Nell’ambito della collaborazione con Thriller magazine e in attesa dell’imminente uscita del prossimo romanzo di Valerio Evangelisti, pubblichiamo questa “particolare” intervista allo scrittore curata da Fernando Fazzari.
Bologna, primavera 2005
— Se attraversi Piazza Maggiore in diagonale non ti laurei — mi disse una volta un amico di nome Pepè. E io me ne sbatto alla grande. Faccio avanti e indietro, in diagonale, tutto il rettangolo della piazza. Tanto mi sono già laureato, tie’ — penso — proprio mentre un piccione mi caca dritto dritto in testa. Me lo poteva dire, Pepè, che la passeggiata obliqua portava comunque sfiga. Mi passo una mano sulla chioma, metà sterco si spande a mo’ di gel, l’altra metà mi resta incollata sul palmo.
Neanche il tempo di pulirmi sui jeans in corrispondenza del didietro, che vedo la testa barbuta di Valerio Evangelisti spuntare tra la folla boccheggiate per il caldo, davanti alla basilica di S. Petronio.
Gli vado incontro deciso, sfoderando il sorriso sobrio delle mie migliori sbronze.
— Evangelisti! — dico — Salve! Sono quello dell’intervista.
— Piacere — risponde lui porgendomi la mano.
Gliela stringo. Guardo la faccia stranita di Valerio e mi rammento del piccione con la cacarella.
Come inizio non c’è male.
Valerio propone di fare una passeggiata. Non è che sia proprio una grandissima idea, in una assolata mattina di tarda primavera. Ma tant’è, meglio mettere l’intervistato a suo agio. Mentre camminiamo, lo scrittore bolognese parla senza interruzione, roba da poterci trarre quattro interviste, ma io non lo ascolto.
Fa un caldo caino. E m’è venuta voglia di birra.
Sorry.
Ci fermiamo in un baretto in via Indipendenza, prendiamo posto all’aperto e ordiniamo due belle pinte di bionda fresca.
Dopo i primi sorsi, mi si distendono i neuroni, torno alla realtà e mi ricordo che sono lì per intervistare Evangelisti.
Prendo taccuino, penna, tabacco e cartine. Comincio a rollarmi una sigaretta. Valerio sorride. E so anche il perché: Eddie Florio, protagonista del suo Noi saremo tutto, è un aficionado del club dei rollatori. Vedendo il suo faccino barbuto sorridere e pensando a quel farabutto di Florio, zakkete, di colpo sparo la prima domanda:
Eymerich, Pantera, Florio: tutti a loro modo dei gran bastardi, comunque non di certo dei mattacchioni. È noto che i tuoi personaggi rappresentano una parte di te. Adesso, ti prego, spiegami meglio ‘sta cosa, l’affinità psicologica coi tuoi personaggi, altrimenti scappo a gambe levate, non verrei ritrovarmi abbracciato a un blocco di cemento in fondo al Reno piuttosto che nell’Hudson.
L’affinità psicologica riguarda due soli dei miei personaggi: Eymerich e Pantera. Non esiste proprio, invece, con altri protagonisti delle mie storie, come Nostradamus ed Eddie Florio. Per spiegarmi meglio, esistono tratti asociali della mia personalità, associati ad altri. Li ho riversati in Eymerich quasi allo stato puro, mentre in Pantera li ho uniti a connotati diversi anch’essi presenti in me. Così Pantera, per quanto solitario e aggressivo sia, ha nozioni precise dei limiti fra giusto e ingiusto, mentre in Eymerich questa percezione è molto confusa. Senza contare che Pantera non cerca di imporre la propria visione del mondo, Eymerich sì.
Finisco di appuntarmi la risposta. Scolo il resto della birra, ne ordino un’altra. Sfumacchio allegro la sigaretta artigianale. Valerio infila una MS nel bocchino, l’accende e mi guarda come per dire — e poi? Tutta qua l’intervista?
