I cantastorie
di
Cesare Pavese
tempo di lettura: 11 minuti
Masin e Pucci si sposarono sul finir dell’inverno e al pranzo di nozze il padre di Masin si fece venire il delirio a forza di bere.
Masin fu contento di scappare con Pucci in due camere ammobiliate vicino alla Stazione – per comodità del suo lavoro.
Madama Teda disse a Pucci: – Lasslô maj beive perchè a l’è ’d rassa –. E a Masin sua madre: – Ant’ mia famija a l’è maj staje ’d balariñe.
I primi giorni passarono nella consueta schiavitú dello sposo. Masin era tutto incantato di Pucci. Tra loro si capivano: lui aveva voluto un tempo studiare, lei in ogni gesto sapeva essere elegante.
Masin si fermò a quel presente. Non aveva piú progetti. A salire nel mondo, da tempo senz’accorgersene aveva rinunziato: da quel mattino dell’investimento, quando aveva ancora la patente. Ai figli, alla famiglia non pensava. Mangiava, dormiva con Pucci, parlava poco e fischiava salendo le scale.
L’impiego era il piazzista. Quasi tutte le mattine prestissimo saliva su un treno, finiva in qualche parte del Piemonte, andava in giro a far clienti e, se poteva, la sera tornava. Se gli toccava dormir fuori, tornava a casa a tutti i costi il mattino seguente. Non aveva campioni con sé. Mostrava opuscoli e disegni e fotografie. Di motori non ne vide mai uno. Decantava la macchina al cliente, parlava, si accalorava di rado e se gli andava bene segnava l’ordinazione. Sopportava quel mestiere, non l’amava.
Con sé aveva sempre invece la soddisfazione del possesso di Pucci. In treno, nell’albergo, dappertutto, tra le noie del lavoro, gli invadeva le membra un torpore delizioso, socchiudeva gli occhi e pensava alla moglie. E quando il treno s’infilava sbatacchiando verso la stazione di Torino, anche a Masin si sbatteva il sangue.
Pensava qualche volta che bellezza se fosse ancora stato collaudatore come un tempo. Avere in casa, al caldo, Pucci ad attenderlo e lui scorrazzare sulle strade a suo piacere, fermarsi un momento per benzina e filar via e accelerare come un fulmine sulla strada del ritorno. Era invece ridotto a viaggiatore, a uomo piccolo, finito, che per tutta la vita sarà viaggiatore e mai avrà nemmeno i soldi da affittarsi un’automobile.
Pucci era sempre lei. Scontrosa a volte, e a volte gaia, ma soprattutto pigra. Masin finí per non trovarla quasi mai che distesa sul sofà o coricata nel letto o dentro il bagno, che cantava. Perché avevano anche il bagno.
Una volta gli venne aprire colla sigaretta accesa. Lí per lí Masin non disse nulla, ma a tavola con noncuranza osservò che non gli piacevano le donne che fumavano. E Pucci secca: – ’T l’avie mach da pietne uña a to gust.
Masin era in vena di riflessione quella sera e non insistè. Pensò invece che dopo tutto era un passatempo anche quello e certo Pucci tutto il giorno sola doveva annoiarsi. – Cosa ’t fas tut ’l dí sôla? – le chiese bonario. – Spetô ’l maritô, – gli rispose la ragazza ridendo.
Masin immaginò se stesso nelle poche ore d’inazione cui lo costringeva il treno e si senti cadere l’anima. Era quella la vita di Pucci? Ma no, una donna ha sempre da fare in una casa.
Ma non Pucci. Anzitutto Pucci non s’era mai vista con un ago in mano e le stoviglie s’accontentava di lasciarle sotto il rubinetto; poi, in un alloggio di due stanze come il loro, il lavoro neanche a cercarselo non poteva ammazzare.
Pucci poltriva. Dal mattino al pomeriggio alla sera si strascinava dal letto sul sofà, dal sofà al letto e i momenti che girava per la casa eran brevissimi, e aveva un’aria abbattuta, sonnacchiosa e i capelli arruffati e la vestaglia in disordine. Solo ogni tanto si sentiva canterellare.
