La letteratura e il cinema di genere (fantasy, fantascienza, poliziesco ecc.) sono spesso considerati arte «di serie B», non solo da critici «ufficiali», ma anche da una parte del pubblico, forse quello più snob.

Non mancano, certo, supporti a favore di questo atteggiamento: alcune opere di questo tipo, oltre a prefiggersi intenti eclusivamente commerciali, sono prive di originalità, scritte (o tradotte) male e, dietro il paravento della serialità, ripetitive; appaiono adatte, insomma, a palati grossolani o a soddisfare esclusivamente (ma, beninteso, più che legittimamente) esigenze di intrattenimento.

Tuttavia, nel genere si trovano lavori di livello non di rado più alto di quello che raggiungono opere mainstream che, magari, dietro il paludamento della (pseudo)ricerca letteraria nascondono presunzione, dietro la comoda etichetta del postmoderno nascondono il vuoto di idee. Tanto per fare un esempio noto, pochi negano che il film di fantascienza «2001, odissea nello spazio» di Kubrick sia un capolavoro tout court.

Da qualche tempo a questa parte, la migliore letteratura di genere, specie «gialla» o noir, sta riscuotendo non solo il consueto successo di pubblico, ma anche apprezzamento da parte dei critici più avveduti e meno accademici, che la considerano pure una possibile chiave per interpretare il tempo presente.

Paolo Agaraff (nome collettivo dietro al quale si celano gli anconetani Gabriele Falcioni, Roberto Fogliardi e Alessandro Papini) ha appena dato alla luce un romanzo che può essere definito, appunto, di genere: «Il sangue non è acqua», edito dalla anconetana PeQuod, casa editrice ormai da tempo apprezzata in tutta Italia per la qualità letteraria delle sue pubblicazioni. Si tratta del secondo romanzo dell’autore dopo «Le rane di Ko Samui»(anche questo per i tipi di PeQuod), prefato da Valerio Evangelisti.

Il protagonista del romanzo è un vecchio diario impolverato, dalla copertina nera, rigida, con la pelle segnata dalle mani che lo hanno scritto e sfogliato.

Lo sfondo è l’Italia del Ventennio e un’Europa in marcia verso la Seconda Guerra Mondiale.

Il palcoscenico è una piccola isola della Sardegna dal nome malaugurante, Mortorio, dove sorge villa Eleonora, una vecchia casa a strapiombo sul mare. L’isoletta è semideserta. Intorno, solo l’acqua di un mare vivo, irrequieto, minaccioso. Nella villa s’incontrano sette lontani parenti, venuti per la lettura del testamento del misterioso cugino Bonifacio […]

Per correttezza nei confronti dei lettori, non tesseremo le lodi del romanzo né diremo che ne prevediamo il successo, visto che, come del resto si comprende dall’intervista, gli autori sono nostri cari amici: vanno benissimo le amicizie letterarie, ma delle «consorterie» non ne possiamo più; ci limitiamo quindi a far notare che nell’opera sono presenti almeno alcuni degli elementi «oggettivi» che possono contribuire a distinguere la letteratura di genere di qualità da quella scadente: l’accuratezza documentaria e la cura del linguaggio e della struttura narrativa.

Altre informazioni sul romanzo e su Paolo Agaraff si possono reperire nel sito http://www.agaraff.com/.

[D] In questo nuovo romanzo, i «Dieci piccoli Indiani» di Agatha Christie incontrano gli Abitatori del Profondo di Lovecraft; anche nel primo («Le rane di Ko Samui»), c’erano mostri lovecraftiani; dunque, un filo conduttore c’è, ma come mai un cambiamento così deciso di tipologia di vicenda narrata?

[R] In realtà è un ritorno alle origini. “Il sangue non è acqua” è nato nel 1993, come trama per uno scenario de “Il richiamo di Cthulhu”. Sin da allora accarezzavamo l’idea di trarne un romanzo, ma il progetto era talmente impegnativo che l’abbiamo rimandato per dieci anni. Nel 2003, dopo la pubblicazione de “Le rane di Ko Samui”, abbiamo proposto ad Antonio Rizzo della PeQuod vari progetti. Alcuni erano nel segno della continuità: prequel o sequel della vicenda tailandese dei tre vecchiacci protagonisti del romanzo. Tra i vari progetti, però, c’era anche “Il sangue non è acqua”: l’editore ha apprezzato la complessità della trama e i vari livelli narrativi… così abbiamo intrapreso questa nuova avventura.