Già, e poi?
Sfoglio distrattamente il mio taccuino, così, tanto per perdere tempo atteggiandomi da intellettuale. Scopro con piacere che sopra c’era già appuntata qualche domanda; le ho buttate giù stamattina ingannando il tempo sul water. Le faccio subito, ovviamente senza specificare il luogo della loro genesi.
Leggo a Valerio alcune sue dichiarazioni tratte da una precedente intervista per Rai Libro (http://www.railibro.rai.it/interviste.asp?id=130) — Ho un interesse molto spiccato per la storia statunitense, ma dovremmo averlo tutti, visto il peso che ha quel paese nel nostro presente. […] Un’America “diversa”, non riconducibile all’immagine ufficiale del Paese quale forgiata dai media e dal governo.
Adesso, queste parole erano riferite ad Antracite, il tuo romanzo precedente. La genesi di Noi saremo tutto è dovuta a questo tuo interesse o c’è dell’altro? Voglio dire, c’è stato uno spunto, un’idea, una volontà oltre il semplice interesse, che ti ha spinto a confrontarti con le lotte sindacali, il gangsterismo e il maccartismo? Non so, forse chiari parallelismi tra quell’epoca e il nostro presente?
Di parallelismi ne vedo diversi, ma il principale è quello economico. I portuali di cui tratto erano lavoratori precari, problema che il sindacalismo americano ha dovuto affrontare fin dalle origini. Inutile sottolineare quanto il lavoro precario sia oggi generalizzato nella nostra società, e magari spacciato come fenomeno positivo, sotto il nome di «flessibilità». Non è stata solo questa, però, l’idea ispiratrice di Noi saremo tutto. Intendevo continuare l’antistoria d’America cominciata con Black Flag e proseguita con Antracite.
Qualcuno potrebbe accusarti di anti-americanismo…
Perché? Detesto il governo Berlusconi, ma non per questo sono anti-italiano […] Nei miei romanzi «americani» esistono anche personaggi positivi. Non è positivo chi li governa, però questo può valere per molti Paesi.
Continua la passeggiata. Bologna è una città affascinante, lo ammetto. Una città dove non ti senti oppresso dalla sua Storia — vedi Firenze e Roma — un qualcosa che non è esattamente né provincia né grande centro. Una città tranquilla, si direbbe, ma che ha anche il suo lato oscuro. E le sue ferite aperte.
La stazione.
Osservo assieme a Valerio il viavai della gente nel piazzale.
Penso a un’estate di venticinque anni fa. L’esplosione. Quella ferita ancora aperta nel cemento in prossimità del primo binario.
Valerio, di tutti gli scrittori bolognesi, sembreresti quello meno influenzato dall’aria che si respira dentro le mura felsinee. Eppure, ho come l’impressione che non sia così. Mi sbaglio?
Con la mia città ho un rapporto controverso. Da un lato vi vivo senza identificarmi pienamente in essa, e soprattutto con ciò che viene chiamato «bolognesità». Un certo atteggiamento cordiale e bonario, di cui tanti bolognesi si autocompiacciono, nasconde in realtà grettezza e chiusura. Per esempio, ancora oggi gli studenti universitari che arrivano da tutta Italia, e che costituiscono quasi un quinto dei residenti, sono percepiti come un corpo estraneo e vessati in varie maniere. Invece sono proprio loro, ai miei occhi, la componente intellettualmente più attiva.
D’altro lato adoro certi aspetti di Bologna, a partire dalla sua urbanistica, in cui strade ampie e ariose celano ai lati dedali di vicoletti. Si tratta di una città che non è ciò che sembra a un primo sguardo, che si tiene nascosta. Ciò mi ha sicuramente influenzato, sebbene la mia vocazione di fondo sia cosmopolita.
Bologna, in quanto a scrittura, è una città molto attiva. Cosa pensi del folto gruppetto di tuoi colleghi concittadini?
