Il prezzo della sposa

di
Jack London

tempo di lettura: 16 minuti


— Così vi darò sei coperte, calde e pesanti; sei raspe, grandi e dure; sei coltelli della Baia di Hudson, lunghi e aguzzi; due canoe, il lavoro di Mogun; dieci cani dalle spalle poderose e forti al tiro; e tre fucili… il grilletto di uno è spezzato, ma è un buon fucile, e può essere indubbiamente riparato.

Keesh tacque, e girò gli occhi sul cerchio dei visi intenti. Era l’epoca della Grande Pesca, ed egli chiedeva a Gnob la figlia Su-Su in sposa. Ciò accadeva nella Missione Saint George, sullo Yukon, dove s’erano raccolte le tribù che abitavano per centinaia di miglia tutt’intorno. Da nord, da sud, da est, da ovest erano venuti, fino da Tozikakat, e fin da Tana-naw.

— E di più, Gnob, tu sei il capo del Tananaw; ed io, Keesh, il figlio di Keesh, sono il capo dei Thlunget. Perciò, quando nasceranno i miei figli, vi sarà una grande amicizia fra le tribù, e i Tana-naw e i Thlunget saranno fratelli del sangue, nei tempi a venire. Ciò che ho detto farò. E che ne dite voi, o Gnob?

Gnob abbassò gravemente la testa: la sua faccia vecchia e rugosa mascherava inscrutabilmente l’anima. Gli occhi stretti ardevano come carboni sotto le palpebre socchiuse, mentre diceva, con una voce acuta e tremante:

— Ma questo non è tutto.

— Che altro? – domandò Keesh. – Non ho offerto abbastanza? È mai esistita una fanciulla Tana-naw che sia stata portata via a un prezzo più grande? Allora nominatela!

Un sogghigno aperto passò intorno al cerchio, e Keesh comprese di esser canzonato da quella gente.

— No, no, buon Keesh, tu non comprendi – disse Gnob, con un gesto come per calmarlo. – Il prezzo è buono. È un ottimo prezzo. Non mi fermo sul grilletto spezzato. Ma non è tutto. Che mi dite dell’uomo?

— Sì, che dite dell’uomo? – ringhiarono gli uomini del cerchio.

— Si dice – riprese la voce acuta di Gnob – si dice che Keesh non vada per la via dei suoi padri. Si dice che abbia vagato nelle tenebre, seguendo strani dei, e che sia pauroso.

La faccia di Keesh si rabbuiò

— È una menzogna – tuonò. – Keesh non ha paura di alcun uomo.

— Si dice – continuò il vecchio Gnob – che abbia appreso la lingua dell’uomo bianco, lassù alla Casa Grande, e che egli curvi il capo davanti al Dio del bianco, e, di più, che al Dio del bianco dispiaccia il sangue.

Keesh abbassò gli occhi e congiunse appassionatamente le mani. Il cerchio selvaggio rise con derisione, e Madwan, lo shaman, il gran sacerdote e stregone della tribù, mormorò qualcosa all’orecchio di Gnob.

Lo shaman cercò fra le ombre, di là dalla luce del fuoco, e fece levare in piedi un sottile ragazzo, che portò di fronte a Keesh; e nella mano di Keesh mise un coltello.

Gnob si curvò avanti:

— Keesh, o Keesh! Osi tu uccidere un uomo? Guarda! Questo è Kitz-noo, uno schiavo. Colpisci, Keesh, colpisci con la forza del tuo braccio!

Il ragazzo tremò e attese il colpo. Keesh lo guardò, e vari pensieri, che partecipavano della moralità più alta del pastore Brown, gli attraversarono la mente, e fu vivissima la visione delle fiamme dell’inferno particolare del pastore Brown. Il coltello cadde al suolo, e il ragazzo sospirò e si allontanò dalla luce del fuoco, con le ginocchia tremanti.

Ai piedi di Gnob era disteso un cane-lupo, che scopriva le zanne scintillanti, pronto a balzare dietro il ragazzo. Ma lo shaman lanciò il piede contro il corpo del bruto, e quel gesto suggerì un’idea a Gnob.

