Il vecchio Moisè

di
Grazia Deledda

tempo di lettura: 9 minuti


Quand’ero ragazzetta, avevamo in casa nostra un vecchio servo della Barbagia chiamato Moisè. Era il suo vero nome? Non credo; forse era un soprannome, perché realmente il vecchio rassomigliava al profeta Mosè, alto e bruno in viso com’era e con una lunga barba a riccioli; o piuttosto perché fra le altre cose egli sapeva fare certi scongiuri contro il malocchio, contro le malattie del bestiame, contro le formiche che rapiscono il grano dall’aia, contro i bruchi, le cavallette e i vermi, contro le aquile per impedir loro di rapire i porcellini, gli agnelli ed anche i bambini; e in quasi tutti questi scongiuri (in dialetto chiamati verbos, cioè parole misteriose) c’era un’invocazione a Mosè.
Moisè era vecchio ma robusto ancora e lavorava tutto l’anno; d’inverno custodiva i branchi di porci e di maialini che pascolavano e mangiavano le ghiande su per i boschi d’elci del monte Orthobene; ma tornava in paese per le grandi solennità, e specialmente il Natale voleva passarlo in casa dei padroni. Non era vecchio decrepito, volevo dire, ma a sentirlo parlare pareva che egli avesse almeno due millenni; tutte le storie che raccontava risalivano agli «antichi tempi» quando Gesù non era nato ancora ed il mondo era popolato di gente semplice ma anche di esseri fantastici, di animali che parlavano, di diavoli, di nani, di bìrghines, vergini che eran buone coi buoni e cattive coi cattivi e passavano il tempo a tessere porpora ed oro.
Quando Moisè tornava a casa per Natale noi ci affollavamo attorno a lui per sentire le sue storie. Egli sulle prime si faceva pregare; preferiva insegnarci ad arrostire tra la brage le ghiande, che si gonfiavano e diventavano rosse e saporite come castagne; e ci diceva che in certi paesi della Sardegna si fa anche il pane di farina di ghiande, al quale si mescola una certa argilla che lo fa diventare più saporito e consistente; poi a furia di preghiere e di occhiate supplichevoli, si riusciva a fargli raccontare qualche storia.
Seduti intorno al camino ove ardevano interi tronchi di quercia o intere radici di lentischio, nere e aggrovigliate come teste di Medusa, noi ascoltavamo attentamente. Era presto ancora per la grande cena, che si fa dopo il ritorno dalla messa di mezzanotte, alla quale noi però non assistevamo perché la notte di Natale è quasi sempre rigida e nelle notti rigide i ragazzi devono andare a letto; ma per noi e per tutti quelli che volevano mangiare senza profanare la vigilia veniva preparato un piatto speciale, di maccheroni conditi con salsa di noci pestate, e con questo e con le storie di Moisè ci contentavamo. Egli dunque soffiava sul fuoco con un bastone di ferro; un bastone bucato che era poi una vecchia canna d’archibugio, e raccontava. «Quando nacque Gesù, – egli diceva, – la gente era buona ancora e senza malizia; ma appunto perché gli uomini eran ingenui e avevan paura di tutto, il mondo era infestato di esseri maligni. Allora esistevan le cattive fate, che potevan cambiarsi in animali e spesso andavano nelle case, sotto forma di gatti, di cani o di galline, e vi portavano sventura; allora esistevano i cavalli verdi, che portavano i proprii cavalieri nei precipizî; esistevano i vampiri, esistevano i serpenti e specialmente uno terribile che si chiamava Cananèa; ma sopratutto davan da fare ai buoni pastori e alle buone massaie i diavoli che prendevano aspetto umano e si fingevano anch’essi pastori e venivan riconosciuti solo dalle unghie attorcigliate o dai piedi simili a quelli dell’asino. Gesù venne al mondo per liberarlo da tutti questi esseri maligni, e specialmente dai diavoli; infatti adesso non ne esistono più; ma prima di sparire dal mondo, i diavoli e gli esseri maligni cosa fecero? Lasciarono qua e là oggetti così impregnati della loro malignità che gli uomini che li toccavano diventavano cattivi e tramandavano