Il passoBartolomeo Di Monaco recensisce “Il passo dei longobardi” di Arrigo Benedetti (Mondadori, 1964)

Ponte a Moriano, il paese distante otto chilometri da Lucca, apre gli scenari di questo romanzo. È il paese dove l’autore è nato, attraversato dal fiume Serchio, i cui umori bizzarri hanno accompagnato e ancora accompagnano la vita di quella gente. Siamo nel 1922, agli inizi del fascismo. Al bar è seduto lo squadrista Silvio, e più avanti, nel buio della sera, alcuni suoi camerati stanno sottoponendo alla tortura dell’olio di ricino qualche sventurato. Il protagonista Franco Arnolfini (il romanzo è però autobiografico) ode le imprecazioni e i conati, come i suoi compagni Ciro e Leonello. Silvio appare compiaciuto del potere di cui dispone. È l’inizio di una serata che non uscirà più dalla memoria dello scrittore, e terminerà con l’assassinio di Marcello da parte di Silvio, suo coetaneo.
La scrittura di Benedetti è spigolosa, minuta, pisigna, e ha l’ambizione di non voler trascurare nulla.
Per chi, come me, vive in questa magnifica città, una tale minuzia è munifica di ricordi, anzi collega le memorie della mia prima infanzia a quelle di Benedetti, assai anteriori, creando una suggestiva continuità ammaliatrice, come accade nelle pagine d’avvio in cui, facendo il ritratto dell’amico Ciro e di suo padre, il professor Favilla, rievoca il rito della processione del Venerdì Santo. Al passare della processione, padre e figlio «s’addossavano al muro, aspettavano a testa alta, con una loro fierezza, non si toglievano il cappello e s’irrigidivano, quasi temessero d’essere sfiorati dalle fiamme dei ceri inclinati verso l’esterno della processione, allo scopo di scolare il moccolo dai filamenti bianchi e caliginosi che riempivano l’aria col loro dolciastro odore funebre.»
È un raccontare lento, nel corso del quale appaiono all’improvviso personaggi non annunciati, quasi repentini, di cui tocca a noi immaginare da principio il profilo. Accade per Sofia, cugina del protagonista, per Lorenzo, per «la bella Valentina», ad esempio. La scrittura mescola i flashback con la narrazione corrente in un impasto che ne rende unico il movimento. La forza del ricordo costruisce memorie che hanno perduto il loro connotato cronologico.
Ma l’atmosfera di un fascismo che si annuncia torpido («Silvio e Marcello da bambini, giocavano insieme») ci avvolge da subito e non ci abbandona più, prima in un’attesa di paura, di sospetto e di incredulità, che sono solo allo stato embrionale e tale da lasciarci appena storditi, poi si avverte sempre più distintamente che si sta tessendo la nera tela che si distenderà dappertutto moltiplicando le sofferenze e i lutti. L’assassinio di Marcello da parte degli squadristi al comando di Silvio provocherà immediatamente una reazione uguale e contraria. Isidoro, l’omicida («Anche Isidoro», «terzo compagno di giochi», era da bambino amico di Marcello), verrà, infatti, ucciso a sua volta da qualcuno che « sparò dalle alture rocciose che dominano la strada e il fiume.»
La famiglia Arnolfini-Maubeuge, che non è quella del protagonista («Lo stesso cognome, però senza parentela»), ma un’altra che ha avuto un avo commerciante di stoffe a Mauberge, una cittadina francese al confine col Belgio, anch’essa circondata da mura «meno imponenti delle nostre però quasi identiche.», vive in una bella villa sull’altra sponda del Serchio. Lelio, claudicante e assessore comunale, e Ilaria vi si trasferiscono in estate conducendovi una vita mondana. Recano sempre con sé un amico di famiglia, l’avvocato Martino Montecatino, dal «volto esangue, notturno», che riserverà, vedrete, una brutta sorpresa proprio a Lelio. D’inverno tornano nella loro casa in città, situata «nella parrocchia di Corte Orlandini», che i Lucchesi conoscono più col nome di Santa Maria Nera, per distinguerla dall’altra chiamata Santa Maria Bianca. Hanno una figlia, Franca, che sembra «impacciata dall’oscuro legame che legava i genitori a Martino», e poiché le due famiglie si frequentano, le due madri (quella di Franco si chiama Zita) mostrano un interesse comune a che i loro figli, nati nello stesso giorno come se fossero predestinati, si frequentino anch’essi, «soddisfatte d’una sorte inevitabile.» In mezzo a loro, però, c’è Sofia, «che mi seguiva scarmigliata», una ragazza con cui il protagonista si trova spesso a giocare insieme con altri amici, quali Ciro, Leonello, Gino e Gina, figli di contadini, e così via.