— E allora, Keesh, che faresti tu se un uomo ti trattasse in questa maniera? – E nel parlare Gnob tese un salmone a Zanna Bianca, e, quando l’animale tentò di afferrarlo, lo colpì fortemente con un bastone sul naso. – E poi, o Keesh, agiresti così? – aggiunse, mentre Zanna Bianca si accovacciava, leccando la mano di Gnob. – Ascolta! – continuò Gnob, levandosi in piedi con l’aiuto del braccio di Madwan. – Sono vecchissimo, e perchè vecchissimo posso parlarti con sincerità. Tuo padre, Keesh, era un uomo potente. Ed egli amava la canzone dell’arco nella battaglia, e questi occhi l’hanno veduto avventare la lancia, finchè la testa è uscita dall’altra parte del corpo dell’uomo. Ma tu non gli somigli. Da quando hai abbandonato il Corvo per adorare il Lupo, temi il sangue e fai temere il sangue al tuo popolo. Questo non è bene. Perchè, vedi, quando eri ragazzo dell’età di Kitznoo, non c’era un bianco in tutta la terra. Ma sono venuti uno per uno, questi bianchi, finchè ora sono moltissimi. E sono d’una razza irrequieta, mai contenti di riposare accanto al fuoco, col ventre pieno, lasciando che l’indomani porti la sua carne. Una maledizione fu messa su loro, si direbbe, ed essi devono lavorare nella fatica e nelle privazioni.

Keesh sussultò. Gli venne il ricordo vago di una storia raccontata dal pastore Brown, su un tale Adamo, dei tempi antichi, e gli parve che il pastore Brown avesse detto il vero.

— Perciò mettono le mani su tutto ciò che vedono, questi bianchi, e vanno dovunque e vedono tutto. E altri ancora seguono sempre sui loro passi, sicchè, se nulla si farà, finiranno col possedere tutta la terra, e non vi sarà più posto per le tribù del Corvo. Perciò è necessario che li combattiamo tutti, finchè non ne rimanga alcuno. Allora terremo tutti i valichi e tutta la terra, e forse i nostri figli e i figli dei nostri figli fioriranno e ingrasseranno. V’è una grande lotta a venire, quando il Lupo e il Corvo si abbrancheranno; ma Keesh non combatterà, nè lascerà che il suo popolo combatta. Perciò non è bene che egli prenda per sè mia figlia. Così ho parlato, io, Gnob, capo dei Tana-naw.

— Ma i bianchi sono buoni e grandi – rispose Keesh. – I bianchi ci hanno insegnato molte cose. I bianchi ci hanno dato coperte e coltelli e fucili, quali noi non abbiamo mai fatti e mai potremmo fare. Ricordo in che maniera vivevamo prima che essi venissero. Non ero nato ancora, ma lo so da mio padre. Quando andavamo a caccia, dovevamo accostarci assai vicino all’alce, affinchè la lancia potesse superare la distanza. Oggi usiamo la carabina del bianco, e l’usiamo da una distanza maggiore da quella da cui si può udire il vagito d’un bambino. Mangiavamo pesce e carne e bacche… non c’era null’altro da mangiare… e mangiavamo senza sale. Quanti ve ne sono, tra voi, che ci tengono a tornare alla carne e al pesce senza sale?

Le parole di Keesh avrebbero incontrata l’approvazione dei suoi ascoltatori, se Madwan non fosse balzato in piedi, prima ancora che il silenzio cadesse.

— E prima una domanda a te, Keesh. Il bianco lassù alla Casa Grande dice che è male uccidere. Eppure non sappiamo che i bianchi uccidono? Abbiamo forse dimenticato la grande battaglia sul Koyokuk? O la grande battaglia del Nuklukyeto, dove tre bianchi uccisero dodici dei Tozikakat? Credete che non rammentiamo più i tre uomini di Tana-naw che il bianco Macklewrath uccise? Ditemi, o Keesh, perchè lo shaman Brown v’insegna che è male combattere, quando tutti i suoi fratelli combattono?

