Il segreto del ghiacciaio

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Eravamo avviati in una gita verso un ghiacciaio partendo da un villaggio del Gründelwald allorchè la nostra guida accennando un vecchio ricurvo seduto su una panchina fuori dell’hôtel ci disse:

— Osservate quell’uomo e vi narrerò la sua triste istoria durante il cammino.

Tiburzio, così si chiamava il vecchio, era nato in quel paesello fra le montagne e vi avea vissuto sempre: i suoi genitori erano stati brava gente, che aveano allevati i figliuoli nel timor di Dio e nell’onestà: Tiburzio era il maggiore di quattro, di modo che appena seppe tenersi sulle sue robuste gambette, lo impiegarono in quelle faccenduole che potevano fargli guadagnare qualche soldo. Suo padre faceva da guida ai forestieri nell’estate e d’inverno intagliava artisticamente portapenne, calamai, cassettine e simili, che Tiburzio poi vendeva ai touristes di passaggio.

Il casolare di Tiburzio era situato a breve distanza dal villaggio sulla strada carrozzabile che a strette spirali viene dalla vallata d’Interlaken. Questa strada è molto più elevata a Gründelwad che a Interlaken, ed arrampicandosi sul dosso della montagna, ad un certo punto di essa forma per un chilometro o due un’insenatura quasi, lungo la quale trovansi certe mosche irritanti che sono di gran tormento ai cavalli, provenienti dalla valle. E di ciò è vecchia usanza che i fanciulli del villaggio corrano per quel tratto di strada a fianco degli animali ansimanti, sventolando via le mosche importune, e questa fu la prima impresa del piccolo Tiburzio.

Allorchè fu più grandicello aiutava anche ad abbeverare i cavalli alle fermate e in scuderia. Naturalmente egli agognava alla carriera di guida, ma benchè a sedici anni egli fosse robusto ed intelligente, dovea attendere altri due o tre anni prima di poter assumere la responsabilità di un tal mestiere.

La sua ambizione però non lo lasciava tranquillo, ed un giorno mentre gironzava alle falde del ghiacciaio sul quale sperava poi di guidare i touristes, un’idea gli traversò la mente: – Perchè non potrei, come Augusto, scavare una galleria nella parte più bassa del ghiacciaio e farla visitare come lui? Egli ha due anni più di me ma non è più robusto.

Si avviò spesse volte in quella direzione e osservò lungamente Augusto il quale manteneva in buon stato la sua galleria e vi conduceva numerosi viaggiatori.

— Ah questo è un compenso! esclamò Tiburzio vedendo le monetine d’argento che passavano dalle mani d’Augusto nelle sue saccoccie. Altro che metter in fuga le mosche!

E quello stesso dì egli s’accinse all’opera, scavando a poca distanza una grotta e un sottopassaggio come quello del suo compaesano: ma un pensiero lo angosciava: il suo tunnel stillava e quello d’Augusto no.

Anzi Tiburzio una notte vi si arrampicò per esaminarlo: no, non stillava mentre dal tetto del suo l’acqua cadeva in diversi punti.

Ciononostante Tiburzio si tacque e quando ebbe finito il suo lavoro di scavo, egli si collocò all’imboccatura del suo tunnel, invitando sorridente i passeggieri. Ma i sorrisi svanirono ed i suoi occhi lampeggiarono d’ira, allorchè i viaggiatori scorgendo dall’entrata quel stillicidio si ritiravano tosto. Per quanto Tiburzio esortasse ed incoraggiasse poca gente si persuadeva alla visita e quella poca ne usciva brontolando per essersi bagnata ed entrava ad ammirare la bella galleria di Augusto, ed egli poteva udirne gli elogi e i commenti ammirativi.

E così la sua impresa falliva, senza sua colpa, perchè era accaduto che i suoi scavi traversassero delle sezioni ove il ghiaccio era poroso e l’acqua ne gocciolava. Tiburzio sentiva crescere sempre più il suo odio verso Augusto.