Tutto il bene possibile, ma li frequento poco, e molti non li conosco nemmeno. Non si deve pensare a un mio atteggiamento snob. Bisogna invece considerare che i miei rapporti professionali gravitano soprattutto su Milano e Roma, più qualche capitale estera, e che quando sono a Bologna passo quasi tutto il tempo a scrivere. Quando rompo il mio isolamento, frequento soprattutto vecchi amici che fanno tutt’altro tipo di lavoro. Ciò non impedisce che mi trovi molto bene in compagnia di colleghi come Loriano Macchiavelli, i Wu Ming, Marcello Fois, Carlo Lucarelli, Stefano Benni, Sandro Toni ecc. Ci vediamo però molto di rado e di solito altrove, in occasione di qualche festival.
Montagnola.
Camminiamo tra le bancarelle installate ai bordi dei sentieri del parco. Punto dritto ai libri usati. Sgomito di brutto, pesto i piedi a una bambina con un librone Disney in mano. La bimba urla. Ignoro il frastuono degli insulti materni. Smanaccio tra le pubblicazioni, com’è mia consuetudine annuso le pagine, scelgo, pago e torno da Valerio che intanto s’è appollaiato su una panchina.
Estraggo un volume dalla busta — Tie’ Vale’, un regalino, un’edizione francese di Nada di Jean-Patrick Manchette. So che ti piace.
Faccio il figo, ma in realtà mi sono accorto dopo che l’ho comprato che non era un’edizione italiana, e il francese proprio non lo so leggere.
Nella postfazione dell’edizione Einaudi di Un mucchio di cadaveri, a proposito della militanza politica di Manchette, hai scritto: «Il noir, se vuole essere interprete dei tempi, come è nella sua vocazione, deve farsi verismo e contenere elementi di critica sociale mai spiattellati eppure percepibli». Anche se credo che te lo avranno chiesto in molti: ti senti uno scrittore «impegnato»? E se sì, in che modo?
«Impegnato» è una parola, per l’appunto, «impegnativa». Preferisco non usarla. Di sicuro ho una mia visione del mondo, e lascio che trapeli in ciò che scrivo, con vari gradi di esplicitazione a seconda del tema. E anche delle sedi: negli articoli espongo senza remore ciò che nei romanzi sfumo. Si potrebbe pensare a una mia ipocrisia; in realtà, è perché detesto comizi e comizianti, specie in sede letteraria. Credo che anche Manchette la vedesse così.
Manchette era un gran tessitore di parole. Quanta attenzione dedichi alla forma narrativa dei tuoi romanzi piuttosto che al contenuto?
Il mio obiettivo è il massimo di chiarezza, accompagnato alla visualità delle scene. Ricerco insomma l’efficacia, ed è a questa che dedico la maggiore attenzione, così come al coinvolgimento emotivo dei lettori, attraverso artifici di cui non si deve accorgere. Non so se tutto ciò dia corpo a uno stile, e non mi interessa. Lo scopo di Manchette era diverso: puntava a un’assoluta purezza della lingua, sfrondata di aggettivi e avverbi inutili fino a divenire cristallina, totalmente priva di ovvietà. Un intento che ammiro, senza tuttavia che l’ammirazione mi induca a imitarlo.
Oltre al sopracitato maestro francese, chi sono gli altri scrittori, sponda noir, che ti ispirano?
Molti e nessuno. Nemmeno Manchette, a onor del vero, è un mio «ispiratore». Tra coloro che ho letto e leggo con particolare attenzione, metterei al primo posto Dashiell Hammett (da notare che, come tutti gli «hammettiani» di provata fede, sono un «anti-chandleriano»). Poi il grandissimo Derek Raymond. Quindi, in ordine sparso, Crumley, Izzo, Lansdale, Ellroy, certo Simenon (non tutto) ecc. Potrei citare decine di nomi. Ma leggere, per me, non vuol dire né imitare, né ricavare idee per le mie storie.