— No, no, non c’è bisogno di risposta – gridò Gnob, mentre Keesh lottava contro il paradosso – è semplicissimo. Il brav’uomo Brown vorrebbe tener fermo il Corvo, mentre i suoi fratelli gli strappano le penne. – Elevò la voce – Ma finché c’è un Tana-naw per avventare un colpo, o una fanciulla per dar vita a un Tana-naw, il Corvo non sarà spiumato.

Gnob si voltò ad un giovane, dall’altra parte del fuoco:

— E che ne dici tu, Makamuk, che sei fratello di Su-Su?

Makamuk si levò in piedi. Una lunga cicatrice facciale gli sollevava il labbro superiore in un perpetuo sogghigno, confermato dall’ardente ferocia degli occhi.

— Oggi – cominciò il giovane – sono passato davanti alla capanna del trader Macklewrath. E alla porta ho veduto un bambino che rideva al sole. E il bambino mi ha guardato con gli occhi del trader Macklewrath, e s’è spaventato. La madre è corsa per quietarlo. La madre era Ziska, la donna Thlunget.

Si levò un ringhio di rabbia che egli fece tacere, voltandosi drammaticamente su Keesh, col braccio teso e il dito accusatore.

— Date dunque le vostre donne, voi Thlunget, e venite dai Tana-naw per altre? Ma no, noi abbiamo bisogno delle nostre donne, o Keesh, perchè dobbiamo allevare molti uomini, per quando il Corvo si abbrancherà col Lupo.

Nella tempesta degli applausi, la voce di Gnob si levò chiara e forte:

— E tu, Nossabok, che sei il fratello favorito di Su- Su?

Il giovane era sottile e grazioso, col forte naso aquilino e le alte sopracciglia del suo tipo; ma, per un tic nervoso la palpebra del suo unico occhio si abbassava di tanto in tanto, come per ammiccare. Mentre si levava in piedi, la palpebra si abbassò un momento. Ma non fu salutato col solito scoppio di risa. Tutti i visi erano gravi.

— Anch’io son passato davanti alla capanna del trader Macklewrath – cominciò, con tono dolce e sommesso, – e ho veduto degli indiani, col sudore sul viso e le ginocchia tremanti per la stanchezza… dico che ho veduto degli indiani che gemevano sotto i tronchi d’albero per il magazzino che il trader Maklewrath sta costruendo. E coi miei occhi li ho veduti spaccar la legna per tener calda la Casa Grande dello shaman Brown durante il gelo delle notti lunghe. Questo è lavoro da squaw. I Tana-naw non faranno mai nulla di simile. Saremo per sangue fratelli di uomini, non di squaw. E i Thlunget sono squaw.

Cadde un profondo silenzio, e tutti gli occhi si concentrarono su Keesh. Questi si guardò intorno attentamente, con aria deliberata, fissando bene in viso ciascuno:

— Bene – disse spassionatamente. – Bene, – ripetè.

Poi girò sui talloni, senza un’altra parola, e sparì nelle tenebre.

Keesh attraversò il vasto campo, e al suo confine raggiunse una donna che lavorava alla luce d’un fuoco: con fibre strappate dalle lunghe radici di piante rampicanti, ella intrecciava una corda per la pesca. Per qualche tempo, senza parlare, egli guardò le mani agili che riportavano legge e ordine nella massa confusa delle fibre ricciute. Appariva splendida, curva sul lavoro, con le membra forti, il petto ampio, e il bronzo del suo volto appariva dorato alla luce del fuoco, i capelli di un nero azzurrino, gli occhi di giada.

— Su-Su – disse finalmente Keesh – mi hai guardato gentilmente nei giorni che sono passati, e nei giorni ancora giovani…

— Ti guardavo gentilmente, perchè eri il capo dei Thlunget – rispose prontamente la fanciulla – e perchè eri grande e forte.

— Sì?

— Ma questo è stato negli antichi giorni della Pesca – ella si affrettò ad aggiungere – prima che lo shaman Brown venisse ad insegnarti le cose malvage e a guidare i tuoi piedi per strani sentieri.