Sembra di respirare un’atmosfera vicina a quella che incontriamo nel bel romanzo di Giorgio Bassani: «Il giardino dei Finzi-Contini», che è del 1962, appena due anni prima de «Il passo dei longobardi», per quella scelta di circoscrivere e chiudere nella riservatezza l’ambiente familiare, così dolorosamente ed efficacemente espressa nel capolavoro di Bassani. Pure qui, non solo gli Arnolfini-Maubeuge, ma anche altre famiglie contribuiscono a dare questa sensazione di chiusura e di riserbo: «Quei B., quegli M., non apparivano mai, non venivano nemmeno alla messa, che ascoltavano nelle loro cappelle private.»
Si è arrivati al fascismo come conseguenza diretta della Prima guerra mondiale. Il disastro di Caporetto, le fucilazioni di nostri soldati colpevoli di niente, ma ritenuti tali secondo gli irragionevoli e confusi vaneggiamenti di alcuni generali, la rotta, lo sbandamento, la disperazione, avevano creato le premesse per l’abbandono ad un ordine che lasciasse in pace chi usciva dalla guerra stremato da sofferenze e umiliazioni di ogni sorta. Intanto, gli operai della grande Fabbrica Cantoni, che dava lavoro a migliaia di Lucchesi, sfilavano al grido di «Viva la pace, la Russia…»
Il tempo in questo romanzo scorre in fretta, suggestivamente, e se ci sono dei flash-back, ci sono anche dei salti in avanti che legano nella stessa contemporaneità gli avvenimenti con il filo dell’attesa. Il calmo trascorrere e dipanarsi della nube del tempo che sempre, distesa sopra di noi, ci accompagna, incombe con un ritmo diverso sopra la fretta evanescente dei giorni del nostro calendario, come si conviene ad una gestazione e a una maturazione tanto più lente in quanto al servizio della storia. Si sta passando, ossia, dalla Prima guerra mondiale al fascismo nostrano e alle dittature dell’Europa centrale che preludono ad una Seconda grande guerra, e Benedetti riesce a dare la distinzione dei due tempi, spesso, per non dire sempre, nascosti ed inavvertiti: quello della vita che si svolge tutti i giorni e quello più scarno, ma più denso, destinato ad imprimersi nella memoria delle generazioni. Quando i fatti dall’esterno si ritirano e si rintanano nella casa del protagonista, o nei circoli cittadini, come quello dei nobili o degli artisti, le suggestioni e il silenzio si coagulano in un’attesa («lentezza crudele») i cui rumori divengono ben presto rappresentativi di una arcana paura pronta a destarsi, nella quale si avverte che i «tempi difficili» che stanno maturando non sono più i tempi della vita di tutti i giorni, bensì quelli della storia. Così, accanto a Silvio, di tanto in tanto compaiono personaggi simbolo di questa paura: Racosi, Balanesi («Racosi che fa il Guglielmo Tell nelle aie dei contadini; le purghe del Balanesi»), smargiassi e squadristi che scandiscono il lento procedere di una tale attesa («Può mai avvenire qualcosa, un dramma, in posti simili?»), tanto gravida di eventi ancora incerti, ma già riconosciuti come terribili.
