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(voce di SopraPensiero)Apparso per la prima volta nel romanzo «Frankenstein, o il moderno Prometeo» di Mary Wollstonecraft Godwin, più nota negli annali della letteratura gotica con il nome di Mary Shelley, a distanza di due secoli dalla sua nascita il mostro di Frankenstein rimane uno dei miti dell’horror radicati più saldamente nell’immaginario popolare. L’opera che lo diede alla luce, scritta da una ragazza di soli diciannove anni tra il 1816 e il 1817 e pubblicata nel 1818, sviluppava un interessante soggetto ideato dalla Shelley durante una vacanza sul lago di Ginevra, dove era stata invitata insieme al consorte, il poeta Percy Bysshe Shelley (su Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Percy_Bysshe_Shelley), da lord Byron nella sua villa.
Quest’ultimo volle movimentare il soggiorno dei suoi ospiti proponendo un’amichevole gara letteraria: i presenti dovevano pensare a una storia macabra, chi avrebbe proposto il soggetto più avvincente si sarebbe aggiudicato la palma del vincitore. Fu la giovanissima Mary a stupire i letterati raccolti intorno a lei, compreso l’ammirevole padrone di casa, con la storia di una creatura fantastica, composta da parti del corpo prese da vari cadaveri e cucite tra loro, a cui un giovane studioso amante non solo della scienza, ma interessato anche alla filosofia della scienza, era riuscito a infondere la vita. La gara letteraria nella villa sul lago di Ginevra viene rappresentata nel prologo di una pellicola del 1935, «La moglie di Frankenstein» di James Whale, sequel del primo film sonoro sul mostro, interpretato da Boris Karloff, uscito quattro anni prima e diretto dallo stesso regista. Ambedue le opere furono prodotte dalla Universal Studios e rappresentarono non solo un’abile trasposizione cinematografica di uno dei romanzi del Romanticismo più adatti a tale scopo, ma anche un importante avanzamento nelle tecniche di ripresa e nella realizzazione degli effetti speciali, rispetto alle prime versione filmiche del romanzo di Mary Shelley ancora mute: «Frankenstein» del 1910 diretto da J. Searle Dawley e «Il mostro di Frankenstein» del 1920 di Eugenio Testa.
Osservazioni che suggeriscono un attento paragone tra l’opera letteraria e i film di Whale, tenendo presente che al tempo della scrittrice londinese era ancora impossibile prevedere la nascita del cinema, anche nel 1831 quando la Shelley riscrisse il suo romanzo. Come Prometeo, Frankenstein dona la vita a un essere che ha plasmato, o meglio montato, unendo pezzi di materia inerme. Se usciamo dal mito antico, è evidente come lo scienziato cerca di imitare Dio ed è la creatura stessa ad attribuirgli il ruolo di divinità, rincorrendolo per tutta la vita e provando per lui sentimenti contrastanti. Pretende che gli riveli lo scopo della propria esistenza e nel suo animo finisce per prevalere il risentimento quando comprende che Frankenstein non può soddisfare la sua richiesta, perché non sa spiegare nemmeno a se stesso cosa lo abbia spinto a oltraggiare la natura.
Nell’opera della Shelley questi aspetti psicologici emergono in modo chiaro; il mostro ha sentimenti e pensieri simili a quelli dell’uomo, malgrado alcuni studiosi interpretino la storia come una critica al sopravvento della macchina sulla manualità dell’uomo con la prima industrializzazione, e infatti la creatura è composta di pezzi come una macchina industriale. L’aspetto umano, però, prevale, caratteristica che va persa nella trasposizione cinematografica di Whale del 1931. Nel film il risultato degli esperimenti di Frankenstein è un essere pericoloso e insensibile, che perseguita il suo creatore e gli abitanti del villaggio seguendo un istinto violento, fino a uccidere un’innocente bambina senza un motivo razionale. La sua unica attenuante è l’incapacità di comprendere le conseguenze del suo atteggiamento.
In merito agli eventi fondamentali della storia, la scrittrice inglese non era interessata a descrivere scene spettacolari, avendo solo le parole come strumento per raccontare la sua storia; il suo intento era suscitare riflessioni sulla natura dell’animo umano. Non ritenne importante ideare un meccanismo per dare vita alla creatura, che nel romanzo apre gli occhi come se assorbisse energia dall’ambiente circostante, un giusto tributo agli sforzi di Frankenstein. Nel film di Whale, invece, il protagonista accende il suo essere attraverso un complesso meccanismo, poi rimasto nell’immaginario del pubblico, che si alimenta con la corrente dei fulmini. Il cadavere viene posto su una sorta di tavolo operatorio dotato di un sollevatore e l’energia del cielo entra nel suo corpo attraverso due elettrodi fissati ai lati del collo. Il regista voleva girare una scena che per il tempo fosse estremamente spettacolare. Nel momento in cui il mostro prede vita, Frankenstein pronuncia la celeberrima frase tagliata nel doppiaggio italiano perché ritenuta blasfema: «Ora so cosa significa essere Dio.»