Riguardo alle differenze tra “Il sangue non è acqua” e “Le rane di Ko Samui”, possiamo dire che sono molto inferiori rispetto a quanto non appaiano a una prima lettura; in realtà ci sono molti elementi che li accomunano, e non solo l’ispirazione alle atmosfere lovecraftiane, contaminate e rivisitate. C’è il tema della diversità, la capacità di accettarla in se stessi e negli altri, e poi il gusto del grottesco e dell’avventura. Questi aspetti sono elementi di continuità tra i due romanzi.

[D] I tre vecchiacci del precedente romanzo breve non sono personaggi occasionali, dunque, ma destinati a farsi rivedere?

I tre vecchi cinici, così distanti dalle figure tradizionali dei protagonisti dell’horror, sono personaggi troppo ghiotti per abbandonarli in Tailandia. Tre protagonisti che guardano il mondo con l’occhio disincantato di chi ha visto tutto, di chi pensa che gli orrori quotidiani non siano meno assurdi dei mucillaginosi esseri lovecraftiani.

Inizialmente prevedevamo una trilogia vacanziera: dalla Tailandia alle montagne austriache, per finire nelle campagne del mantovano. Poi si è aggiunta anche l’ipotesi di un prequel, che però ha suscitato vivaci discussioni schizoidi nella multipla natura agaraffiana. E per questo motivo, è stato parzialmente subappaltato […]

[D] La vostra non è certo l’unica esperienza di scrittura a più mani; pensiamo, ad esempio, ai Wu Ming o alla Babette Factory; perché, secondo voi, si stanno moltiplicando queste «gestalt» di scrittori?

[R] Crediamo che la principale barriera alla scrittura a più mani sia sempre stata la scarsità di strumenti per affrontare il procedimento da un punto di vista pratico. È già difficile l’impresa di mettere in sintonia su una stessa storia cervelli di più persone; coordinare poi un’attività di questo genere senza Internet, posta elettronica e sistemi evoluti di videoscrittura diventa praticamente impossibile. L’ampia diffusione di questi strumenti informatici, probabilmente, è stato il catalizzatore della nascita di buona parte dei nuovi gruppi di scrittura.

[D] Diciamo che fate del brainstorming il punto centrale della vostra esperienza; ma siete in contatto solo via Internet oppure…

[R] Internet non basta. Anche se, per motivi di lavoro, attualmente abitiamo in città diverse, i momenti mitopoietico-etilici degli incontri fisici sono essenziali, sia per definire le prime bozze dei progetti, sia per verificarne lo stato di avanzamento. Le idee migliori nascono sempre quando siamo riuniti tutti insieme, quando si chiacchiera, davanti a un buon bicchiere di grappa o di whiskey. L’unico problema è scrivere subito tutto quel che passa per la mente […] altrimenti questi pensieri andranno perduti come lacrime di distillato nella pioggia […]

[D] Che tipo di tecnica adottate nello specifico della stesura? Ognuno gestisce un personaggio, oppure […]

[R] Il procedimento è abbastanza anarchico, ma segue una «logica» precisa. Innanzitutto concordiamo un canovaccio ragionevolmente stabile, capitolo per capitolo, e cerchiamo di definire nei dettagli l’ambientazione, rovistando in librerie polverose e navigando su Internet. Per quanto riguarda i personaggi, protagonisti e comprimari, prepariamo schede descrittive simili a quelle che usano i giocatori di ruolo. Dettagliamo tutto per ottenere coerenza e introdurre sottotrame che spingano i personaggi ad agire, piuttosto che a subire passivamente la propria sorte, trascinati dagli eventi.

Finalmente, dopo questa mole di lavoro, cominciamo a scrivere sul serio.