Per chi, come me, conosce Lucca, e l’ha tutta percorsa sin dall’infanzia, il romanzo è anche un omaggio vigoroso alla città, che Benedetti, con la sua bicicletta in giro sulle Mura (le sue scorribande tra il baluardo di San Paolino e quello di Santa Croce, che fu il «mio» baluardo in quegli anni stupendi della mia infanzia, mi hanno suscitato tante emozioni), osserva sia dentro, per quelle stradette che hanno visto trascorrere i secoli, che fuori, nella campagna circondata da dolci colline, ancora maestosa, libera, allora – («sprofondava nella pace») – dalle attuali fitte costruzioni di palazzine sulla circonvallazione, e ricca di profumi. L’attesa («in attesa di qualcosa che non accadeva») si disegna come una vasta e intersecata rete di piccoli movimenti al cui centro c’è la città. Anche la lunga agonia di Giacomo Puccini, il cittadino più illustre che sta morendo in un lontano letto di ospedale, a Bruxelles, viene seguita dai Lucchesi in un clima di attesa presago e gravido di luttuosi eventi. Il romanzo è attraversato nella trama, perfino nella trama delle singole parole, dalla Lucca intensamente respirata ed amata dallo scrittore (Lucca ha «dentro di sé, a disposizione di chi volesse perdersi, una Venezia, una Parigi»).
Nel modo di collegare questi piccoli movimenti alla società lucchese vista nel suo presente e nel suo passato, con richiami legati alla sua storia e alla storia di famiglie illustri, viene in mente Curzio Malaparte, allorché nei suoi romanzi, «Kaputt» in particolare, che è del 1944, spesso sospende lo sguardo sulla guerra e le sue deformità, per darci uno spaccato dell’ambiente in cui si trova a vivere.
Qui, è ad un tratto il salotto di Valentina, situato vicino alle Mura di Porta Elisa, che prende il centro della narrazione. Vi transitano, per giocare a carte fino a tardi, uomini influenti. Silvio, lo squadrista, è diventato suo marito, ed è persona («un uomo così potente» dalla «fama torva») sempre più temuta e rispettata. Geloso della sua bella moglie, deve ogni sera far fronte alle »schermaglie» di molti corteggiatori, «che la donna accettava.» Uno di questi, l’ufficiale dell’esercito Nunhpart-Maj, viene da lui schiaffeggiato e costretto a lasciare per sempre la città. Valentina è un personaggio che non si riesce ad immaginare mai precisamente nei suoi contorni. Aleggia su di lei una sensualità talmente forte che ne avvolge e nasconde i tratti del corpo, anche se Benedetti ce la mostra perfino in una seduta di posa di fronte al pittore Empolesi. Il ritratto che ne scaturisce produce su di lei un turbamento così intenso, che la donna rimane nel nostro immaginario non come è ma come è stata dipinta: «Valentina certe mattine, quando Silvio era andato a letto, entrava nella stanza e dopo aver fissato a lungo i rosa violenti della bocca, il nero fosco delle orbite, il blu violaceo dei capelli, aveva la sensazione d’essere stata oggetto d’un violento desiderio.», che è una descrizione bellissima e, credo, nella letteratura molto originale, che rende vivente quel dipinto così come lo fu il ritratto di Dorian Gray, dell’omonimo romanzo di Oscar Wilde.
Perfino l’età del protagonista diviene evanescente, ed egli si comporta sempre, anche da ragazzo, come un adulto, e tale è considerato dagli altri in ogni occasione. Così che ci è difficile immaginare Benedetti coi calzoni corti, bensì uomo pensoso, riflessivo, indagatore, più con il pizzetto che lo ritrae sulla quarta di copertina che imberbe.
La scrittura continua ad intersecarsi con le stradette della città; è minuziosa e penetrante come lo sono le sue viuzze. Non c’è strada e luogo che egli non percorra e fa rivivere. I suoi ricordi hanno qualcosa di epico tanto sono impregnati di storia fin nelle minime, numerose e capillari radici.