Un giorno, essendo il tempo minaccioso e nessuna probabilità di curiosi, Augusto si accinse ad un’esplorazione a traverso il ghiacciaio: sperava di poter essere nominato guida tra poco e voleva rendersi esatto conto delle sezioni più pericolose dell’immenso campo di ghiaccio.

Non si sapeva veramente se Augusto fosse andato sul ghiacciaio ma egli aveva parlato della sua intenzione in famiglia: e ciò fu tutto quanto si seppe per anni ed anni del povero Augusto Fronier. Ma non anticipiamo gli eventi.

Il dì seguente alla sua esplorazione notturna Tiburzio era al suo posto all’entrata del suo tunnel, Augusto invece mancava al suo. Vennero dei forestieri i quali entrarono e uscirono liberamente dalla galleria: Tiburzio guardava cupamente e taceva, in testa non avea il suo berrettino rosso usuale bensì un cappello nero.

Sull’imbrunire circolò la voce che Augusto era scomparso misteriosamente: suo padre desolato e mezzo storpio errava di qua, di là chiedendo notizie. Nessuno poteva dargliene: Tiburzio fu interrogato: non sapeva nulla, ed aggiunse dispettosamente che non era affar suo l’occuparsi di Augusto.

Un vecchio sembrava insospettito.

— E dov’eri tu stesso? chiese, posandogli una mano sulla spalla e guardandolo negli occhi.

— A lavorare nel mio tunnel, rispose il ragazzo fieramente, svincolandosi dalla stretta di quel vecchio.

Per varii giorni le guide più provette, gli uomini più robusti visitarono i crepacci del ghiacciaio fin quasi alla sua vetta, e le strade tortuose della vallata, ma indarno: nessuna traccia di Augusto nè vivo nè morto: l’unica notizia, che non fu commentata che più tardi, si fu quella d’un forestiero: quel giorno egli stava osservando dalla finestra dell’hôtel il magnifico panorama con un cannocchiale potente ed avea veduto due uomini – o giovinetti che fossero – insieme in alto dal lato nord-est del ghiacciaio.

Passarono mesi ed anni e nulla si seppe più dello sventurato Augusto. Dei sospetti s’insinuarono, crebbero, si accumularono col tempo sopra Tiburzio, provocati anche dal suo contegno sempre più riservato, bisbetico, quantunque a venticinque anni egli fosse una guida stimata. Egli passò così con questo stigma sul suo capo, dalla adolescenza e la virilità, ad una vecchiaia prematura: non prese moglie ed economizzava soldo per soldo i suoi guadagni.

L’anno prima che io venissi al villaggio la luce si era fatta sull’accaduto di tanti anni prima, ed aveva menato gran rumore. Tiburzio era divenuto vecchio, non tanto per l’età quanto per le fatiche e gli strapazzi sofferti ed avea smesso il suo mestiere di guida; per |passare il tempo era tornato all’occupazione della sua adolescenza, cioè la costruzione di un passaggio ai piedi del ghiacciaio.

Un giorno, l’estate prima di quella ch’io venissi a Gründelwald, il vecchio Tiburzio stava mostrando il suo tunnel ad alcuni touristes: i giorni precedenti erano stati nebbiosi e non venendo nessun forestiero il vecchio si era occupato a prolungare la galleria di qualche metro più addentro nel ghiacciaio.

Egli giaceva in quella posizione frammischiando grida lamentevoli e preghiere a Dio.

Egli giaceva in quella posizione frammischiando grida lamentevoli e preghiere a Dio.

Il vecchio Tiburzio non vi era tornato nel mattino di quel giorno, e precedeva la comitiva per vedere se il passaggio rischiarato ora dal sole era in ordine: egli entratovi voltò dietro un angolo: dopo qualche istante la comitiva fu atterrita da un urlo straziante che echeggiò dalle strette volte del tunnel. Alcuni uomini vi si affrettarono, guidati dai gemiti che si ripetevano ad intervalli.

Giunti all’estremità della galleria inciamparono o quasi caddero sopra il corpo prostrato al suolo del vecchio Tiburzio, giacchè la luce nei giorni sereni si riflette e s’infrange sulle pareti di quei tunnel di ghiaccio. Egli giaceva in quella posizione frammischiando grida lamentevoli e preghiere a Dio.