— Ma volevo dirti…

Ella sollevò la mano, in un gesto che gli rammentò il padre:

— No, conosco già le parole che ti fremono nella gola, o Keesh, e ti rispondo ora. Così accade che i pesci dell’acqua e le bestie della foresta procreino la loro razza. E questo è bene. Ugualmente accade alla donna. Spetta a lei di procreare la sua razza, e mentre è ancora fanciulla, sente un dolore nel seno e delle piccole manine sul collo. E quando questo sentimento è forte, allora ogni fanciulla guarda intorno con occhi segreti per l’uomo che sarà il padre della sua razza. Così ho sentito io. Così ho sentito, quando ti guardai, e ti trovai grande e forte, un cacciatore e un lottatore, abile a portare la carne quando io avessi dovuto mangiare per due, abile a tener lontano il pericolo quando avessi avuto bisogno di protezione. Ma questo è stato prima del giorno che lo shaman Brown venisse nella terra e t’insegnasse…

— Ma non è giusto, Su-Su. Ho una buona parola…

— Sì, che non è giusto uccidere. So quello che vuoi dire. Allora unisciti alla tua razza, la razza che non uccide; ma non venire a cercare una moglie fra i Tana-naw. Perchè si dice che nei tempi a venire il Corvo si abbrancherà col lupo. Io non so, perchè questo dev’essere affare di uomini; ma so che spetta a me di allevare uomini per quel tempo.

— Su-Su – interruppe Keesh, – devi udirmi…

— Un uomo mi picchierebbe con un bastone, e mi costringerebbe ad udire – sogghignò la fanciulla. – Ma tu… ecco!

Prese una manciata di fibre:

— Non posso darti me stessa, ma questa sì. Sembrano più adatte nelle tue mani. È un lavoro da squaw, e perciò puoi eseguirlo.

Keesh gettò lontano con violenza le fibre che la fanciulla gli tendeva, col sangue che gli montava al viso.

— Un’altra cosa – ella proseguì. — V’è una vecchia consuetudine, alla quale tuo padre e il mio non erano stranieri. Quando un uomo cade in battaglia, il suo scalpo è portato via in ricordo. Benissimo. Ma tu che hai rinnegato il Corvo devi far di più. Tu devi portarmi non scalpi, ma teste, due teste, e allora ti darò non fibre di radici, ma una bella cintura ornata di perline e una guaina e un lungo coltello russo. Allora ti guarderò di nuovo gentilmente, e tutto sarà bene.

— Bene – disse l’uomo con aria meditativa. – Bene.

Poi si voltò, e uscì dalla luce.

— No, o Keesh – gli gridò dietro la fanciulla. – Non due teste, ma tre almeno!

Ma Kesh restò fedele alla sua conversione, visse giustamente, e fece rispettare alla sua tribù il Vangelo predicato dal reverendo Jackson Brown. Durante tutta l’epoca della Pesca non si curò dei Tana-naw, ne fece caso delle frecciate che gli rivolgevano, nè delle risate delle donne delle molte tribù. Dopo la Pesca, Gnob e il suo popolo, con grandi provviste di salmone seccato al sole e curato ai fumo, partirono per i terreni di caccia alle sorgenti del Tana-naw. Keesh li seguì con gli occhi, ma non mancò al suo servizio alla Missione, dove pregava regolarmente e cantava con la sua voce di basso profondo.

Il reverendo Jackson Brown provava un piacere particolare in quella voce di basso profondo, e, a causa delle sue buone qualità, considerava Keesh come il più promettente, dei convertiti. Macklewrath ne dubitava. Non credeva nell’efficacia della conversione dei pagani, e non esitava ad esprimere la sua convinzione. Ma il pastore Brown era un uomo notevole, alla sua maniera, e discusse con tale convinzione, durante una lunga notte d’autunno, che il trader, scacciato da una posizione all’altra, annunciò finalmente, disperato:

— Gettatemi le mele sulla testa, Brown, se non divengo un convertito io stesso, se Keesh resta fedele per due anni!