Questa frase, la può comprendere solo un Lucchese, tanto è densa di storia e di ricordi: «Salii quattro rampe d’un edificio di corso Garibaldi, costruito prima della copertura dei fossi.» «I fossi» sono un canale, derivato dal fiume Serchio, che un tempo attraversava a cielo scoperto la città. Ancora oggi è in parte visibile il suo corso lungo quella che è chiamata Via dei fossi, ma all’inizio di Corso Garibaldi, un vialone alberato che fiorisce meravigliosamente in primavera, e che unisce due scese delle Mura, fu coperto per dare maggiore spazio alla strada, oggi molto ampia.
Quando poi il lettore, nel centralissimo capitolo VII della seconda parte, legge il nome di Lucida Saminiati, di cui Benedetti si accinge a narrare la vita da prima che diventasse – sposando Gaspero Mansi in seconde nozze dopo la morte, quando lei aveva ventidue anni ed era in attesa del primo figlio, Gian Vincenzo, del primo marito Vincenzo Diversi – la marchesa Mansi (ed entrando con ciò a far parte, educata in un convento di monache a Bruges, di una delle famiglie più cospicue di Lucca), solo se è Lucchese capisce subito che si sta parlando di un personaggio realmente vissuto nel XVII° secolo e che sta al centro della leggenda più nota della città, dopo quella che riguarda il Volto Santo, «il re dei Lucchesi». Dodici anni più tardi, nel 1976, a Lucida Mansi dedicherà un racconto intriso di poesia l’altro scrittore della nostra terra, Mario Tobino, intitolato «La bella degli specchi». La leggenda vuole che questa donna, dalla «bellezza insolita» che rimirava nei numerosi specchi di cui era colma la sua casa («Si guarda nello specchio per ore»), facesse un patto col diavolo (firmato «col sangue d’un pipistrello»), che le promise di mantenerla tal quale per trent’anni, dopodiché avrebbe preso la sua anima. Ciò che avvenne, e Lucida, trasportata da un carro di fuoco, sprofondò all’inferno, laddove ora sorge, nell’Orto botanico, un laghetto. Si dice che il suo volto affiori ogni tanto da quelle acque e che il carro di fuoco, con dentro la sua anima inquieta, percorra talvolta le Mura. E quelli di Lucida sono proprio gli anni in cui le Mura, la singolare ed imponente fortificazione della città, venivano a compimento: «Quando [Lucida e Gaspare, nda] uscivano sul cocchio, era come se il festino seguitasse all’aperto. La costruzione degli ultimi baluardi, gli ornamenti che Muzio Oddi, ingegnere delle fortificazioni, venuto da Urbino, apportava a Porta San Donato, alternando ai mattoni fasce di marmo bianco, le opere idrauliche per imbrigliare il fiume ribelle, le nuove strade, le nuove ville, le nuove vigne, i nuovi oliveti: erano elementi di un gioco, per loro.» La vita gaudente di Lucida si mischia con il fervore delle opere di difesa e di abbellimento della città. Non è un caso che Benedetti ponga la storia di questa donna al centro del romanzo, introducendo, all’interno della barbarie che si sta preparando per l’Italia del XX° secolo, elementi di comparazione tra il passato (siamo intorno al 1630) e il presente. Là i pericoli provenienti dal Sacro romano impero, qui, oggi, i pericoli di una dittatura sanguinaria.
Allo stesso modo che il fascismo lascerà passare la guerra, nel XVII° secolo «una balla di canapa proveniente da Bologna e introdotta con la frode», lasciò passare nella città, attraverso le sue solide mura, la peste, il pericolo numero uno, il flagello temuto da tutti, non solo dai Lucchesi. Benedetti ce la descrive con pagine mirabili ed intense. Devo dire che non ho mai letto finora, tra gli scrittori della mia terra, romanzo più lucchese di questo, intriso di lucchesità fin nelle minime tessiture. Le vicende di Lucida e del suo tempo si rovesciano nel presente con l’impeto vigoroso della storia che, nel sorgere da piccoli accadimenti, s’ingigantisce a poco e poco e si fa maiuscola ed ineludibile. Suggestivo e spietato il contrasto tra ciò che sta accadendo nella città piagata e ciò che avviene nella casa di Lucida e del suo sposo: «In casa di Lucida e di Gaspare, non c’era stata sospensione: Anche nel momento in cui la moria riempiva di muto dolore le strade, una piccola società maschile aveva frequentato sempre i due sposi: uomini che scivolavano lungo i muri, appena faceva notte, disposti ad eludere la sorveglianza dei deputati, fosse pure con la violenza.» La stessa cosa avviene nella casa di Silvio e della bella Valentina.