D’un tratto si sentono delle urla acute, un suono che conosco benissimo, lo sgolamento da dieci ottave della bambina a cui ho pestato il piede poco fa. Proviene dalle panchine dietro alla nostra. Subito dopo, alla piccola solista spaccatimpani s’aggiunge la madre — oh dio! Un morto!
Io e Valerio ci alziamo di scatto per andare a vedere.
Il morto effettivamente c’è, e lo conosco pure, porca puttana.
Riverso sulla panchina, rivoli di sangue raggrumato gli scendono sul volto da un foro sulla tempia destra: gli hanno sparato in testa, a Pepè.
E, credo, non per aver attraversato in diagonale piazza Maggiore.
Pepè, ventisette anni, operaio in una piccola ditta che si occupa di imballaggio di sanitari, eterno studente, più che mai, adesso che è morto. Viveva con la sua fidanzata storica, Irma, in un piccolo appartamento infrattato in una traversa di via Vittorio Veneto.
Evito accuratamente la polizia, non ho voglia di interrogatori. Così mi ritrovo con Valerio in un bar, davanti a un gin che spero lavi il mio sgomento.
Valerio, con discrezione e delicatezza, mi dice — da domani, se vuoi, cerchiamo di capirci qualcosa assieme.
— Ochéi — rispondo, e ci diamo appuntamento per domani mattina davanti a porta S. Felice.
Me ne torno a piedi in albergo. Adesso che Pepè è evaporato, Bologna sembra meno bella.
*****
Con la bocca ancora impastata del bourbon bevuto in notturna, mi trascino per i portici, Il Resto del Carlino in mano che suda tristi e menzognere voci nella cronaca cittadina: «Assassinato giovane operaio ventisettenne, la polizia indaga tra i sovversivi».
Basta militare in qualche piccolo gruppo politico di quartiere, roba da cineforum su Lynch e battaglie per l’assistenza delle vecchiette del posto, che ti incollano sulle spalle con sputacchi di disprezzo l’etichetta di sovversivo.
E proprio di questo parlo con Valerio mentre percorriamo via Saffi.
È triste pensarlo, ma basta poco per deviare una parte di opinione pubblica. E lo sa anche Eddie Florio, un personaggio che vive in una realtà di più di cinquanta anni addietro.
Negli Stati Uniti le potenzialità del «quarto potere» furono esplorate molto prima che da noi, come se una democrazia cercasse affannosamente il modo di limitare se stessa, al di là dei metodi repressivi. Già prima degli anni Venti la stampa di proprietà di Randolph Hearst definiva Pancho Villa un «socialista» (parola usata come un insulto) e ne costruiva un ritratto mostruoso. Nei decenni successivi, le tecniche di condizionamento attraverso un’informazione manipolata o selettiva non hanno fatto che affinarsi. L’esempio più recente ha riguardato proprio uno scrittore di noir, Cesare Battisti. I nostri giornali ne hanno fornito un ritratto distante anni luce dalla realtà, e sono giunti a selezionare fotografie capaci di confortare l’ipotesi del mostro.
— Visto l’argomento della discussione, devo dedurre che il tuo amico Pepè non fosse affatto un… sovversivo? — mi chiede Valerio, esitando su quell’ultima parola, quasi a metterla tra virgolette.
— Esatto — rispondo — Pepè era troppo pacato, troppo immerso nella sua vita di imballatore di cessi, per pensare di sovvertire l’ordine costituito.
Siamo arrivati. Citofono. Mi risponde un singhiozzo di Irma. Saliamo al terzo piano. La porta è socchiusa. Entriamo.
Seguono abbracci, lacrime, silenzi interminabili. Valerio è molto imbarazzato, e lo capisco. Irma l’ha salutato distrattamente, con una debole stretta di mano. In un altro momento l’avrebbe sommerso di domande, di complimenti magari, su una poltrona si intravede addirittura la copertina blu di Noi saremo tutto.
