Il Rubino.

di
Egisto Roggero

tempo di lettura: 8 minuti


Il funerale era presso al termine.
La piccola cappella gentilizia, – dalla quale la luce filtrante vaporosa dai due finestroni colorati aperti nelle pareti laterali non bastava a cacciare le ombre, – era stipata dagli amici e dai più lontani congiunti venuti a rendere l’ultimo tributo alla vecchia e buona baronessa.
La voce monotona dell’officiante scendeva piana e solenne dall’altare, e passando di sopra al feretro sepolto sotto le rose, grande passione della vecchia signora, trasvolava sugli eleganti genuflessi come una mistica musica dell’«al di là», piena di recondita pace e di perdono per le affannose follie della vita di ogni giorno.
Nella Cappella si spandeva un vago odore d’incenso e di fiori freschi: e vagolavano qua e là, a tratti, sottili ondate di profumi mondani che venivano da quelle sete, da quelle teste brune e bionde chinate in devoto raccoglimento, da tante giovinezze vive e raffinate, per un momento raccolte là, in quella casa del Signore, intorno al feretro della Baronessa, la quale avea lasciato il proprio mondo privilegiato per volarsene nel gran mondo degli eguali.
Fuori, intorno alla porta della Cappella, accalcavasi la folla dei contadini e dei servi – i più sinceramente commossi di tutti, forse – perchè non altro che bene poteano ricordare della benefica Signora, dormente in quel momento nel sontuoso cofano nero infiorato….

Egli era riuscito con qualche fatica a cacciarsi in mezzo al fitto di signore o signori, e come fascinato teneva gli occhi su quel feretro, intorno al quale quattro enormi faci ardevano con una vampa lugubre.
Era pallido e inquieto; invano tentava celare l’irrequietezza che suo malgrado lo faceva fremere tutto, e dava rapidi sguardi dubbiosi intorno a sè, sui più vicini, nella tema di essere osservato.
La funzione finì.
Le ultime parole del prete – nella frase rituale di eterno saluto e di pace – echeggiarono forti e distinte ripercosse dalla vôlta della cappella.
La signorile folla si raccolse per un ultimo saluto alla pia Anima partente per sempre; poi tutti si alzarono e cominciarono ad andarsene. Rimasero i congiunti ed i più intimi.
Egli, non osservato in quel momento supremo, non si mosse.
La bara fu attorniata. Tolte le ghirlande, le rose e la nera coltre di seta, la ricchissima bara, di noce scura, apparve nuda.
Egli si avvicinò, pallido e sinistro, per guardare meglio.
Il prete benedì ancora una volta il muto involucro che racchiudeva le fredde spoglie della Dama – che in sua vita era stata buona e molto aveva amato; poi quattro servi della Casa, vestiti delle livree di lutto, alzarono sulle spalle la cassa e seguiti da tutti i presenti la portarono nella cripta sotterranea della Cappella, ove, accanto ai congiunti che l’aveano preceduta in quella quieta ultima dimora di pace e di silenzio, dovea esser tumulata.
Una piccola urna di sasso, appoggiata alla parete e dalla Morta fatta precedentemente preparare, attendeva scoperchiata.
Era del tutto uguale ad un’altra, pure di sasso, già da dieci anni chiusa e contenente i resti del Barone che l’avea anch’esso preceduta.
Un ultimo saluto, un’ultima prece: poi la cassa vi fu calata dentro insieme a tutte le rose che avevano odorato nelle esequie; e rimesso a posto il coperchio di marmo, il prete, i parenti, gli amici, i servi uscirono uno dopo l’altro dalla cripta tenebrosa sino allora fumidamente rischiarata da due faci.
Chiusasi la porta ferrata egli, che s’era nascosto, non visto, in un angolo, rimase solo, nel buio immenso destinato a proteggere il sonno di quei morti.

È notte fonda.
Tutto il giorno egli ha sentito passeggiare sulla sua testa, di sopra, nella Cappella, gli ultimi visitatori attratti dalla curiosità o da un sentimento di pietà verso la buona signora la cui anima era già volata in cielo.
Poi man mano il calpestìo si era fatto più raro; e quando cessò del tutto ed anche il custode del camposanto si fu ritirato, egli uscì dal suo nascondiglio. Toltasi di tasca una piccola lanterna cieca, ne trae la luce, proiettandola intorno, rapidamente.
Solo!
Allora egli va a frugare dietro una tomba – designata evidentemente – e trova quanto sa dovervi essere perchè ivi in precedenza nascosto: – una leva di ferro ed altri strumenti i quali in quella quieta dimora dei morti non possono che essere sacrileghi.
Ma la sua mano non trema afferrandoli.
Egli è pallido, ma sicuro.
Posata la lanterna, ne proietta la luce sulla nuova tomba or ora chiusasi; ma prima di cominciare la sua opera, ritto in piedi, freddo, rigido, spettrale egli riflette un momento.
Perchè è là dunque – sacrilego e solo – in quel momento, in mezzo a quei morti?
Ah! la baronessa ha nel dito – e non lo sa che lui – un anello, un gioiello, un rubino d’inestimabile valore ch’ella ha voluto portare seco anche al di là.
Quel gioiello, che è un tesoro, è anche un talismano della vecchia potentissima famiglia.
Chi possiede quel magico rubino, che uno dei vecchi ha recato nei secoli lontani da Terra Santa, eredita la ricchezza, la potenza, l’amore, la fatalità della grande quasi spenta Famiglia.
La baronessa l’ha avuto in pegno dal marito, al quale ora dorme finalmente accanto.
Un solo erede dovrebbe avere quel rubino: un nepote, un unico nepote: l’ultimo della grande schiatta; senonchè egli è un essere degenerato: a diciotto anni tutta la corruzione, tutto il guasto, tutta la bassezza di un’anima vile sono raccolti nel suo corpo precocemente consunto dai vizi e dalla vita indegna.
La buona baronessa non ha voluto che il talismano datore di potenza e di forza cadesse nelle mani di quel nipote degenere; – egli farebbe un ben triste uso di quelle facoltà che ai suoi avi, al suo sposo, od a lei stessa consentirono di asciugare tante lagrime e di rasserenare tanti cuori. Forse esso avrebbe servito a far versare delle lagrime, e magari a saziare le cupide brame di qualche cortigiana!…
E come ella ha diviso il suo immenso patrimonio tra i poveri – lasciando appena di che vivere, aiutandosi con il lavoro, all’indegno nipote – così ella ha voluto sottrarre a lui quel prezioso rubino, portandolo con sè, fedele amico, nelle grandi tenebre della tomba.
Ed egli, ora, davanti alla tomba che cela il tesoro mormora:
— Oh! la volontà della Morta sarà esaudita!… No, non sarà il degenere nepote che avrà in retaggio il prezioso rubino…. Qualcun’altro ne diverrà il padrone!…
È lui che deve avere quel gioiello.
Egli che è povero sarà ricco; egli che è ambizioso sarà potente: egli che vuol dominare il mondo salirà alto sulle folle; egli che è avido d’amore sarà pazzamente amato!
Egli che non è nulla, sarà tutto.