Al contrario di Valentina, tuttavia, Lucida, secondo la leggenda, conduce una vita dissoluta, non le mancano gli amanti giovani e di bell’aspetto che accoglie nella sua alcova, soprattutto ora che il marito, scampato per un miracolo alla peste, si è ritirato a vivere in campagna. La sua bellezza incontaminata continua a stupire; si pensa ad una grazia del Volto Santo. Mai nessuno è sfiorato dal dubbio di un patto segreto con il diavolo, «il signore del monte Bargiglio».
«Giovinetti che fin dalla nascita avevano udito parlare di lei, vennero ammessi prima nella casa e poi nel suo letto».
Nella camera, «dal soffitto e dalle pareti tutte specchi», si narra sia stata presente sul pavimento una botola nascosta, nella quale lasciava precipitare i suoi amanti. Nata nel 1606, Lucida Saminiati morì nel 1649, al tempo della seconda peste che afflisse la città. Il marito le sopravvisse e si risposò molto vecchio con una giovane vedova, Livia Nobili, che condusse in una delle sue ville, quella di Catureglio. Quando i servi la videro arrivare, la confusero con Lucida, di cui avevano sentito vantare l’eterna giovinezza, e esclamarono: «Gli anni non pesano sulla nostra padrona…» «Esclamazione che forse contiene il seme della storia», conclude Benedetti, che ci ha intrattenuto per ben 64 pagine su di una leggenda tanto cara ai Lucchesi, dedicandole una scrittura tra le sue migliori.
Quando comincia la terza parte del romanzo, facciamo appena in tempo a ricordarci che poco prima si parlava delle guerre in Africa orientale – in cui le manie di grandezza del fascismo ci avevano trascinato, con Francia e Inghilterra che ormai «stanno a vedere» – e, con un salto che conferma quanto si diceva all’inizio, di un tempo, cioè, che sembra non avere passato ma essere sempre contemporaneo, ci ritroviamo davanti ad un’altra tragedia, simile a quella di Caporetto, ossia la rotta dell’8 settembre 1943, con i soldati in fuga («l’esercito andato in frantumi») diretti alle loro case. Il protagonista proveniente dal nord, prima di arrivare a Lucca vorrebbe passare da Gualtieri dove, presso i genitori, si è ritirata a vivere Sofia. Anche Guglielmo Petroni, un altro scrittore lucchese, fa un viaggio simile quando, uscito dalle prigioni romane di Via Tasso, s’incammina verso Lucca, raccontato con grande sensibilità in quel libro memorabile che è «Il mondo è una prigione», del 1948. E Mario Tobino racconterà del fascismo e della guerra in alcuni suoi romanzi: « Bandiera nera», del 1950; «Il deserto della Libia», del 1952; «Il clandestino», del 1962. Benedetti, a differenza di Petroni e di Tobino, racconta al modo di chi si pone innanzi ad un lettore che già conosca come sono andate le cose, e si muove nel presupposto che i fatti minuti che rivela siano subito inseriti dal lettore nella contemporaneità e continuità della grande storia. Quando scrive, ad esempio: «Da Rimini fino a La Spezia un vero sistema di fortificazioni, dove potranno riposarsi, preparare la controffensiva, senza fretta», il lettore deve già sapere che si parla della famosa Linea gotica dietro la quale i tedeschi organizzarono una dura resistenza all’avanzata verso il nord degli Alleati.