Usciamo dopo un’ora.
Risultato: scopriamo che in azienda ci sono delle tensioni per il rinnovo del contratto a tempo determinato. La proprietà tiene a bada gli operai con la minaccia di un licenziamento.
Non ci resta che andare a fare un giretto in azienda.
Alla fermata, aspettiamo in silenzio il bus che non arriva mai.
Decido di rollarmi una sigaretta e, come sempre, appena l’accendo eccoti il bus a porte spalancate, pronto a partire.
Prendiamo posto, sempre muti come pesci.
Osservo un ragazzo leggere un libro, rammento la copia di Noi saremo tutto a casa di Irma, e chiedo a Valerio:
Che rapporto hai con i tuoi lettori? Sei uno scrittore da torre d’avorio o accetti il confronto diretto con loro?
Ho una mailing list in cui i miei lettori più accaniti si confrontano con me e tra loro, anche su temi lontanissimi dalla narrativa. Ogni anno si tiene, in una località d’Italia differente, un raduno di tre giorni a cui partecipo, fatto di giochi, chiacchierate, pranzi e bevute. Non vivo affatto in una torre d’avorio; piuttosto, cerco di disciplinare gli accessi, altrimenti non scriverei altro che e-mail.
*****
Veniamo accolti da diverse montagnette di cessi imballati. Sullo sfondo, un piccolo capannone prefabbricato. Un paio di operai stanno scaricando un camion. Un cesso cade. Segue la bestemmia di uno, la risata dell’altro. Ci avviciniamo spacciandoci per parenti di Pepè.
— Ah, povero disgraziato — dice un operaio.
— Povero Cristo in croce — ribatte il bestemmiatore, tanto per rimanere in ambito sacro. Poi tossisce e sputa un paio di scaracchi a distanza olimpionica — Scusate. Povero Cristo d’un Pepè. Non vorrei dirlo, tanto per non ripetere le solite cazzate che si dicono quando uno muore, ma era veramente un pezzo di pane. Anche se c’era qualcuno che non la pensava come me.
Io e Valerio ci scocchiamo uno sguardo poi, all’unisono, chiediamo — chi?
— Il gran capo, Pioli, e lui, per esempio — dice il blasfemo operaio, indicandoci con un cenno del capo un tipo che ancheggia ad ampie falcate verso di noi.
— Chi è? — chiedo.
Risponde l’altro operaio, quello che prima si sbellicava dalle risate e che ora ha la faccia scura e incazzata di un automobilista bloccato nel traffico — Chi è? — ride, questa volta sarcasticamente — Manlio: un crumiro dei nostri tempi. Una spia e un bastardo leccaculo.
Intanto il lustrachiappe in questione irrompe in mezzo a noi con un terribile — I signori desiderano?
Stessa tiritera della parentela che, questa volta, non funziona. Veniamo invitati ad allontanarci in nome della cortesia e della proprietà privata.
L’atmosfera si scalda.
Il bestemmiatore s’accende — Maledetto figlio di puttana. L’hai ucciso tu. L’hai ucciso tu, Cristo d’un Dio!
Intanto arriva un macchinone lucido dal quale scendono un manichino d’atelier d’alta sartoria, il titolare dell’azienda presumo, e una sventola fasciata di nero con tanto di occhiali da sole. Stupefacente, la tipa. Gli altri sembrano non farci caso, evidentemente sono abituati a una simile visione.
Manichino e signora non ci degnano di considerazione e proseguono oltre. Io e Valerio ci defiliamo dall’alterco salutando educatamente. Mia nonna avrebbe detto — Furia francese e ritirata spagnola.
Appena in strada, chiedo a Valerio:
I crumiri si sono digievoluti come i Pokemon; adattati ai tempi moderni, diciamo. Una volta rimanevano sempre e comunque della gente disperata, che disertava le lotte sindacali a causa della fame, adesso sembra tendano al bastardo puro. Credi che la mia sia una generalizzazione grossolana?