la loro cattiveria ai loro discendenti. In altro modo non si spiega la malvagità di certi uomini che sembravano diavoli davvero. Gli stessi giudei che presero e uccisero Gesù erano uomini corrotti dall’aver toccato qualche oggetto del diavolo, e i bambini cattivi dei nostri tempi vengono ancora chiamati diavoletti. Ad ogni modo gli uomini fanno ancora una gran festa per ricordare la nascita di Gesù, loro liberatore; presso i popoli ancora patriarcali, come quello della Sardegna, la festa comincia veramente dopo la mezzanotte, si prolunga fino all’alba, con canti, suoni, balli, e dura tutto il carnevale. In certi paesi la gente si porta da mangiare in chiesa, e dopo il “Gloria” tutti cominciano a sgretolare noci e mandorle; all’alba il pavimento della chiesa appare coperto di bucce di mele, scorze di arance, gusci di nocciole. In quasi tutti i paesi la gente si scambia regali, e i fidanzati dànno alla sposa una moneta d’oro o di argento o mandano in dono un porchetto.
Quand’ero ragazzo, m’accadde un’avventura curiosa.
Mio padre era pastore di porci, e stava fuori di casa tutto l’anno, ma per il giorno di Pasqua e per Natale voleva immancabilmente tornare in paese. Finché fui piccolo io, egli in quei giorni faceva custodire il gregge da un servo; ma appena io potei aiutarlo egli mi condusse all’ovile, e la notte di Natale mi toccava di stare lassù, nel bosco umido e freddo, entro una capanna od anche dentro una grotta riparata dai venti e dalla neve, sì, ma nera e paurosa come le grotte delle leggende. Io non avevo paura, anche perché mio padre diceva che mi lasciava solo appunto per abituarmi ad essere coraggioso; ma nella notte di Natale mi sentivo triste, accasciato. Appena sera mi coricavo in un angolo, mi coprivo fino agli occhi col manto, lunga e larga striscia di orbace (panno sardo) che d’inverno noi pastori ci buttiamo sul capo e sulle spalle, allacciandola sotto il mento; e pensavo al Natale in paese. Ecco, pensavo, a quest’ora il fidanzato di mia sorella ha già mandato a casa nostra in regalo un bel porchetto dalla cotenna rossa, sventrato e riempito di foglie d’alloro, mia madre già prepara la grande cena, mentre mia sorella indossa il suo costume nuovo e mette in testa il suo cappuccio per andare alla messa. Arriva il fidanzato, con le saccoccie gonfie di arancie, di noci, di ciliegie secche; egli fa forza e si piega da un lato per tirar fuori tutte queste buone cose, le depone sulla panca accanto al focolare e dice: se il povero Moisè fosse qui! Serbategli questa mela cotogna che sembra d’oro.
Pensando a questo valente giovane io mi sentivo intenerire. Egli era di buona famiglia, ma non poteva ancora sposare mia sorella perché appunto la sua famiglia non voleva, essendo egli troppo giovane e dovendo ancora fare il soldato. Era allegro, burlone, aveva le tasche sempre piene di frutta secche, e per questo io gli volevo molto bene. Mio padre diceva che il fidanzato di mia sorella aveva in saccoccia più nocciuole che quattrini; ma io appunto lo preferivo così. Egli mi raccontava storie terribili, di banditi, di cavalli verdi, della Madre dei Venti, e mi piaceva anche per questo.
Una volta egli venne a trovarmi persino su nell’ovile, proprio all’antivigilia di Natale (mio padre era dovuto scendere in paese fin da quel giorno) stette fino al crepuscolo raccontandomi fiabe e storielle paurose. Egli mi diceva che i ragazzi non devono uscire di casa quando soffiano i venti, perché appunto allora la loro Madre, che gira assieme coi figli, porta via i viandanti deboli e gli esseri che non sono resistenti.
Verso sera egli se ne andò. Io rimasi solo, e sebbene la sera fosse calma avevo paura di uscire. Mi coricai sotto il manto, e cominciai a pensare alla festa dell’indomani notte. Mi pareva di veder arrivare a casa il fidanzato, con le saccoccie piene di frutta; le campane suonavano, le donne cullavano i bimbi cantando:

Su ninnicheddu,
Non portat manteddu,
Nemmancu curittu;
In tempus de frittu
No narat tittìa.
Dormi, vida e coro,
E reposa anninnianota 1.

La gente andava alla messa; e mi pareva di veder la chiesa illuminata da sette file di ceri e con gli altari adorni da rami d’arancio carichi di frutta. Al ritorno tutti sedevano sulle stuoie spiegate attorno al focolare, e la gran cena cominciava. Si mangiava il porchetto, il primo latte cagliato, il formaggio col miele; si beveva, si rideva.
Poi gli uomini anziani, seduti a gambe in croce attorno al fuoco, improvvisavano canzoni, e i giovani ballavano il ballo tondo: cominciava l’impuddilonzu (la festa dell’albeggiare), e tutti sembravano folli di gioia, tutti ridevano e cantavano perché era nato Gesù e il demonio doveva sparire dalla terra.
Io ero triste come una fiera sola nel bosco. Avevo undici anni ed era già il terzo Natale che passavo sul Monte; per me l’infanzia era davvero finita da un pezzo; eppure mi sentivo turbato come un bambino di cinque anni. A un tratto sento i maialini grugnire nella mandria, o meglio nel recinto di macigni ov’erano riparati! Un ladro? Il cane però, un grosso cane che sembrava un leone, legato ad un tronco d’albero, non abbaiava. Io ricordai le istruzioni ricevute da mio padre; quindi mi affacciai all’apertura della capanna chiamando “Basile” “Antoni” “Sarbadore” per far fuggire il ladro, al quale, gridando quei nomi, volevo far credere di essere in buona compagnia. Allora anche il cane cominciò ad abbaiare, e pareva parlasse e accusasse qualcuno; io però, se non avevo paura del ladro, ripensavo alle storie raccontate dal fidanzato di mia sorella, e non osavo avanzarmi.
La notte era fredda, ma limpida; la luna saliva sul cielo d’argento e ci si vedeva come all’alba. Io mi feci coraggio, presi l’archibugio lungo due volte più di me, e uscii sullo spiazzo; ma d’un tratto mi parve di vedere poco distante da me un gruppo di cinghiali guidati da un uomo nero e tozzo; ricordai allora che negli antichi tempi, prima che gli uomini fossero maliziosi, il diavolo pascolava alla notte le anime dei malvagi trasformate in porci selvatici, e con paura corsi a rifugiarmi nella capanna. Che volete? Ero anch’io senza malizia, allora, come gli uomini degli antichi tempi: la malizia cominciò a venirmi due giorni dopo, quando mio padre ritornò, contò i maialini e trovandone uno di meno mi bastonò. Per la vergogna io non gli avevo raccontato nulla, né della visita del fidanzato, né delle sue storie paurose, né del rumore sentito alla notte, né del mio terrore superstizioso. Egli credeva che io avessi lasciato smarrire nel bosco il maialino, e mi bastonò per questo: se avesse saputo della mia paura e del mio stupido terrore mi avrebbe bastonato lo stesso e si sarebbe beffato di me.
Ma chi cominciò a beffarsi di me, dopo quella volta, fu il fidanzato di mia sorella. Eppure egli non sapeva e non doveva saper nulla. E solo anni ed anni dopo, quando egli era diventato un uomo serio ed io un giovine pieno di malizia, tutti seppero il segreto di quella notte. Il maialino lo aveva rubato lui, il fidanzato, perché non aveva denari da comprarne uno; e l’indomani lo aveva regalato alla fidanzata, cioè a mia sorella. Era venuto su apposta, a raccontarmi le storie paurose, per impedirmi di uscire alla notte: mio padre, che era allora vecchio e pacifico come un patriarca, quando sentiva raccontare questa storia si faceva rosso per la stizza, pensando che aveva mangiato il suo maialino rubato; e voleva alzarsi dalla stuoia per corrermi dietro e bastonarmi ancora!».

Fine.


nota 1 –
Il bambinello,
Non porta pannolini,
Nemmeno corsetto;
In tempo di freddo
non dice «ho freddo».
Dormi, vita e cuore,
E riposa e fai la nanna.
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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Il vecchio Moisè
AUTORE: Grazia Deledda

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: "Novelle", di Grazia Deledda ; a cura di Giovanna Cerina ; Volume 5; Bibliotheca Sarda n. 11; Ilisso Edizioni; Nuoro, 1996

SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)