Pubblico, in anteprima, la mia postfazione al libro di poesie (di imminente pubblicazione) di Davide Monda, già noto come traduttore e storico delle idee, attento principalmente alle tradizioni di pensiero calvinistae platonico-agostiniana e ai rapporti fra letteratura ed etica.
«Io sono prima di tutto un poeta». Questo mi diceva Davide consegnandomi, non senza una certa mia lieta sorpresa, quest’opera, o meglio questo «ciclo» poetico, contrassegnati da un grado oggi inconsueto di organicità e di premeditazione, da un respiro e da un disegno strutturali e costruttivi organici, calcolati, per così dire baudelairiani («un libro che sia un libro, che abbia un inizio e una fine […]»), che oggi il «postmoderno» (tanto nelle sue forme minimalistiche, quanto in quelle neo-sperimentaliste) sembrerebbe escludere o far apparire obsoleti.
A dire il vero, avevo sempre sospettato che (in linea con tutta una illustre discendenza di poeti che furono anche critici, eruditi, filologi) la passione intellettuale ed umana che sostiene l’infaticabile lavoro del Monda critico, traduttore, comparatista, storico delle idee (insomma humanista nell’accezione più genuina e più piena), si esprimesse, e anzi trovasse la sua rivelazione più pura e più piena, anche e proprio nel discorso poetico.
Ma non pensavo che, come il Nietzsche dei Ditirambi di Dioniso (dopo che anche Zarathustra aveva dovuto subire la gloriosa «onta di parlare come un poeta», di patire quella purificatrice e salutare «malattia del linguaggio» che sono il simbolo, l’analogia, la metafora), Monda fosse, nel profondo, «soltanto folle, soltanto poeta»: folle, se così si può dire, della «follia» limpida, virtuosa, celeste di san Paolo, di Erasmo, di Kierkegaard – di una follia che in realtà è saggezza, virtù, sapienza, autentica scienza in un’epoca che (anche, e paradossalmente, nel dominio del pensiero e della ricerca umanistici) si inchina al «dispotismo edace delle tecniche», idolatrando, in nome degli spettri indefinibili di una presunta, impersonale «oggettività», un tecnicismo e uno specialismo esasperati.
In Monda – in accordo, se vogliamo, con la grande eredità del simbolismo europeo – l’assidua e variopinta indagine critica, estetica, erudita da un lato, l’esercizio – e diciamo pure l’ispirazione – poetici dall’altro, sono le due facce, le due epifanie – disperse ed unitarie, multiformi e concordanti – di una stessa identità intellettuale, di una stessa facoltà riflessiva e insieme creativa.
Né i suoi versi possono essere considerati – come sovente accade, e spesso a torto e frettolosamente, della «poesia dei professori», degli eruditi, degli studiosi – come semplici nugae o marginalia, come effimeri ed esteriori diletti, come fiorite ma esili variazioni germinate (come diceva Lemaître e ripeteva Serra) «en marge de vieux livres».
Semmai, la sua poesia esprime vividamente e limpidamente – in un «grande stile» solenne, sicuro, marmoreo, umilmente elitario, studiosamente limpido, forgiato anche dal tirocinio arduo, quasi parnassiano, dell’impeccabile traduttore di Vigny e di Baudelaire – la vera e pura essenza, tragica e insieme umanistica, dotta e ricercata ma, nel contempo, umanamente ed esistenzialmente sentita e sofferta, che nutre e sorregge tutta la sua esperienza e tutto il suo discorso.
Che si tratti di poesia o di critica, di traduzione o di ricerca storica, di filologia o di esegesi, alla base del discorso di Monda vi è uno stesso spirito di sacrificio, di sympàtheia, di universale humanitas, quasi di immolazione ad un ideale, ad un discorso più alti e più puri, ad un Verbo assoluto che ci sovrasta e ci trascende.
Non a caso, la nota preponderante, il Leitmotiv (la metafora musicale, come si vedrà, non è scelta a caso) del suo discorso poetico è una tensione ascendente e sublimante, d’ispirazione platonica e nel contempo baudelairiana: un anelito alla catarsi, alla purificazione, alla lustratio, alla consumazione di ogni peso e di ogni scoria nel vivo fuoco della creazione.
Quello di Monda è un «verso torturato ed ascendente». In lui, nel suo dire traspare l’»anima nuda del poetare tragico», un’anima capace di tendersi e di sfavillare fino alla fiamma eburnea e adamantina del martirio.