Tutto quanto tende al bastardo puro, di questi tempi. Sono enormemente aumentati cattiveria, cinismo e volgarità. Non so se ti ricordi, vista l’età, di Gino Bramieri e del «ragionier Carugati». Allora era una macchietta. Adesso gente simile è al potere.
In riferimento alla sgnacchera nerovestita scesa dal macchinone: sembrerebbe una vera dark lady da romanzo noir. In Noi saremo tutto, in pratica, una figura che non esiste. I tuoi personaggi femminili hanno uno spessore psicologico di gran lunga superiore a quello che ci si aspetterebbe da una ambientazione gangsteristica alla «bulli e pupe». Quanto e come hanno contato i personaggi femminili, per esempio, nella costruzione del protagonista che risponde al nome di quel farabutto di Eddie Florio?
Le donne sono per Florio incomprensibili quanto i sindacalisti e i comunisti, solo che può sottometterle e umiliarle a piacere, o almeno crede. Di fatto non ci riesce mai: gli sfuggono di continuo e non si piegano a lui. Alcune le spezza, altre aprono la strada alla sua rovina, dato che appartengono a un universo antitetico e lontano. Ho evitato con cura la figura della dark lady non solo perché si tratta di uno stereotipo, ma anche perché si accompagna all’immagine del gangster di alto livello. Eddie Florio ha una carriera che in qualche momento lo porta vicino ai vertici della malavita, però resta un delinquente mediocre, squallido e meschino.
Improvvisamente mi accorgo che è arrivata la sera.
Ho fame. Tutto quello che riesco a pensare è — cibo, cibo, cibo…
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Come vuole la tradizione, quando mi trovo tra morti e interviste, celebro il rituale della sacra magnata in una trattoria, questa volta «Da Vito», dalle parti della Cirenaica. Menù della serata: antipasto a base di crescentine e affettati, tortelli, tagliatelle al ragù e bollito, il tutto innaffiato da Lambrusco da combattimento.
Non so perché, ma quando magno spesso mi viene in mente Pepe Carvalho. Peccato, di avventure del buon Pepiño non ne leggeremo più. Pepe, Pepè: accenti che mi si confondono in testa e che mi fanno andare di traverso un tortello. A loro modo, morti tutti e due.
Valerio, una parola sul compianto Manolo Montalbán. Ne senti la mancanza?
Confesso una mia lacuna: di Montalban ho letto solo un ricettario e alcuni articoli. Purtroppo non riesco a leggere tutto.
Cosa ne pensi del binomio cibo/letteratura? I tuoi amati personaggi, questi adorabili «bastardi», hanno dei piatti preferiti?
No, non direi. Mangiano in fretta ciò che capita. Forse proprio per questo sono bastardi. Però tra i miei personaggi letterari preferiti figura Nero Wolfe, e dunque l’esistenza di un possibile nesso tra culinaria e narrativa lo intuisco bene.
La serata continua tra ricordi manifesti e silenziosi. Un bicchiere dopo l’altro, lacrime non piante che ingoio assieme al Lambrusco.
Prima di salutarci, Valerio, dato che è del posto, mi promette che indagherà sull’azienda dove lavorava Pepè sfruttando qualche suo contatto.
— Ci aggiorniamo a domani — dico stringendogli la mano. Gli lascio il mio numero di cellulare e scivolo verso una nottata insonne e appiccicosa.
*****
Reduce da una nottata che, come la descriverebbe Andrea Camilleri, è stata «fitusa, ‘nfami, tutta un arramazzarsi, un votati e rivotati, un addurmisciti e un arrisbigliati, un susiti e un curcati», i miei occhi, o meglio, le mie occhiaie, scorrono le colonne delle cronache cittadine: «Arrestato in tempi record il presunto assassino di Giuseppe «Pepè» Caruso, tale Manlio Nerozzi, trovato in possesso della pistola che, salvo smentite balistiche, con ogni probabilità ha ucciso il giovane operaio».