Brown non perdeva mai un’opportunità, e così affrontò la questione con ardore virile, poichè da allora in poi la condotta di Keesh doveva determinare la conversione di Macklewrath.

Ma giunsero notizie, un giorno, dopo che i geli invernali avevano consolidato la neve sulla terra in maniera sufficiente per viaggiare. Un Tana-naw venne alla Missione di Saint George, in cerca di munizioni, e portando l’informazione che Su-Su aveva messo gli occhi su Nee-Koo, un giovane cacciatore, che l’aveva chiesta con successo davanti al fuoco del vecchio Gnob. Fu appunto in quest’epoca che il reverendo Jackson Brown s’imbatté in Keesh, sul sentiero che conduce al fiume. Keesh aveva bardato i suoi cani, e mostrò, sotto le corregge della slitta, il suo paio di racchette più grandi e più belle.

— Dove vai, o Keesh? A caccia? – domandò il pastore Brown.

Keesh lo guardò negli occhi per un minuto intero, poi mise in moto i cani. Poi, fissando di nuovo deliberatamente lo sguardo sul missionario, rispose:

— No; vado all’inferno.

In uno spazio aperto sorgevano tre tepee, tristi e solitari, come rannicchiati nella neve per proteggersi dalla spaventosa desolazione. Tutt’intorno, a una dozzina di passi, si ergeva la foresta cupa. In alto non si spiegava il cielo puro e azzurro dello spazio nudo, ma una vaga cortina nebbiosa, impregnata di neve. Non c’era vento, non un suono, nulla, all’infuori della neve e del silenzio. Non un fremito di vita nel campo; perchè i cacciatori erano caduti sul fianco del branco di cariboo, e l’uccisione era stata grande. Così, dopo il periodo di digiuno, era venuta la pienezza della sazietà, e così, di giorno pieno, essi dormivano pesantemente sotto i loro tetti di cuoio di alce.

Accanto al fuoco, davanti ad uno dei tepee, cinque paia di racchette erano piantate nella neve, e accanto al fuoco sedeva Su-Su. Il cappuccio del suo parka di pelle di scoiattolo era chiuso sulla testa e ben tirato intorno alla gola; ma le mani erano prive di guantoni, e s’intirizzivano al lavoro con l’ago e il tendine, per completare l’ultimo dei disegni fantastici su una cintura di cuoio, foderata di panno scarlatto. Un cane, dietro uno dei tepee, lanciò un latrato breve ed aspro, che cessò bruscamente come era cominciato. Ad un certo punto il padre, nel tepee in fondo, gorgogliò e grugnì nel suo sonno.

— Brutti sogni – mormorò sorridendo la fanciulla. – Invecchia, e quell’ultimo pezzo di carne è stato troppo per lui.

Mise a posto l’ultima perlina, annodò il tendine, e ravvivò il fuoco. Poi, dopo aver guardato a lungo nelle fiamme, sollevò la testa, al forte scricchiolio d’un piede coperto di mocassino sulla leggera crosta di neve. Keesh le era al fianco, leggermente curvo sotto un carico che portava sulla schiena.

Il carico era avvolto in una pelle di alce, e Keesh lo lasciò cadere con noncuranza nella neve e si mise a sedere. Si guardarono a lungo, senza parlare.

— È un lungo viaggio, o Keesh – disse alla fine. – Un lungo viaggio dalla Missione Saint George sullo Yukon.

— Sì – fu la risposta che diede Keesh, con tono esitante, gli occhi acutamente fissi sulla cintura. – Ma dov’è il coltello? – domandò.

— Qui – rispose Su-Su estraendolo di sotto il parka, e facendolo lampeggiare alla luce del fuoco. – È un buon coltello.

— Dammelo! – comandò Keesh.

— No, o Keesh – rispose ridendo la fanciulla. – Può darsi che tu non sia destinato a portarlo.

— Dammelo! – le ripetè l’indiano, senza cambiar tono. – Sono destinato.

Ma gli occhi di Su-Su, guardando dietro di lui la pelle di alce, vide che la neve tutt’intorno ad essa si arrossava lentamente.