La pellicola ebbe un notevole successo e rientrò nella programmazione della Universal Studios per il nuovo cinema horror sonoro, di cui fecero parte anche i film su l’uomo lupo, Dracula, la mummia, il fantasma dell’opera e il mostro della laguna nera. Aveva inizio una lunga serie di opere filmiche di vario livello qualitativo su Frankenstein, che finirono per discostarsi dal romanzo originale sia nella storia che nella personalità dei protagonisti. Del resto anche James Whale aveva selezionato solo le parti fondamentali del libro della Shelley, tagliando per motivi di durata del film le sequenze in cui il mostro perseguita il suo creatore, prima uccidendo un bambino della sua famiglia, poi rincorrendolo nel Nord Europa e minacciandolo per farsi costruire una compagna, fino all’epilogo ambientato presso il Circolo Polare Artico.
Tra la fine degli anni cinquanta e la metà degli anni settanta la Universal Studios tornò a realizzare varie pellicole sui mostri tradizionali dell’horror, avvalendosi della regia di Terence Fisher. In «La maschera di Frankenstein», «La maledizione di Frankenstein» e «Frankenstein e il mostro dell’inferno», dove appaiono attori rimasti negli annali di questo genere come Peter Cushing e Christopher Lee, il regista britannico si ispirava non tanto al romanzo della Shelley quanto all’opera di Whale, che per lui rappresentava un bagaglio culturale indispensabile per realizzare film più moderni e avvincenti. Il ruolo dello scienziato diveniva sempre più predominante rispetto alle pellicole degli anni trenta, rappresentato non solo come studioso ossessionato dalla certezza di poter vincere la morte, ma anche nei momenti di debolezza e di crisi psichica.
Nello stesso periodo uscì «Frankenstein 70», ennesima rivisitazione del classico della letteratura gotica, diretto da Haward W. Koch nel 1958, che vide il ritorno di Boris Karloff. Ormai in età avanzata, il noto attore si prestò a interpretare lo scienziato, che appare in precarie condizioni fisiche, consumato non solo dagli anni ma anche dalle sue ossessioni. Ormai ridotto in povertà, affitta il suo castello a una troupe cinematografica, ma finirà per trucidarne i membri quando si accorgerà di non avere alcune parti anatomiche per i suoi esperimenti.
Negli anni settanta alla filmografia su Frankenstein si aggiunse il contributo della parodia di Mel Brooks, una delle versioni destinate con il passare del tempo a essere più ricordate. Ancora una volta la base narrativa era stata scritta rifacendosi alle precedenti produzioni cinematografiche e il regista statunitense, che per la sceneggiatura si era avvalso della collaborazione di Gene Wilder, a cui aveva affidato il ruolo dello scienziato, non nascondeva di aver attinto a piene mani dal classico di James Whale. Le vicende estremamente tragiche che avevano stupito il pubblico degli anni trenta, però, in «Frankenstein Junior» assumono i toni di una commedia esilarante, dove il gioco di imitare Dio diviene un goffo tentativo che si risolve in una serie di equivoci e di gaffe.
Mel Brooks e Gene Wilder dimostrarono che la storia ideata da Mary Shelley oltre un secolo e mezzo prima era stata eccessivamente rivisitata dal cinema, era necessario trovare versioni alternative che riaccendessero nel pubblico l’interesse per questo mito. Seguirono una lunga serie di parodie ispirate da «Frankenstein Junior», che in ordine di tempo era stato il secondo film comico sul mostro dopo «Il cervello di Frankenstein» di Charles T. Burton del 1948, ma anche pellicole horror dove la storia veniva completamente riscritta. Tra queste ultime «Frankenstein oltre le frontiere» del 1990, ispirato al romanzo di Brian Aldiss «Frankenstein liberato», pellicola purtroppo oggi in parte dimenticata e non facile da reperire. È forse il miglior film di Roger Korman, autore statunitense che in passato aveva lavorato sulle versioni cinematografiche di alcuni racconti di Edgar Allan Poe. Fu anche la sua ultima opera.
Si tratta di un horror fantascientifico ambientato nel 2031. Il protagonista, uno scienziato che sta lavorando alla realizzazione di una potente arma, viaggia nel tempo con la sua auto per conoscere Mary Shelley e raccontarle la storia di Frankenstein. Nel finale andando nel futuro incontra il mostro in un paesaggio post apocalittico, che ricorda il Circolo Polare Artico dove si svolge il finale del romanzo della scrittrice inglese.
Tra gli ultimi film in cui si cerca di rappresentare il tema con originalità, merita di essere ricordato«Victor. La storia segreta del dottor Frankenstein» del 2015 di Paul McGuigan, dove le vicende sono narrate dal punto di vista di Igor, l’assistente dello scienziato assente nel romanzo della Shelley, apparso per la prima volta nella pellicola di Whale.
In due secoli di vita la storia di Frankenstein desta ancora interesse e curiosità tra gli studiosi, i cineasti e il pubblico, un tema destinato a non esaurirsi, che si presta a sempre nuove interpretazioni. Il tutto grazie alla profondità del messaggio che per prima Mary Shelley era interessata a comunicare. La tragedia del mostro è compatibile con la tragedia umana. Come i popoli primitivi erano impreparati ad affrontare il proprio destino, la creatura non ha alcuna nozione per impostare la sua esistenza. È un mostro che crea vittime, come tante vittime ha fatto l’uomo con il trascorrere dei secoli nella natura per garantire la sua sopravvivenza, ma è lui la prima vittima di se stesso e del suo creatore incapace di guidarlo. Si rivolge a lui come noi ci rivolgiamo a Dio, ma sa solo chiedere, perché Frankenstein non gli ha insegnato ad ascoltare il suo animo per trovare dentro se stesso le giuste risposte alle sue domande.