S’incontrano i partigiani, si assiste alla calda ospitalità dei contadini che accolgono nelle loro stalle i fuggiaschi, fornendo loro cibo e abiti; compaiono ancora i militi fascisti, impegnati nei rastrellamenti, ma sono ormai diventati deboli ed insicuri, esposti come sono ai continui assalti dei partigiani, i cui capi hanno assunto nomi convenzionali, come quello di Menotti, dietro il quale il protagonista scoprirà un amico d’infanzia.
L’Appennino fa da spartiacque tra l’Emilia e la Toscana. Per giungere a Lucca, è necessario attraversare la Valle del Secchia ancora presidiata da guardie repubblicane, ma Franco è deciso a tentare; sono terre che un suo avo, il bisnonno Uria, soprannominato Cacabugie, tanto le raccontava grosse («era un bell’uomo, piaceva alle donne, seminava figlioli lungo le strade della montagna), aveva spesso attraversato nel suo commercio e «avrei fatto la strada, nota a me solo, dei carbonai, dei mercanti di bestiame e dei canapini, un tempo, percorsa dagli uomini dalle gambe lunghe. Mi sentivo cresciuto in quei luoghi dov’era rimasto tanto sangue degli antichi guerrieri. Se erano passati i goti, i longobardi, i franchi anch’io avrei saputo insinuarmi». È il brano da cui scaturisce il titolo del libro, a evidenziare un cammino non facile, burrascoso, ma possibile.
Sono trascorsi pochi mesi dall’inizio del viaggio di ritorno e la radio dà notizia del Processo di Verona, tenutosi dall’8 al 10 gennaio 1944, e della condanna da parte della Repubblica di Salò dei 19 gerarchi che il 25 luglio 1943 avevano votato contro Mussolini, determinandone le dimissioni da Primo Ministro.
Una ferita provocatagli da una sparatoria, costringe Franco a fermarsi tra i partigiani. «Sei stato sfortunato» gli dice Ciro, «saresti già a Lucca, a quest’ora». I giorni che trascorrono in attesa della guarigione consentono a Benedetti di descriverci un ambiente e una condizione, quella dei partigiani rifugiatisi in montagna, che ricordano le pagine de «Il partigiano Johnny» di Beppe Fenoglio, romanzo che è, nella sua stesura definitiva, uscita postuma, del 1968, ma già negli anni ’50 erano apparsi testi poi confluiti nel capolavoro. Il flashback di Benedetti, allorché torna a narrare i fatti che seguirono all’armistizio dell’8 settembre 1943, consente di fare un parallelo tra i due autori nel momento in cui cominciano ad organizzarsi le formazioni partigiane. Fenoglio racconta le crudeltà che accompagnano sempre una guerra e il suo occhio è pronto ad indagare e a condannare anche quelle commesse dai partigiani. Sull’Appennino, ai confini tra l’Emilia e la Toscana, dove si trova il protagonista del romanzo di Benedetti, la vicenda partigiana non ha le asprezze incontrate in Fenoglio, sebbene si riviva intensamente il clima di angoscia e di paura proprio di una guerra violenta ed astiosa quale fu quella tra i tedeschi e i partigiani italiani: «Voi non immaginate l’ira che uscirà da queste montagne.» Così come la città di Alba sta al centro del romanzo di Fenoglio, sottoposta ad assedio continuo e a passaggi di mano dai tedeschi ai partigiani e viceversa, nel romanzo di Benedetti la vallata del fiume Secchia vede i tedeschi salire sui monti e «aprire il fuoco contro Monchio, Castrignano, San Vitale, Susano […] Le camionette della Goering partivano verso i posti bombardati, per rastrellare gli uomini, per fucilarli e in certi casi impiccarli col filo spinato». La città di Alba e il paese di Montefiorino, vedrete, sono luoghi, pur così geograficamente lontani, che la storia ha resi identici.