Il coperchio di sasso dell’urna cede facilmente alla leva, ed ecco la cassa bruna sotto le rose. Egli le getta a piene mani per terra, intorno a sè.
Un acuminato ferro s’introduce nel legno.
Egli lavora febbrilmente.
La tavola che chiude la cassa è solida: ma alfine cede, si stacca dalle pareti, è tolta via.
Ecco la nuova cassa di metallo, lucida e scintillante al raggio della lampada.
Una grande croce nera la cinge tutta e la protegge. L’acuminatissimo ferro morde il metallo: è un lavoro lungo, acre, faticoso, ma anch’esso giunge a termine. Tutta la lamina superiore è staccata; un ultimo sforzo e vien via.
Ecco nuove rose: bianche queste e intensamente fragranti; – via le rose, via a fasci, per terra, sotto i piedi, sopra le altre già calpestate.
Ecco il bianco velo della Morta.
Egli è pallido: però non trema.
Con un rapido atto solleva il velo che copre il volto cereo, immacolato, sereno, dormente. I bianchi capelli si confondono con la neve delle carni.
Le mani, le mani dunque?…
Eccole incrociate sul seno: un filo di rosario s’intreccia fra le dita di ghiaccio.
Egli getta su di esse il fascio della luce.
Si china a spiare.
Il rubino, il talismano, il fatale gioiello ov’è desso dunque?…
Le dita sono rigide, ossute, ma nude, spoglie, date tutte al purissimo rosario di picciole perline innocenti, forse di vetro….
Guarda, fruga, sconvolge e profana quelle dita di santa. Nulla. Il rubino non c’è.

Egli non comprende.
Accosta la lanterna al volto della baronessa e gli pare intravvedere nell’ultima ruga che la morte ha collocato agli angoli delle sue labbra un sottile sorriso di scherno, d’ironia, di pietà fors’anche….
In quel momento dà un sobbalzo. Un sordo rumore risuona sulla sua testa…. Qualcuno cammina di sopra sulla vôlta della cripta nella Cappella….
Egli trattiene il respiro: tutto il suo essere è nell’udito.
Sì: qualcuno ha attraversato la Cappella. I suoi passi si sono fermati alla porta della cripta. Sente il rumore dei battenti che si aprono…. Ha appena il tempo di spegnere la lanterna e gettarsi dietro alla tomba.
Di là dietro egli vede….
Un uomo è entrato, guardingo; si è arrestato al fondo della breve scaletta. Ha in mano una lanterna, come la sua, e nell’altra un ferro. Sembra dubbioso, forse perplesso….
La sua testa è nell’ombra. Finalmente avanza egli pure verso la nuova tomba….
Vedendo la Morta senza velo, che sembra guardarlo, egli dà due passi indietro.
La lampada, nell’atto brusco, ha illuminato vivamente il suo volto pallido e contraffatto dal terrore e dalla sorpresa. L’altro ha riconosciuto in lui il nepote della Morta: le labbra sottili, la ruga amara agli angoli della bocca, le occhiaie livide del Diseredato….
Il nuovo venuto – rimessosi un momento dallo sbalordimento e dal terrore della improvvisa, inaspettata visione – volge ora intorno, per la cripta, la lampada, cercando forse chi lo ha preceduto….
E questi allora – gli è forse possibile celarsi oltre? – balza dal suo nascondiglio e si fa avanti….
E i due ladri rimangono immobili, l’uno di fronte all’altro, sulle rose sparpagliate al suolo, davanti la bianca salma della Morta, la quale dorme serenamente il suo eterno sonno che nulla ora vale più a turbare.

E intanto di sopra, sulle loro teste, nella Cappella che la notte proteggeva con le sue tenebre, il prezioso rubino infisso nel dito della Vergine dominante l’altare, mandava indistinti bagliori al lontano raggio di una stella filtrante di tra i vetri istoriati d’uno dei finestroni….

Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Il Rubino
AUTORE: Egisto Roggero

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA:I racconti meravigliosi / Egisto Roggero. - Milano : La poligrafica, 1901. - 257 p. ; 20 cm.

SOGGETTO: FIC000000 FICTION / Generale