Per settimane Masin non la vide che a letto. Si alzava presto al mattino per partire e la lasciava che ancora dormiva; alla sera tornava e la trovava già coricata, coi resti della cena sul tavolo e allora anche lui s’affrettava e si chinava a abbracciarla.
Masin però non s’illudeva. S’era sposato un po’ per vedere come andava a finire, ma il bisogno non l’aveva mai sentito. Tant’è vero che i figliuoli li evitava. Questo a Pucci non piacque.
Glielo fece dire un giorno dalla madre, oltre a scherzarci lei continuamente. Madama Tecia si fece vedere piú sovente e parlava della propria fecondità quand’era giovane. Una sera lo fecero bere perché cedesse, ma i nervi del giovanotto erano buoni e si salvò.
Gli accadevano intanto delle cose. La sua madre era di nuovo all’ospedale e fece sentire per mezzo di papà che le sarebbe piaciuto avere la nuora ad accudirla. Venne una volta o due il papà a cercarlo e non trovò che Pucci e Pucci si divertí e gli diede da bere e al ritorno di Masin il vecchio era indecente. Poi, da soli, Pucci esprimeva il suo disgusto per quell’uomo e Masin s’infuriava e gridava. Ma intanto pensava che se la madre voleva Maria era segno che stava proprio male. Era energica la madre di Masin e non doveva piú esser lei, a dimenticare cosí gli odii.
Andò a trovarla e infatti la vide molto giú. Fece qualche spesa per curarla. Pucci non disse nulla. Ma il denaro mancava. Ormai il padre l’avevano sempre in casa. E a Masin seccava molto di esser via tutto il giorno. Tornava alla sera e trovava la casa in silenzio. Pucci in qualche parte col muso e il vecchio che borbottava lunghe querele sulla vita.
Voleva dire a Pucci: – Pare ’t ten ’n poch cômpagnia, – ma temeva una mala risposta.
Un giorno sua madre morí. Fu piú la noia dell’avvenimento per Masin, che il dolore. Comunque rimase due giorni tetro, pronto a strangolare chiunque gli venisse avanti con storie. Ma nessuno disse nulla. Suo padre andò al funerale con lui, con madama Tecia, coi pochi altri e Pucci restò a casa a preparare la cena. La quale cena riuscí un pasto freddo colla minestra troppo salata. Ma solo il vecchio lo fece osservare.
S’imponeva adesso la questione che preoccupava Masin. Bisognava che il padre restasse con loro. Ne parlò il giorno dopo con Pucci. S’aspettava proteste. Niente. Pucci disse soltanto: – Oh për mi! – Ma il disagio di Masin riuscí anche piú forte. Per fortuna, pensava ora, quasi tutta la giornata era via. E poi cosí Pucci non restava piú sola.
Il vecchio dormí in uno sgabuzzino accanto all’entrata. Eran passati i tempi degli amori. La sera i tre mangiavan cena in silenzio tra imbarazzati e tesi. Anche prima gli sposi avevan mangiato in silenzio, ma nessuno a quei tempi nascondeva pensieri. Se ora parlavano, parlavano di affari e capitava che Pucci e il padre si alleavano a lamentarsi del lavoro di Masin. Ed anche il vecchio cominciò a volere un figlio. Pucci rideva.
Chi non rideva era Masin che cominciò a ruminare un’idea balenatagli un giorno che sentiva Pucci cantare nel bagno.
Possibile che la ragazza avesse dimenticato tutto, tutto il suo mondo di un tempo, lei che era nell’animo – aveva ragione sua mamma – tanto a fondo ballerina? Aveva certo avuto un qualche amico occasionale colla Lamda e possibile che ora fosse decisa di restare con lui e di fare quella vita?
Era tutto un campo di tormenti e Masin, nell’abito nero cui lo costringeva il caso recente, passava il tempo in treno a pensarci. A questi nuovi sospetti univa nell’immaginazione l’indolenza e il sentore che nella sua casa era – piú che di ciprie ormai – di donna e di carne. Meno male – cominciò a respirare – che ora in casa c’era il vecchio e andava giusto bene che padre e nuora si stavano su una scatola, cosí questo sorvegliava Maria.
Dopo un poco, al ritorno, Masin cominciò a chiedere al padre che cosa aveva fatto la moglie in giornata. Niente. Niente. Troppo niente, anzi, secondo il vecchio: le donne dovevano lavorare di piú.