I tedeschi non rispettavano e non si fermavano nemmeno davanti alla guardia repubblicana, tanta era la rabbia che provavano ogni volta che nei paesucoli incontravano solo donne, vecchi e bambini: «Più d’una guardia repubblicana della RS, in quei giorni sperimentò la violenza delle SS, che non stavano tanto a guardare. Magari, si trattava solo d’un calcio, d’uno schiaffo, d’una spinta, d’un insulto. E non risparmiavano – a stare ai racconti della montagna – neanche i graduati, gli ufficiali.» Durante questi rastrellamenti, che mettevano a ferro e a fuoco interi paesi, «I parroci erano interrogati; prima gli si rivolgevano con riguardo, poi con insulti, schiaffi. Certuni vennero denudati e frustati.» Non solo i parroci, ma anche le donne aiutano e proteggono i partigiani. Capita che li nascondano perfino sotto le loro sottane: «se lo sono nascosto, ferito, tra le sottane». Sofia addirittura ha un nome di battaglia, Matildina.
Dal clima di attesa che ci aveva finora avviluppati, ci troviamo immersi nella Seconda guerra mondiale, quasi che gli episodi della giovinezza che avevamo gustato come esemplari di una maturazione che si sta compiendo in quei tempi difficili, fossero improvvisamente esplosi da un sogno premonitore che, nel soprassalto e nello stordimento del risveglio, ci fa trovare nel bel mezzo di un incubo che volevamo fuggire.
Il tribunale della repubblica di Montefiorino ha cominciato intanto a funzionare, sentenziando la fuciliazione di fascisti e collaboratori della repubblica di Salò. Ci sono donne, come Elvira Salvadori, che salgono fin lassù per recuperare il corpo del marito: «Due occhi così ostinati, don Martino non li aveva mai visti. Una moglie che s’era portata, fin sotto la Rocca di Montefiorino, la cassa zingata, con le maniglie d’ottone, non l’aveva ancora incontrata.» E anche – operazione resa necessaria per il riconoscimento del proprio congiunto: «I sepolcri solitari venivano riaperti. Certi sconosciuti giacevano nella terra nerastra, senza la cassa.» Queste pagine di Benedetti che narrano la storia di congiunti che si muovono sbandati in cerca dei corpi dei loro morti sono tra le più belle del romanzo, soprattutto la storia di Elvira che, accompagnata da don Martino, percorre i sentieri della valle recandosi là dove si sa che ci sono dei morti sconosciuti. Con una scrittura essenziale, asciutta, Benedetti riesce a darci immagini ed emozioni che stendono sulla guerra l’ombra nera, solitaria, intima, della morte. Oscar, partigiano istintivo e violento, non ha calcolo o pietà per chi è nemico. Trova sempre un motivo per giustificare le sue uccisioni e il mancato rispetto degli ordini ricevuti dallo Spagnolo, che invece ha voluto costituire la repubblica di Montefiorino per accogliere proprio coloro che, prima avversari, si sono pentiti e vogliono contribuire alla lotta partigiana. Non è senza significato questa sottolineatura di due tendenze presenti nel gruppo dirigente, che mostra la schiuma di una ebollizione ancora in corso, incerta e indecisa nei suoi sviluppi. Dirà un ufficiale tedesco a Juste, un amico d’infanzia del protagonista, e nipote del Balanesi: «Forse, sono esatte le notizie che parlano d’un disaccordo politico. Lo Spagnolo non controllerebbe più tutti i suoi uomini.»
Come la città di Alba nel romanzo di Fenoglio, anche qui il paese di Montefiorino viene preso d’assedio: «Il corpo d’armata della montagna era assediato in Montefiorino. Tre divisioni, due batterie da 150 mm., mortai da 81, autoblinde, mitragliatrici, aeroplani, spianavano i paesi, tra le Forbici e Roteglia, tra l’Abetone e il Cerreto. Una guerra vera, così presto dimenticata, così volentieri taciuta.»