L’»accordo dissonante del progetto» (la coincidentia oppositorum, la discordia concors che tremano e palpitano nel midollo di un discorso culturale che trascende, in nome di un fine più elevato, ogni preconcetta contrapposizione) sfida l’effimero, il transeunte, il superficiale, la heideggeriana «Chiacchiera», dell’era postmoderna – il «cianciare porco» del «divenire diavolo che intossica».
Da un sapiente esercizio tecnico – niente affatto escluso, e anzi umilmente incoraggiato, dal respiro imperioso di una motivazione sovraindividuale, sovrastorica, se non mistica – sorgono, profondee limpide, «armonie trascendenti», «colonne profumate d’assoluto» che richiamano la mistica, pur se razionalistica ed agnostica, del Valéry del Cantico delle colonne, e più in generale la simbologia archetipica (ma soprattutto cristiana, da Prudenzio a Petrarca) della colonna come emblema di ascesi, volo metafisico, distacco dal suolo e dalle catene della terrestrità e della corporeità, irrefrenabile slancio verso il cielo.
«In questo abisso vivo, lungi dalle pozzanghere, / mi sono lungamente rispecchiato, / contemplando bagliori, raggi, luce». Rivive, qui, il dualismo baudelairiano, e poi scapigliato, di fango e luce, angoscia e ideale, degrado del reale e nobiltà dello spirito.
Lo «stile» dei maestri (simili ai Phares baudelairiani) è «disciplina / capace di dar vita a vita morta»: stile di vita e, insieme, di pensiero e di scrittura, «moralità» nel senso più alto, elevata ad ideale estetico e insieme etico, a misura assoluta che scandisce il cammino e l’esperienza umani ed esistenziali non meno che quelli intellettuali. È questa, forse, una rivisitazione – in senso platonico, o forse manzoniano o rosminiano – dell’ermetica «letteratura come vita».
Anche se «il nulla avanza», il poeta continua, nel suo sforzo di erudito e di ermeneuta, a «violare menti colme di infiniti», intuendo – quasi come nell’Apocalisse – «dietro il nulla» i frammenti di un possibile «mondo nuovo» – forse gli stessi «frammenti» con cui l’Eliot di The waste land «puntellava le sue rovine».
Proprio dall’abisso dell’apparente nullificazione, del degrado etico, della decadenza postmoderna (un abisso contemplato senza sterili angosceesistenziali, e men che meno con minimalistico compiacimento, ma piuttosto con una sorta di sovrano, signorile, apollineo distacco) sembra affiorare la luce disperata ma viva (quasi montaliano «lume che a notte balugina») di una possibile, estrema palingenesi. Qui davvero, nel senso più alto, «le style, c’est l’homme même»; il discorso letterario si fa, nel modo più pregnante, alta testimonianza umana ed etica.
Questa è, nell’essenza, la «spina dentro l’anima» a cui Monda intona il suo «severo canzoniere»: il kentron , il divino ed atroce “pungolo” dei Tragici e di san Paolo, di fronte al quale è vano «recalcitrare»; ma anche la kierkegaardiana «scheggia nella carne», la quale (malgrado le tante, e spesso assurde e morbose, illazioni) è, in fondo, la scrittura stessa, la creazione letteraria, il calamo acuto e rovente, il Libro a cui lo «scrittore cristiano», non troppo diversamente dal Poeta, consacra l’esistenza intera, commettendo la colpa essenziale e suprema di preferire la scrittura (con le sue idealizzazioni, le sue astrazioni, il suo assoluto) alla vita, lo specchio limpido dell’espressione alla concretezza impura e dolorosa dell’esperienza (due domini, del resto, quello dell’Erlebnis e quello della trasfigurazione formale operata dall’arte, che finiscono, poi, per non potersi più nettamente distinguere).
«Ogni esistenza di poeta», si legge nella Malattia mortale, «malgrado ogni estetica è peccato, cioè il peccato di poetare invece di essere». Il «pungolo nella carne» consiste appunto nel dover divenire – con i soli mezzi della poesia – «qualcosa di straordinario» al cospetto di Dio.
Ma, in Monda, la sostituzione dell’»anima» alla «carne» è sistematica e decisiva. La scrittura non è, in lui, occasione, strumento, spazio esistenziale, del peccato: essa è, al contrario, la materia e il tramite dell’ascesi estetica.
