Giuseppe Samperi, Il miliardesimo maratoneta, collana «Licheni» n° 2, Edizioni del Calatino, Castel di Iudica (CT) 2011, pp. 96 – ISBN 978-88-97554-00-4

«Il debito
non è il tempo che ho mancato
ma la distanza non prevista,
il prezzo esente vita
da scontare»

Sarebbe sufficiente la lettura della prima poesia per avvicinarsi alla scrittura di Giuseppe Samperi, tanto suggestiva appare fin dal suo incipit la parola che rimanda alla poetica congetturale di Borges.

«Regalo questo inchiostro,/ scolatura che rimane/ dagli accurati strappi./ Miliardesimo maratoneta/ ciò che devo ripescare/ è il battito. Il verso/ come un dono: nessun prezzo/ aggiuntivo al prezzo/ che ho pagato»; «battito» e «verso» si coniugano nella medesima riga, chiudendo un enjambement, aprendosi ad un altro e proseguiranno insieme in un costante respirarsi accanto. Ed è dono, la gratuità mai autoreferenziale che, depurata «dagli accurati strappi», orchestra uno spazio corale nel quale autore e lettore possono incontrarsi per/dono.

Nell’iperbole numerica a titolo della silloge si sfalda la centralità dell’ego, nel «maratoneta» scompare con ironico differimento il certame poetico degli allori e lontani appaiono «tutti dico tutti» ma soprattutto i Cristoforo Colombo. È la terra «siccagna», aspra, brulla della valle del Calatino quella di Giuseppe Samperi che, come nella migliore letteratura, si configura a paradigma della difficoltà del viaggio umano.

E le «vavaluci» indicano un cammino lento e silenzioso, senza preziosismi, spoglio di orpelli che incorpora nella immagine della lumaca la tacita scelta a riflettere sull’essenza della parola primaria.

Scriveva Montale: «Questo che a notte balugina/ nella calotta del mio pensiero/ traccia madreperlacea di lumaca/ o smeriglio di vetro calpestato/ non è lume di chiesa o d’officina».

Il collante e filo conduttore della silloge sembra cogliersi nell’armonia del climax, cantore di una coscienza nomade come ipotesi di ricerca. «Quel continuo nella vita/ ladrocinio delle suole».

E nell’inchiostro, nelle sue macchie, nascondimento accurato di parole e disvelamento di altre, si avverte l’invito per il lettore ad un condiviso sguardo oltre il «varco», fuori dal limite stabilito, verso «spiagge d’avorio» dove minore sarà l’attesa alla nascita della parola che, gravida di connotazioni partorisce a mare polisemie mosse dall’onda che le riporterà sulla battigia per non perderle, s’increspano carte di versi e resistono all’eterna tentazione delle sirene. «questo delirio/ in me s’è dilatato/ ben oltre la risacca/ del fondopagina».

«il libro è un’estensione della memoria e dell’immaginazione», scriveva Borges. Giuseppe Samperi avverte la «gabbia» del foglio incapace a raccogliere il sentire nelle sue contraddizioni e, contenitore di una vita che straripa dalla pagina, esso scola inchiostro mentre musica uno spartito di partenze e ritorni. «Non mi vergogno a dirti/ che ho solo te/ La mia isola, la sola/ preghiera che rimane». Percorsi in dia-logo ed essenzialità partorienti vivono l’osmosi spirituale di una vitalità sacrale e aurorale nella quale «il battito» e «il verso» ritmano l’intensità del poeta nel viaggio che si vivifica nella memoria, per/dono ma anche richiesta di perdono, ferite e cicatrici, carezze, abbracci silenziosi «Un ramoscello/ nell’ombra,/ chissà da quale albero/ prolunga propaggini/ dentro casa./ Ami ove attinge/ come chioccia/ il suo farsi isola» nella piana color ocra del Calatino.