Masin fu tranquillo. Ma un giorno Pucci lo sorprese che chiedeva sue notizie. – L’aj fait lon ch’a me smia, – gli gridò come una tigre, – e côntinuerai a felô, se ’t veñe balengô parej… E tut ’m cherdia, menô che lon… ’T ses propi côme to pare…
Gliene disse Pucci. Masin s’accorse che la cosa era piú seria: non si parlava solo della sua ultima villania, ma di tutto uno stato di cose. Pucci doveva esser gonfia ancor piú di lui. «Sôma ôit tuti dôj», meditò e se ne andò a testa bassa.
Pure il sospetto non lo abbandonava. Pucci si mise a fargli il broncio a letto. Masin sopportò un poco e una notte l’afferrò colla forza. Pucci gli diede del brutale e non si toccarono piú.
Cosí Masin ebbe da sentirsi anche colpevole. In quei tempi suo padre si mise a difender Pucci. E sovente alla sera, quando Masin ritornava, lui era già a letto. Poi capitò una volta che a tavola gli cadde il bicchiere. Gli tremavano le mani.
Masin chiese se beveva. – No, no, – disse Pucci.
Eppure beveva. E un giorno si seppe.
Masin tornava quella sera da un viaggio disgraziato. Un cliente gli aveva chiuso l’uscio irritato. Tanto che lui era scappato prima del tempo, da Bastia, con il treno delle cinque.
A Torino era ancor chiaro. Masin uscí dalla stazione sguazzando nella neve che sgelava. E arrivato quasi a casa non ebbe voglia di salire subito. Si guardò attorno e decise di andar a bere qualcosa al caffè.
Entrando nel locale, e pensava a tutt’altro, fece un salto. A un tavolino c’era il padre. Con davanti il mezzo litro. Gli corse addosso e lo afferrò.
— L’aj dite ’d nen beive!
Il vecchio alzò gli occhi atterrito.
— Chi l’a datie j sold?
Gli occhi fradici guardarono Masin. Disse poi vivacemente: – E bin? L’a damie Maria, ch’j vada a beive ’na volta. A fa nen mal a beive –. E volle alzare il bicchiere. Masin glielo strappò di mano. – L’a dat-ne aôtre volte? – chiese poi con un lampo in mente. Il vecchio brontolò. – A l’a pi ’d cheur che ti, Maria…
— ’Ndôa l’è ’des Maria? – gli tagliò affannato Masin. E non stette ad attendere. Lo piantò lí e attraversò la strada, corse le scale e batté all’uscio.
Dopo un po’ sentí voci di saluto – un uomo, Pucci – e s’aprí l’uscio. Comparve Pucci. – C’è qua mio marito, – disse allegra. – Vieni, Donato –. E Donato, un individuo ben messo, dalla faccia lustra, tutto ridente, fece per uscire. Masin sbarrava il passaggio. L’altro si fermò. Disse Pucci:
— Mio marito… Signor Donato… artista… un vecchio compagno di scena che si è ricordato di me –. Donato tese la mano cortese. Masin restò lí.
Dovè tender la mano. L’altro si tolse la bombetta e s’avviò leggero. – Fortunatissimo… verrò a trovarli ancora –. Poi s’affrettò giú per le scale.
Masin guardò Pucci. Pucci guardò Masin. Pucci aveva un bell’abito da passeggio indosso e le labbra tinte allora. Raramente gli era venuta aprire cosí elegante.
Brutalmente Masin la spinse dentro e chiuse l’uscio. C’era in camera un odor di sigaretta fine. Tutto in ordine.
Tornò a guardare Pucci. E Pucci, coll’aria sorpresa, si mise a ridere, ma si sentiva lo sforzo.
— E bin, cos’at pia? – chiese poi canzonatrice.
Masin perse il lume degli occhi. Le saltò addosso, l’afferrò per una spalla e le menò tre schiaffi rabbiosi. Poi la sbatté via, per terra. Le gridò colle vertigini, sussultando: – E adess se ’t veule, va da tôa mare.
Pucci colla faccia arrossata si raggomitolò sul pavimento e alzò le spalle.