— È sangue, Keesh? – chiese.

— Sì, è sangue. Ma dammi la cintura e il lungo coltello russo.

Ella si sentì bruscamente spaventata, ma fremè, quando Keesh le strappò rudemente la cintura: fremè alla sua rudezza. Lo guardò dolcemente, e sentì una sofferenza nel seno e due piccole mani intorno alla gola.

— Era fatta per un uomo più piccolo – osservò ferocemente Keesh, tirando forte sul ventre, e allacciando la fibbia al primo foro.

Su-Su sorrise, e i suoi occhi divennero ancora più dolci. Di nuovo sentì le dolci manine alla gola. Egli era buono a guardarsi, e la cintura era veramente piccola, fatta per un uomo più piccolo; ma che importava? Sapeva di poter fare molte cinture.

— Ma il sangue? – domandò, con un fremito di speranza. – Il sangue, Keesh? E… sono teste?

— Sì.

— Devono essere freschissime, o diversamente il sangue si sarebbe coagulato.

— Sì, non è coagulato, e sono freschissime.

— Oh, Keesh! – esclamò Su-Su, col volto caldo e splendente. – E sono per me?…

— Sì; per te.

Egli prese un angolo della pelle, e rotolò le teste davanti a lei:

— Tre – mormorò Keesh selvaggiamente – no, quattro almeno.

Ma ella sedeva impietrita. Giacevano li davanti, i dolci lineamenti di Nee-Koo; la vecchia faccia rugosa di Gnob; Makamuk, che le sogghignava col labbro superiore sollevato, e finalmente Nossabok, con la palpebra abbassata sulla morbida guancia, come per ammiccare. Giacevano lì, con la luce del fuoco che lampeggiava e scherzava su esse, e da ciascuna si spandeva un cerchio rosso sulla neve.

Rammollita dal fuoco, la crosta bianca cedè sotto la testa di Gnob, che rotolò come un oggetto vivo, girò su se stessa, e venne a riposarsi ai piedi di lei. Ma ella non si mosse. Anche Keesh sedeva immobile, con gli occhi fissi ferocemente su lei. Ad un tratto, nella foresta, un abete sopraccarico fece cadere il suo peso di neve, e gli echi tuonarono cupamente lungo la gola; ma nessuno dei due si mosse. Il breve giorno svaniva rapidamente, e le tenebre avviluppavano il campo, quando Zanna Bianca trotterellò verso il fuoco. Si arrestò per osservare, ma, non vedendosi scacciato, si avvicinò di più. Il suo naso scattò rapidamente da un lato, con le narici tremanti, il pelo irto sulla schiena; e, diritto e fedele, seguì l’odore improvviso della testa del suo padrone. La fiutò in principio cautamente, e leccò la fronte con la lingua rossa. Poi si mise bruscamente a sedere sulle anche, puntò il naso alla prima debole stella, ed elevò il lungo ululato del lupo.

Questo richiamò Su-Su ai sensi. Guardò Keesh, che aveva sguainato il coltello russo e la guardava attentamente. Il suo volto era freddo e duro, e in esso la fanciulla lesse la legge. Lasciando ricadere sulle spalle il cappuccio del parka, ella si denudò il collo e si levò in piedi. Lì si arrestò e guardò a lungo intorno a sè la foresta circostante, le deboli stelle nel cielo, il campo, le racchette nella neve… un lungo sguardo riassuntivo della sua vita passata. Una brezza leggera le mosse i capelli sulla tempia, e per un secondo voltò la testa e affrontò in pieno il vento.

Poi pensò ai figli non ancora nati, e si avvicinò a Keesh, e disse:

— Sono pronta.

Fine.


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TITOLO: Il prezzo della sposa
AUTORE: Jack London

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: La legge della vita : dai volumi: The God of his fathers, Children of the frost, e altri di J. L. / edizione 1939-17. - Milano : Sonzogno, 1938 (Tip. A. Matarelli). - 252 p. ; 16.

SOGGETTO: FIC002000 FICTION / Azione e Avventura