Un’analoga metamorfosi, un analogo processo di sublimazione e di trasfigurazione investono anche il tema della musica: non più, come in Hoffmann o nel Kierkegaard del Don Giovanni, potenza diabolica, insidiosa, tentatrice, esca strisciante di un’ardente sensualità, ma piuttosto – come in Schopenhauer, in Mallarmé o nell’ultimo D’Annunzio – musica come «sensualità rapita fuor de’ sensi», come «metafisica in suoni», diretta ed incorporea trasparenza dell’idea, immateriale ed eterea espressione di un pensiero levato al di sopra e al di là della materia greve ed impura.
Non è casuale che l’ispirazione musicale del «severo canzoniere» (che ricorda, anche e proprio per la vastità poderosa del disegno ciclico e meditato, l’opera di un altro poeta misticamente inebriato di canti senza parole e di «melodie rapprese in mondo», Arturo Onofri) oscilli fra Rameau e Bach: da un lato il «basso fondamentale» degli accordi profondi e pensierosi, dall’altro il «soggetto» dei fugati tortuosi e sottili – ma, in entrambi i casi, un nucleo essenziale, primigenio, originario, «minimale» diremmo oggi, da cui si diparte e si irradia l’intero tessuto del discorso musicale.
Si potrebbe ripetere, quasi a mo’ di sintesi, ciò che Debussy diceva di Rameau (cui dedicò un moderno, ingegnoso Hommage) quando parlava di una «tradition ( […]) faite de tendresse délicate et charmante, d’accents justes, de déclamation rigoureuse»; o la definizione che Rameau stesso dava della musica, «composé contenant une sorte de chant intérieur».
Sono proprio le pieghe riposte, le risonanze e gli armonici sfumati e vibranti di questo «canto interiore» che Monda (insospettabile discepolo di Diderot intento a recare in piena luce il paradossale ma profondo impegno etico che sorregge un severo, casto, anzi ascetico libertinage intellettuale) fa echeggiare nelle sue partiture verbali, muovendo dotte e rapide le dita – direbbe un simbolista – sull’avorio e l’ebano del «clavier des mots».
Gran sole generoso della Francia
soavitàdelle quattro stagioni,
sublime in questo puro mezzogiorno,
( […])
ascoltate chi ormai volge al morire.
O armonie sublimi, che limpide sorgeste
dastudi aspri e accaniti, da roride passioni.
Peraltro, è qui escluso ogni sterile esercizio strutturalistico o semiologico intorno alle dinamiche interne, alle «leggi» o al «sistema» che governerebbero, addirittura al di là o al di fuori della consapevolezza del poeta, l’»autonomia del significante», il suono puro e libero, svincolato dal senso.
Monda è sempre lucidamente e programmaticamente padrone del suo dire – un dire spesso, stratificato, maturo, che sembra venire da lontano, e risuonare, quasi, come poesia tradotta, tanto è nutrito di classicità e di coscienza culturale.
A parlare non è, qui, l’Autre di Lacan, non è un Signifiant dotato quasi di vita propria, che parla e agisce di per se stesso, usando come mero tramite e strumento un Soggetto spossessato, depotenziato, reso quasi passivo ed anonimo; e non è nemmeno una traccia, un gramma scomposto, lacerato, decostruito, che finisca per ripetere vacuamente a se stesso il proprio nulla.
Il nucleo semantico e fonico di questa poesia è, piuttosto, l’ipòstasi dell’Idea, del Principioplatonici che si sono immersi, modellandola, plasmandola, imprimendole un ordine, nella materia sillabica, verbale, versale
A monte del dire c’è un nucleo che, per citare il D’Annunzio lettore di Schopenhauer, «esisteva già, preformato, nell’oscura profondità della lingua», e seguita ad esistere nella coscienza, solidale e indivisa, del poeta e del lettore.
Ma a tralucere e risuonare è, nei versi di Monda, anche la rosminiana e manzoniana Idea dell’Essere, l’ens analogum univocum che – come mostra il dialogo manzoniano Dell’invenzione – avvolge, accomuna e stringe in un solo serrato nodo ontologico l’uomo e la realtà, la natura e l’espressione, e che si rivela in tutta la sua eletta limpidezza e la sua grazia assoluta – vincendo la tentazione dell’indifferenziato, la sorda lusinga del nulla, il limite rassicurante ma asfittico della materia e della percezione immediata – nella forma e nel discorso dell’arte.
Proprio in quel Principio, in quell’Archetipo la moltitudine dispersa delle parole anela a trovare – al di là della Palus Putredinis, oltre il labirinto e la Babele della postmodernità – un ordine e un senso rinnovati e più puri.
Matteo Veronesi