Da quel giorno le parti invertirono. Era adesso Masin che evitava la moglie e, se prima nella casa si parlava di rado, ormai regnava la congiura del silenzio.
Masin arrivava e partiva ostentando la piú grande indifferenza. Dava i comandi secchi, impersonali, a lei o al padre, non importa e si trovava servito. Non gli occorreva altro. Dopo tutto, quella era la pace.
Il padre, solo, brontolava. Dopo la sfuriata di quel giorno Masin non se ne curò piú – facesse a suo piacere – e il vecchio trovava che non cosí si dirigevan le famiglie.
In treno, Masin ripensò troppe volte all’avventura e – strano – piú che il bellimbusto di Pucci gli veniva in mente a quel pensiero la figura del padre, gettato come un sacco all’osteria a ubriacarsi con quei soldi. Ci pensò tanto che finí per farsi una specie di fissazione: non riusciva piú a levarsi di testa che cosí fosse stato, all’osteria del Pino, il contadino ammazzato da lui, tanto tempo prima, sulla strada del collaudo. – Ch’j l’abia d’avej sempre ’d vej ’ntle rôe?
Denaro in casa non ne diede piú che quel poco necessario. Pucci non protestò.
Dopo tre giorni dagli schiaffi, Pucci aveva voluto spiegare. E Masin sbattendo l’uscio era scappato.
Ora Pucci tornava ogni tanto alla carica, ma Masin, capito il vantaggio, non si lasciava abbindolare, anche se a volte ne aveva voglia.
Masin non la toccava. Era questa la vendetta delle due settimane passate da lui con Pucci sdegnata. E ogni tanto piú infuriato si chiedeva: «Ma perchè a va nen daj sò?»
Pucci era appiccicosa. Masin non la capiva piú. Tanta voglia di fargliela prima e adesso era libera, perché non andava?
Si prese quei gusti che volle, Masin. A Cuneo durante un viaggio spese quaranta lire per tradirla e la tradí, ma al ritorno la soddisfazione era poca e le voglie eran le stesse.
Cominciò a dire in casa che aveva deciso di lasciare l’impiego. – Son stôfe ’d ruschè e ’d veñe ’n gnente – Pucci gli osservò con un’aria pensosa: – Si l’aveissô ’n cit, Masin, saria diverss –. Masin non rispose. Continuò la sua idea: – Lassô perde j môtôr, peuj vedraj.
Pucci lo fissava sorridendo. Disse il padre sospettoso: – ’T lasse ’n mestè sicúr për ’na lofia. Cosa ’t veule fè ’ntl’ôra?
Masin alzò le spalle. Un mestiere da teppa, pensava, vivere un po’, come voleva, la sua vita. Sperava sempre un giorno di tornare ai motori, quelli veri, quelli vivi e di sedersi ancora a un volante. Era tutto questo che Pucci gli impediva.
— Perchè ndôma nen via? – chiese la ragazza in quel momento. – Perchè ’t vas nen a piè la patente ’nt’naôtr post?
Masin fu costretto brontolando a riconoscere l’idea. Si alzò da tavola quella sera e volle andarsene fuori come al solito. Pucci lo fermò a chiedergli per la cena di domani. Il padre era già a letto. Pucci andò nella loro camera e Masin stava sull’uscio. Pucci si cominciò a svestire. E gli parlava col tono distratto, famigliare, solito ai primi tempi.
Pucci allo specchio alzò le braccia a scuotersi i capelli. Disse a Masin d’un tratto: – Om-mi, ’na j’è un bianch, – e tese un lungo filo castano.
Masin s’avvicinò. Rise alla cosa: – Ma s’a l’è neir! – E Pucci colle spalle gli si appoggiò leggera al petto.
Masin richiamò tutta la sua forza. Comprese che tornava al tempo di una volta. Perdeva tutto, ogni vantaggio. Ritornava il marito tradito. Ma le braccia gli si alzarono da sé e si strinse al corpo la moglie.
Fine.
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TITOLO: I cantastorie
AUTORE: Pavese, Cesare
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze
TRATTO DA: Racconti / Cesare Pavese. - Torino : Einaudi, [1994]. - 525 p. ; 20 cm.
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)