Al primo istante nessuno comprese la cagione di quella scena inaspettata, se dipendeva da un dolore fisico o morale, ma abituatisi gradatamente al chiarore nel quale erano avvolti, indietreggiarono inorriditi e sorpresi, alla vista meravigliosa che si presentava ai loro sguardi. La parete della galleria era trasparente e tersa come un cristallo, nella sua cavità riposava, perfettamente conservato, il corpo d’un giovanetto. Quei tre uomini vigorosi e provetti rimasero muti, impressionati dinanzi a quella vista sopranaturale.

Il silenzio venne rotto dallo stesso Tiburzio il quale, a ginocchioni e colle mani congiunte, gemeva:

— Augusto! Augusto! Dio di misericordia, abbiate pietà di me!

I viaggiatori, ignari del passato, nulla comprendevano di quella strana situazione, e non potendo ottenere altre spiegazioni dal vecchio desolato, lo trassero di là a braccia, ansiosi di ritrovarsi all’aria aperta.

La notizia, sparsasi in un baleno nel villaggio, ben tosto radunò gran parte dei suoi abitanti all’imboccatura del tunnel, mossa da principio a commiserazione per la vecchia guida, ma poco a poco un’altra convinzione penetrò nei loro animi, ed intorno al vecchio ai formò il vuoto.

I più giovani entrati a vedere la tomba di ghiaccio non potevano identificare la fisonomia del morto, meravigliosamente conservata, ma tra la folla si trovarono alcuni vecchi, e tra essi una donna, la quale alla vista di quel volto imberbe sclamò:

— È Augusto: la colpa si vendica! e scopre il colpevole. Essa allora si diresse verso la zolla d’erba su cui Tiburzio giaceva sulla spianata e lo fissò solennemente, tra l’attenzione e il silenzio degli astanti.

— Tiburzio! Tiburzio! gridò con voce quasi profetica, il vostro peccato è scoperto!

Il vecchio sembrò scuotersi e trovare un avanzo d’energia per difendersi: si drizzò, girò gli occhi attorno, ma li riabbassò sgomento sotto lo sguardo di fuoco della vecchia donna.

— Chi lo dice? mormorò, chi dice che fui io? chi lo proverà? ed incoraggiandosi vieppiù, levò le braccia al cielo e gridò:

— Chi oserà accusarmi? ma rinculò atterrito allorchè un’altra vecchia, che usciva dalla galleria si unì alla prima e stendendo le sue mani stecchite e lunghe verso di lui, urlò:

— Io, Tiburzio, io l’oserò: quello sventurato fanciullo non era egli l’unico figlio del mio diletto fratello?

E volgendosi alla folla radunata, soggiunse:

— Andate a guardare nuovamente, miei buoni compaesani, quel povero giovinetto nella sua tomba e vedrete stretto ancora fra le sue dita il berretto di lana rossa che soleva portare Tiburzio.

Era vero!

E la mia storia è al suo termine. Tiburzio era il colpevole, abbenchè egli si ostinasse nel più cupo silenzio, si potè ricostruire il fatto. Egli aveva gettato il compagno in un crepaccio del ghiacciaio, e nella lotta aveva perduto il berretto. Egli aveva compiuto il suo delitto a molti chilometri di distanza sulla vetta della montagna, ma in quegli anni la discesa progressiva dei ghiacci aveva trasportato il corpo – chiuso da essi e sottratto al contatto dell’aria – giù giù fino a deporlo ai piedi del suo assassino.

Il ghiacciaio avea serbato il segreto: la colpa stessa lo aveva svelato.

Fine.


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TITOLO: Il segreto del ghiacciaio

AUTORE: n.d.

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:

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TRATTO DA: Le avventure di Sherlock Holmes : romanzo illustrato. - Milano : Tip. Edit. Verri, 1895. - 160 p. : ill. ; 20 cm.

SOGGETTO: FIC022050 FICTION / Mistero e Investigativo / Brevi Racconti