Per non dilatare troppo i tempi, ci diamo delle scadenze abbastanza stringenti e ci passiamo, a turno, il file con il testo. Ognuno di noi contribuisce come e quando può; qualche volta si scrive di più, altre di meno. Qualche volta ci si limita a limare quanto già scritto, altre volte si fa procedere la narrazione.

In molti casi trama e personaggi cambiano sensibilmente rispetto al loro profilo iniziale. Un personaggio acquisisce carattere, una sottotrama acquista importanza, mentre un’altra tende a scomparire. Poco per volta, i protagonisti cominciano a prendere vita propria. Alcuni comprimari vanno alla ribalta, alcune primedonne finiscono nell’oblio.

In mezzo a questo marasma ci si può chiedere come facciamo a mantenere uno stile di scrittura abbastanza uniforme. Considerata l’estrema diversità delle nostre personalità, il fatto rappresenta un mistero anche per noi. Almeno così era, prima di accorgerci che, a causa delle frequenti riletture e reiterate modifiche, tendiamo asintoticamente verso una forma stilistica che risulti accettabile a tutti e tre. Da un passaggio all’altro, si aggiungono o tolgono avverbi, metafore e gerundi, cercando di raggiungere la convergenza. Ogni iterazione del testo è come una mano di vernice; a forza di stratificare, riusciamo a ottenere un colore uniforme.

Tra l’altro, stiamo sperimentando lo stesso metodo anche con un gruppo allargato, e i risultati sono molto interessanti.

[D] Insomma, la posse va allargandosi, più o meno come un gruppo di giocatori di ruolo; o sbagliamo?

[D] Non sbagliate. Il paragone è abbastanza azzeccato. Alcuni anni fa, infatti, è nata «Carboneria», una mailing-list che raccoglie autori di varie regioni italiane, interessati al fantastico, al grottesco, alla narrativa «di confine». Un melange tra noir, horror, fantasy e fantascienza. Un punto d’incontro in cui commentare e criticare i rispettivi racconti e romanzi, e ragionare su progetti comuni. Una specie di «Castello dei cavalieri cosmonauti mannari», un luogo virtuale in cui scambiare idee. »Carboneria» ha finito per generare un’antologia di racconti che sta cercando un editore, oltre ad un nuovo autore multiplo alla sua prima prova: Fra’ Pelagio D’Afro, che ha preso in carico proprio il progetto del prequel de «Le rane di Ko Samui» di cui parlavamo prima. Della «Carboneria», oltre a noi, fanno parte Stefano Marcelli, Andrea Angiolino, Lorenzo Trenti, Piernicola Silvis e Biancastella Lodi; poi ci siete voi due bravi intervistatori…

[D] Già, non potevamo sbagliare…

Dai riferimenti che operate emerge chiaramente che siete esperti giocatori di ruolo; a quanto pare è evidente che questo tipo di attività prima o poi si rende colpevole di favorire aspirazioni letterarie…

[R] Un libro e una sessione di gioco di ruolo possono essere considerate forme differenti della stessa storia, quello che cambia è solo il modo di raccontarla. Nel caso del libro, è il narratore che si fa al contempo regista e interprete: prevale la forma scritta, un monologo che guida il lettore attraverso le vicende narrate. Nel caso del gioco, invece, sono i giocatori a costruire sulla base del canovaccio la propria storia, tutti insieme. Un giocoruolista e uno scrittore hanno, in fondo, un’analoga genesi: sono entrambi dei cantastorie.

Noi ci divertiamo a vestire entrambi i panni: sviluppiamo libri e racconti a partire dagli scenari per giochi di ruolo, e giochi dai racconti e dai romanzi. Entrambi i percorsi ci consentono di scoprire qualcosa di nuovo sulla storia e sui personaggi che la animano.

Gioco e libro: solo modi diversi di raccontare.

Giuseppe D’Emilio e Arturo Fabra

Questa intervista, presente anche nella sezione di Liber Liber dedicata alla scuola, è stata pubblicata sul “Falco letterario” anno XXV, n. 1, Edizioni Artemisia

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