adirò contro sè stesso e si rimproverò di aver paura di un piccolo insetto.
Quella notte la padrona fece venire nella sua camera la serva perchè non era troppo rassicurata di trovarsi sola. Inoltre si era rinchiusa a chiave e aveva messo l’armadio davanti la porta.
Dopo essersi coricate entrambe, tesero le orecchie e non parlarono che sommessamente; ma nessun rumore ebbe a disturbarle. Verso le undici si arrischiarono a spegnere la candela, indi si addormentarono. Furono svegliate di soprassalto, si alzarono sul letto e stettero ascoltando nell’oscurità.
Udirono dei piedi calzati di pantofole andare e venire nella camera di Hapley; una sedia fu rovesciata; un forte colpo fu picchiato sul muro; poi un oggetto di porcellana che stava sul caminetto si spezzò contro il paraceneri. Ad un tratto la porta della camera s’aprì, ed esse intesero Hapley uscire sul pianerottolo.
Si strinsero l’una accanto all’altra tremanti. Pareva che Hapley ballasse sulle scale. Discese a tre o quattro gradini per volta, poscia risalì, precipitandosi nell’anticamera. Udirono spingere con violenza la porta, mandando per aria il portaombrelli e fracassando il ventilatore.
Quindi fu tirato il chiavistello, e la catena stridette. Stava aprendo la porta.
Le due donne corsero alla finestra. Era notte grigia, si vedeva la luna come attraverso un velo quasi ininterrotto di nubi acquose; la siepe e gli alberi dirimpetto alla casa parevano neri pel contrasto col chiarore della strada.
Videro Hapley in camicia e pantaloni bianchi andare e venire per la strada come uno spettro, agitando le braccia. Talvolta si fermava, poi si slanciava prontamente su qualcosa d’invisibile; tal’altra volta procedeva a passi cauti. Infine svoltò in fondo alla strada in direzione della luna. Poi mentre le donne discutevano quale delle due sarebbe andata a chiudere la porta, egli ricomparve. Camminava velocemente. Rientrò in casa, chiuse la porta con precauzione e se ne andò tranquillamente nella sua camera da letto. Allora tutto ridivenne silenzio.
***
— Signora Colville, – disse Hapley l’indomani chiamandola sulle scale, – spero che non vi sarete mica spaventata stanotte.
— Oh! signore!
— Il fatto si è che io sono sonnambulo, e le due notti scorse non ho preso il mio solito calmante. Veramente non c’era nulla che potesse allarmarvi. Sono davvero mortificato di essere stato così sciocco! Vado subito a Shoreham, dall’altra parte della duna, a comprarmi qualche medicina che mi faccia dormire profondamente. L’avrei già dovuto fare ieri.
Partì, ma a metà strada, sulla duna, vicino alla cava di pietra gli venne in mente la farfalla; proseguì la sua strada sforzandosi di pensare soltanto alle difficoltà del giuoco degli scacchi, ma non vi riuscì affatto. La farfalla svolazzava contro il suo viso e dovette difendersi ripetutamente col cappello. Allora la collera, l’antica collera che aveva sfogata tante volte contro Pawkins, si impossessò nuovamente di lui. Continuò la sua strada saltando per colpire l’insetto che svolazzava. Finalmente cadde disteso per terra. Vi fu una lacuna nelle sensazioni di Hapley dopo che si trovò coricato su un mucchio di pietre davanti la porta della cava con una gamba ritorta sotto il corpo.
La prodigiosa farfalla stava sempre là a svolazzargli intorno alla testa.
Allungò la mano, e voltandosi scorse due uomini che gli si avvicinavano. Uno di essi era il medico del villaggio.
— È una fortuna, – pensò Hapley; ma gli venne in mente con straordinaria prontezza che nessun altro dovesse riuscire a vedere la strana farfalla, ed era dunque meglio non parlarne. Nella notte però, dopo che gli fu rimessa a posto la gamba slogata, ebbe la febbre e si dimenticò ciò che si era imposto. Steso sul letto, girò intorno lo sguardo nella sua camera per cercare la farfalla. Essa era ancora là. Provò a non pensarvi, ma invano. Bentosto scorse l’insetto appoggiato sulla sua mano destra vicino alla lampada da notte, sul tappeto verde. Le ali sbattevano con un brusco movimento: le diede un pugno. L’infermiere si svegliò cacciando un grido. Egli aveva di nuovo mancato al suo scopo.
— Maledetta falena, – diss’egli, – sempre illusione! Non è niente.
Vedeva chiaramente l’insetto svolazzare verso la cornice e volare attraverso la camera; ma vedeva pure che il suo infermiere, non scorgendo nulla, lo osservava stranamente. Bisognava sapersi contenere. Sentì che era perduto se non riusciva a meglio comandarsi. Ma verso il finir della notte la febbre lo riprese e il solo timore di rivedere la farfalla fece sì che la rivide. Verso le cinque, all’apparire del giorno, volle scendere dal letto per acchiapparla malgrado gli dolesse la gamba. L’infermiere dovette lottare con lui per trattenerlo. Per maggior precauzione lo si legò al suo materasso. Ma allora la farfalla prese maggior animo, e ad un tratto egli se la sentì nei capelli. Si diede dei forti pugni alla testa e gli si dovette legare anche le mani. Allora la farfalla venne a posarsi sul suo naso. Hapley pianse, bestemmiò, gridò, supplicò che l’acchiappassero, ma tutto fu inutile. Il medico era un praticante alquanto stupido, senza grande competenza di tutto il resto, e affatto estraneo alle malattie mentali. Dichiarò semplicemente che non vi era alcuna farfalla. Se avesse avuto un po’ di spirito, forse avrebbe potuto salvare Hapley secondando le sue allucinazioni e coprendogli il volto con una garza sottile appunto come lui chiedeva. Ma come ho detto, quell’uomo era un imbecille, e Hapley fino a che fu guarito rimase legato al letto colla sua farfalla immaginaria davanti agli occhi. Durante le ore di veglia l’insetto non lo lasciava un solo istante, nel sonno prendeva le proporzioni di un mostro. Quando il disgraziato era sveglio invocava con pazienza il sonno, quando dormiva si alzava di soprassalto gridando.
In breve, Hapley vive i suoi ultimi giorni in una camera fatata, tribolato da una farfalla che nessuno potè mai vedere. Il medico dell’ospedale dice che ciò è un’allucinazione, ma Hapley, quando è di buon umore e può parlare, assicura che è l’ombra di Pawkins; per conseguenza un unico esemplare ben degno della pena che egli si prende per catturarlo.
Fine.
nota 1 – Per ben comprendere quest’ultima espressione, i lettori che non fanno uso del microscopio non hanno che a farsi o colla stessa mano o con un pezzo di carta una specie di tubo, a traverso il quale guarderanno su un libro con un occhio, tenendo aperto anche l’altro.
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TITOLO: La farfalla
AUTORE: Wells, Herbert George
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Novelle straordinarie / H. G. Wells ; [illustrazioni di Celso Ondano]. - Milano : Fratelli Treves, 1905. - 211 p., [10] c. di tav. : ill. ; 27 cm.
SOGGETTO:
FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)
FIC028040 FICTION / Fantascienza / Brevi Racconti