Benedetti vuole invece che non sia dimenticata, né siano dimenticati gli uomini che, in quel luogo sperduto sull’Appennino («l’esistenza della repubblica non era nota neanche a tutti gli abitanti della montagna modenese e reggiana») con ostinazione resisterono così a lungo ai tedeschi: Spagnolo, Giosuè, Teofilo Fontana, Antonio, Fardo, Ciro, Leo, Sofia, Dora ed altri coraggiosi eroi. Con la caduta di Montefiorino, il protagonista può ora riprendere il suo viaggio di ritorno. Lucca è vicina, e sta «per essere liberata». Si capisce, così, che il viaggio di ritorno ha il suo significato non tanto nel ritrovare la Lucca amata e invocata dal protagonista, ma per quell’incontro con un brano di storia che ha trasformato il viaggio nella testimonianza di una crescita e di una svolta definitiva in quel ragazzo che anni prima guardava le smargiassate dei fascisti, di Silvio in particolare, con una curiosità appena turbata dal presentimento che qualcosa di grave sarebbe accaduto. Quelle smargiassate ora si sa a che cosa hanno condotto: ad una guerra orribile e allo sterminio di tante vite dimenticate. Usciti da Montefiorino, gli uomini dello Spagnolo, più di millecinquecento, «travalicavano verso l’alpe pistoiese; piccolo esercito stremato dalle privazioni, che di lì a poco avrebbe conteso la Porretta ai tedeschi e l’avrebbe conquistata prima che cominciasse l’ultimo inverno di guerra, durante il quale, in quella zona dell’Appennino, la parte del lupo affamato e infreddolito toccò alla Wehrmacht. Tra i tosco-emiliani dello Spagnolo ci sarebbero stati duecentocinquanta morti; più di mille fra gli avversari.»
La guerra non è ancora finita. Gli Alleati avanzano, ma troppo lentamente. I tedeschi gli resistono sulla Linea gotica. Ritirandosi da Lucca fanno saltare strade, ponti, centrali elettriche. Il protagonista non è ancora arrivato a casa, ma ci narra di un clima che è rimasto immutato, di attesa ossia, che continua a pervadere la sua famiglia. Si aspetta la fine della guerra («la lunga attesa stava per essere interrotta»), e si aspetta anche il suo ritorno. Sappiamo che Franca, la ragazza predestinatagli, ha due figli, Piero e Luisa.
È un romanzo, questo, i cui avvenimenti restano sospesi su di un tempo che non è scandito dall’esattezza dei giorni, delle ore e dei minuti e, proprio in conseguenza di una tale scelta, non appartiene più alla vita dello scrittore, ma a tutti noi.
Tale consapevolezza appare evidente nella parte conclusiva dedicata alla Certosa di Farneta, situata appena fuori della città di Lucca, risalente al XIV secolo, dentro la cui cinta «la guerra esisteva solo nel pensiero umano. Dentro la Certosa e fuori delle sue mura, i giorni si succedevano senza fatti che permettessero di dire poi: ‘Lunedì accadde questo, martedì quest’altro’.» Un esempio di come dovrebbe essere la vita.
Ma così non è. L’agosto e il settembre del 1944 sono i mesi delle grandi rappresaglie nella Lucchesia. Dopo la fucilazione di don Aldo Mei, il 4 agosto, dopo l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, il 12 agosto, ed altri episodi sanguinosi come, il 29 agosto, la disfatta del gruppo Valanga guidato dal giovane ventunenne Leandro Puccetti, il 2 settembre sarà la volta della Certosa. Di notte bussano alla porta. I frati sono riuniti in chiesa per il Mattutino. Il frate portinaio non vuole aprire. Con un sotterfugio il sergente tedesco, conosciuto dai certosini, riesce a convincere il frate, che apre appena il portone. È l’inizio di una tragedia. I tedeschi irrompono coi camion nei cortili, spalancano le celle. Non fanno distinzioni tra civili e religiosi e «a mezzogiorno la Certosa era già vuota.»
L’eccidio che seguì annoverò tra i morti anche dodici certosini. Appena tre giorni dopo, gli Alleati, provenienti da San Concordio, avranno ragione delle ultime resistenze tedesche organizzate sulle rive dell’Ozzeri ed entreranno in città. Scrive Benedetti: «un veicolo di forma inconsueta, una jeep disse qualcuno, percorse i viali di circonvallazione, parve annusare le sei porte, entrò, si spinse fino a piazza Grande, girò intorno alla statua e scomparve.» Di lì a poco Lucca sarà liberata.

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