Dino Buzzati, Le cronache fantastiche [vol. 1: Delitti; vol. 2: Fantasmi], a cura di Lorenzo Viganò, collana «Oscar Mondatori» n° 1838, Mondatori, Milano 2005, 2 voll., pp. XXXIX + 733, euro 17,00. Codice EAN: 9788804536819

«Dino ogni mattina – ricorda la moglie Almerina – usciva di casa alla stessa ora e si recava al giornale a piedi. Dalle otto alle venti era impegnato al «Corriere». Di sera, a casa, sia che fossimo soli, sia che fossimo in compagnia di amici, aveva l’abitudine di scrivere. Seduto sul divano col taccuino tra le ginocchia riempiva fogli e fogli. Scriveva o disegnava, sempre, ogni sera. A volte, mentre scriveva, dava l’impressione di essere in un suo mondo, assorto in un atto liberatorio» (p. IX). Quasi che Buzzati, chiuse le pagine del quotidiano di via Solforino, si dedicasse alla cronaca di un mondo parallelo, con lo stile del reporter (tipico – nei racconti che qui presentiamo – ne è l’incipit, lo sviluppo, la lunghezza) e i contenuti paradigmatici della sua narrativa che, secondo Eugenio Montale, era, rispetto al suo giornalismo, «lo stesso guanto, ma rovesciato».

Per Buzzati si è parlato di «realismo magico», di un «mondo secondario, che riflette noi e la nostra vita come in uno specchio deformante» (p. XII).

Lorenzo Viganò, che per la stessa collana degli «Oscar» aveva già curato La «nera» di Dino Buzzati, presenta qui racconti, elzeviri, brevi novelle pubblicati nell’arco di una vita su rivista o, per lo più sul «Corriere della Sera» e sul «Corriere dell’informazione». Pezzi, nella maggior parte dei casi, mai più raccolti in volume. Finalmente accessibili, ci restituiscono un’immagine completata non solo del mondo letterario dell’autore, ma anche del suo stesso mondo interiore. Il racconto – talora impietoso, arguto e financo didascalico – dell’abisso di paure, cinismo, inquietudine che spesso si cela nel cuore dell’uomo, è in altri «pezzi» visto attraverso la lente della compassione colma di partecipazione e, in qualche caso, par di scorgere una vera confessione personale.

Un’attrazione, quella per il misterioso, l’onirico, il mondo degli spiriti, che è già fortissima nella prima giovinezza, come ricostruisce nella brillante Introduzione Viganò. Con la mediazione di letture che lo segnano – sopra tutte Delitto e castigo – si va strutturando l’interesse per gli aspetti più riposti, bui e talora violenti dell’umana personalità, «il germe di tutto quanto ho poi fatto nella vita», come ebbe a confessare lui stesso (p. XIX).

Racconti capaci di esaltare chi ami Buzzati, che spesso inquietano, talora spaventano, sempre ammoniscono senza traccia di moralismo.

La prosa, come sempre limpida e semplice, brilla a volte di effetti stilistici raffinati; in altri casi turba con monologhi allucinati e atmosfere oniriche; tanto più efficaci quanto più l’autore tiene fede alla regola ferrea: «Effettivamente, questa è una vecchia regola. Io, raccontando una cosa di carattere fantastico, devo cercare al massimo di renderla plausibile ed evidente, avvicinandola più che sia possibile, proprio alla cronaca» (pp. XXIII – XXIV).

Ricorrente è il tema della paura della morte. Ad essa, in fondo, è riconducibile in un modo o nell’altro ogni altra paura. Eppure, in ultima analisi, il vero timore è sull’oltre: «Dino – racconta ancora la moglie – non aveva paura della morte, e lo ha dimostrato anche durante gli anni in cui era corrispondente di guerra a bordo della maggiori navi della Marina militare. Temeva quello che poteva o non poteva trovare dopo la morte» (p. XXXVI).

Proprio questa certezza segna di ombra e inquietudine la nobile e saggia contemplazione dell’animo umano. Buzzati possiede una formidabile coscienza della dimensione spirituale dell’uomo, mai offuscata dal panorama desolante delle sue fragilità, dei suoi timori e cattiverie. È proprio per questo che i suoi personaggi tradiscono una continua nostalgia dell’eterno e del soprannaturale, che dia senso alla vita. Paradigmatico il ragionamento di Alfredo Brilli, commercialista, il borghese libertino a cui è appena stata comunicata la data, prossima ventura, della sua morte: «Dunque è idiota pensare che se l’uomo pensasse veramente al suo fatale destino si affannerebbe meno per il lavoro, i soldi, la famiglia, la posizione, i vestiti, la casa, la celebrità e vivrebbe più saggio e più sereno. Niente. Se pensasse alla sua condanna irrevocabile, non gliene importerebbe più niente di niente, è vero che non si affannerebbe più tanto per i soldi, ma anche tutto il resto non avrebbe più gusto, nemmeno il mangiare, nemmeno le belle ragazze, nemmeno la musica, le esaltazioni dei capolavori, nemmeno le montagne, le spiagge deserte dell’oceano, nemmeno la filosofia, tutto diventerebbe arido fango in cui inutilmente sprofondare. Solo Dio, forse, la fede. Ma lui non ce l’aveva. [ […]] Ci vorrebbe il Salvatore, il Cristo, si dice così? Ma lui, da chissà quanti mai anni, l’ha perso per la strada» (vol. II, pp. 340 – 341).

Eppure, tenace, il pensiero a volte ritorna, magari in un inciso sfuggevole. «Il pianto di un bambino – avevo letto un giorno – basta ad avvelenare il mondo. In cuor suo Dio onnipotente non vorrebbe che certe cose succedessero, ma impedirlo non può perché è stato da lui stesso deciso» (vol. I, p. 258).