Bene, benissimo. Dovrei mettermi l’anima in pace, soprattutto dopo che una telefonata di Valerio mi rassicura sullo stato della Co. Im. Sa., Cooperativa Imballaggi Sanitari: un’azienda come tante, onesta per quanto è possibile, che naviga in casini tra le parti sociali, come in numerose zone d’Italia. Che volete, quando c’è caos, meno poeticamente detto bordello, c’è un po’ dappertutto.
Ma io l’anima in pace non me la metto, non ancora. Non con Pepè di mezzo.
Ringrazio Valerio, gli dico che mi farò risentire al più presto, se non altro per finire l’intervista. Mi procuro l’indirizzo dell’amministratore delegato dello cooperativa di imballaggio cessi, tale Massimo Pioli, il manichino sceso dalla macchina, compro tutto il necessario per un buon appostamento — una boccetta di rhum, tabacco e mentine — prendo un taxi e via, a giocare al Marlowe della situazione.
*****
Bologna, sullo sfondo, i Colli.
I Colli bolognesi, quelli dove con una Vespa special truccata «ti senti in vacanza». E che vacanza: villette coi controfiocchi, residenze per fatturati grassi e stipendi lardosi. Mi apposto per un po’ di minuti che non tardano a sommarsi e a diventare ore, ciucciando rhum e rollando sigarette. Quello che vedo: nulla, per un bel po’, fino al tramonto.
Poi il macchinone che ben conosco prende il largo uscendo dal cancello che si apre, presumo, con un colpo di pollice sul tasto di un telecomando. Il manichino è svolazzato altrove, da solo. Beh, che faccio?
Lascio in loco la boccia di rhum, mastico una manciata di mentine e mi dirigo al citofono. Segue, in apnea, un — salvesonoilfratellodiGiuseppeCarusovorreiparlareconlasignoraPioli.
Sento degli occhi che mi fissano da dietro la telecamerina per qualche secondo, poi la bocca sita sotto i suddetti bulbi oculari dice — Attenda.
Aspettando, penso quattro cose: uno, sto facendo una cazzata; due, mica è tanto una balla che sono il fratello di Pepè, il legami di sangue a volte non sono indispensabili; tre, per fratellanze simili le cazzate come questa sono ammesse; quattro, non è detto che stia facendo questa marachella solo per amore fraterno, non dimentichiamoci che la signora Pioli è una sgnacchera d’alto livello.
Intanto torna la voce di prima — Entri pure, le apro il cancello.
La voce ha il volto incartapecorito e gli occhi miopi di una domestica che definire matusalemme è un inno alla giovinezza. Il reperto archeologico mi accompagna in salotto. E lei è lì, la dark lady sgnacchera (alzi la mano chi me ne sa indicare una racchia), nerovestita anche in vestaglia. Un ira di Dio di bellezza e fascino.
— Buonasera — dico io.
— Buonasera — risponde lei fissandomi.
Mi sforzo di guardarla negli occhi per non mostrare insicurezze, anche se la voce un po’ mi trema comunque — Sono il fratello di Giuseppe Caruso.
— Lo so, me lo ha detto la domestica. Anche se…
— Anche se?
— Niente — dice scollando per un attimo i suoi occhi dai miei.
— Anche se? — insisto.
— Anche se non sapevo che Pe… il Caruso avesse dei fratelli.
Ed è vero, era figlio unico, in famiglia lo stanno rimpiangendo solo i genitori.
— Conosceva mio fratello allora?
— Sì… cioè no, me ne ha parlato mio marito ecco — fa un pausa, riprende coraggio, la sua voce si fa innaturalmente dura — Cos’è questo interrogatorio? Che vuole da me?
— Volevo solo confermare o smentire certe voci.
— E non poteva parlarne con mio marito?
— Infatti, ma mentre arrivavo in taxi, l’ho incrociato in macchina, così ho deciso che comunque, magari ecco, una chiacchierata con lei sarebbe stata utile.
— E che dicono queste fantomatiche voci?
— Che mio fratello e suo marito non andassero tanto d’accordo.
— Assolutamente falso. Ecco, ho smentito le sue voci. Ora se vada.
Ahi, s’è incazzata, penso.
— Se ne vada o chiamo la polizia — sbotta.
— La chiami pure.
Raccoglie la sfida, mi gira il suo didietro di tutto rispetto e corre, presumo, verso tre tasti che di nome fanno Centotredici.
Approfitto della sua momentanea assenza per dare un’occhiata in giro: niente che vada oltre un normale salotto alto borghese tranne… — mi avvicino alla libreria — … tranne l’opera omnia di Gabriel García Márquez, l’autore preferito di Pepè. Prendo un volume a caso, Cent’anni di solitudine, lo apro, sulla terza pagina, sotto il titolo, ci sono i solchi di una matita che una volta, su quella carta, avevano scritto qualcosa. La metto controluce.
Che culo, però.
Riesco a leggere qualcosa tipo: «Un piccolo passo per entrane nel mio mondo e uscire dal tuo, amore». Firmato P.
Ahi, la «p» di Pepè.
Intanto la signora in nero è tornata, mi scippa il libro, strappa la pagina galeotta, se la infila in bocca, la mastica un po’ e infine l’ingoia.
— Se ne vada, la prego – mi dice piangendo.
Sono esterrefatto.
Smammo.
Recupero la mia boccia di rhum e, prima di andare via, aspetto che la polizia arrivi e smammi pure lei, dopo solo cinque minuti.
*****
Il giorno dopo è un gran bordello: i media, gridano a gran voce che Manlio Nerozzi, trattenuto in custodia cautelare nel carcere di Bologna, è stato ucciso nel cortile da un altro detenuto.
Valerio Evangelisti, mi chiama sul cellulare — Hai visto che casino?
— Si, ho visto.
— Ieri hai combinato qualcosa? — mi chiede lo scrittore.
Mento — Niente di niente — poi, dopo una breve pausa — Valerio?
— Eh?
— Ti posso fare un’ultima domanda?
— Di’ pure.
Cos’è, secondo te che ci rende così volubili, così fragili? I tuoi personaggi, penso a Eymerich e Florio, in un certo senso sono l’emblema della fragilità umana.
Esiste in ogni essere umano una componente animale, ferina, domata a forza ma mai del tutto annullata. Da essa sembra scaturire la forza, ma ne scaturiscono anche fragilità e paura. Indagando a fondo sui miei personaggi più negativi, penso che si scoprirebbe che la loro aggressività nasce anche dal fatto di sentirsi perennemente minacciati. Reazioni animalesche, insomma.
*****
Dunque: uno dei miei migliori amici si spupazzava la consorte del suo datore di lavoro, quest’ultimo lo scopre, magari sgamando una bella dedica su un libro. Decide di farlo fuori e dà disposizioni al suo lustrachiappe, che, per inciso, non ama il morituro. Pepè viene fatto secco. Il crumiro killer viene beccato e il datore di lavoro, Otello dei nostri tempi, fa eliminare in carcere quello che una volta era il suo scodinzolante cagnolino.
Fantastico.
O forse una boiata, una semplice ipotesi.
Altra ipotesi: e se spifferassi tutto a Irma, la fidanzata di Pepè, che succederebbe?
Sarebbe giusto?
Come sempre, la giustizia non è mai cosa troppo semplice.
Link e approfondimenti
- http://www.thrillermagazine.it/rubriche/interviste_col_morto/ (la rubrica di Fazzari su TM)
- http://www.eymerich.com (il sito di Valerio Evangelisti)
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