Il maestro delle poste
di
Aleksandr Puskin
tempo di lettura: 20 minuti
Il registratore collegiale
Dittatore della posta.
Principe Vjazemskij
Chi non ha maledetto i maestri delle poste, chi non li ha ingiuriati? Chi in un momento d’ira non ha richiesto loro il libro fatale, per scrivere in esso il proprio inutile reclamo per angherie, villania e negligenza? Chi non li considera rifiuti del genere umano, pari agli scritturali d’un tempo o, almeno, ai briganti di Muromsk? Tuttavia, siamo giusti, cerchiamo d’entrare nei loro panni, e, forse, ci metteremo a giudicarli con molta piú indulgenza. Che cos’è il maestro delle poste? Un vero martire della quattordicesima classe, riparato dal suo grado soltanto dalle percosse, e anche non sempre (mi rimetto alla coscienza dei miei lettori). Quale è l’ufficio di questo dittatore, come lo chiama scherzosamente il principe Vjazemskij? Non è una vera galera? Nessuna pace né di giorno né di notte. Tutta la stizza accumulata durante il viaggio noioso, il viaggiatore la fa scontare al maestro delle poste. Il tempo è insopportabile, la strada è cattiva, il postiglione è testardo, i cavalli non tirano – ma il colpevole è il maestro delle poste. Entrando nella sua povera abitazione, il passeggero guarda a lui come a un nemico; buon per lui se ha la fortuna di liberarsi presto dell’ospite indesiderato; ma se capita che non ci sian cavalli?… Dio mio! che ingiurie, che minacce cadranno sul suo capo! Con la pioggia e col fango egli è costretto a correre per i cortili; nella tempesta, nel gelo dei giorni intorno all’Epifania, egli se ne va nell’anticamera, per riposarsi soltanto per un momento dalle grida e dalle spinte del cliente irritato. Arriva un generale; il maestro delle poste tremante gli dà le due ultime trojki, fra cui anche quella destinata ai corrieri. Il generale se ne va, senza dirgli grazie. Cinque minuti dopo – un sonaglio!… e un messo di gabinetto gli getta sulla tavola il suo buono per il cambio dei cavalli!… Cerchiamo di penetrar tutto questo per benino, e invece che di sdegno il nostro cuore si riempirà di sincera compassione. Ancora qualche parola; per vent’anni di fila ho viaggiato la Russia in tutte le direzioni; quasi tutte le strade postali mi sono note; alcune generazioni di postiglioni mi sono ben conosciute; è raro il maestro delle poste ch’io non conosca di viso, è raro quello con cui non abbia avuto a che fare; la curiosa riserva delle mie osservazioni di viaggio spero di pubblicarla in tempo non lontano; frattanto dirò solamente che la classe dei maestri delle poste appare all’opinione comune nell’aspetto piú falso. Questi tanto calunniati maestri delle poste in generale son persone pacifiche, servizievoli per natura, inclini alla socievolezza, modeste nel pretendere degli onori e non troppo interessate. Dai loro discorsi (che i signori passeggeri inopportunamente disdegnano) si posson ricavare molte cose curiose e istruttive. Per quel che riguarda me, confesso che preferisco la loro conversazione ai discorsi di qualche funzionario della sesta classe, che conduca un’inchiesta per affari del fisco.
Si può facilmente indovinare che ho degli amici nell’onorata classe dei maestri delle poste. In verità, il ricordo di uno di essi mi è prezioso. Un tempo le circostanze ci unirono, e appunto di lui ho la intenzione di discorrere ora coi gentili lettori.
Nel 1816, nel mese di maggio, mi capitò di attraversare il governatorato di ***, per una strada ora soppressa. Avevo un grado modesto, viaggiavo con cavalli delle poste e pagavo per due cavalli. Per conseguenza i maestri delle poste non facevano complimenti con me, e spesso io prendevo con la forza quello che, secondo la mia opinione, mi spettava di diritto. Essendo giovane e collerico, m’indignavo della bassezza e pusillanimità del maestro delle poste, quando quest’ultimo concedeva a un signore d’alto grado per il suo calesse la trojka preparata per me. Altrettanto a lungo non potei abituarmi anche al fatto che un servo dotato di discernimento dimenticasse di servirmi una portata al pranzo d’un governatore. Adesso l’uno e l’altro fatto mi sembrano essere nell’ordine delle cose. In verità, che accadrebbe di noi se, invece della regola comoda per tutti: il grado rispetti il grado, se ne introducesse nell’uso un’altra, per esempio: l’ingegno rispetti l’ingegno? Che controversie sorgerebbero! e i servitori da chi comincerebbero a servire le vivande? Ma torno al mio racconto.
Era una giornata calda. A tre miglia dalla posta di *** cominciò a piovigginare, e dopo un momento una pioggia dirotta mi bagnò fino alla camicia. Arrivando alla posta, il mio primo pensiero fu di cambiarmi presto, il secondo di chiedere il tè.
«Ehi, Dunja,» gridò il maestro delle poste «metti su il samovar, e va’ a prender la panna.»
A queste parole di là dal tramezzo venne fuori una fanciulla di un quattordici anni e corse nella anticamera. La sua bellezza mi colpí.
«È tua figlia?» domandai al maestro delle poste.
«Mia figlia, sissignore,» egli rispose con aria di soddisfatto orgoglio «e cosí ragionevole, cosí svelta, tutta la sua povera mamma!»
A questo punto egli si mise a trascrivere il mio buono per il cambio dei cavalli, e io m’occupai a esaminare i quadretti che adornavano la sua umile, ma pulita dimora. Essi rappresentavano la storia del figliol prodigo: nel primo un onorando vecchio in berretto da notte e veste da camera congeda un giovane impaziente, che accoglie frettoloso la sua benedizione e un sacco coi denari. In un altro è rappresentata a vivaci colori la condotta dissoluta del giovanotto: egli è seduto a tavola, circondato da falsi amici e da donne impudiche. Piú innanzi, il giovane rovinato, vestito di cenci e con un cappello a tricorno, pasce i porci e divide il cibo con loro; sul suo volto son raffigurati un profondo dolore e pentimento. Finalmente, è rappresentato il suo ritorno dal padre: il buon vecchio, col medesimo berretto da notte e la veste da camera, gli corre incontro; il figliol prodigo sta ginocchioni: in prospettiva un cuoco uccide un vitello grasso, e il fratello maggiore interroga i servi sulla causa di questa contentezza. Sotto ogni quadretto lessi dei versi tedeschi adatti. Tutto questo s’è conservato fino a ora nella mia memoria, allo stesso modo dei vasi con la balsamina, del letto con la tendina variopinta, e degli altri oggetti che allora mi circondavano. Vedo come fosse ora lo stesso padron di casa, uomo d’una cinquantina d’anni, fresco e forte, e il suo lungo soprabito verde con tre medaglie appese a nastri scoloriti.
Non feci in tempo a pagare il mio vecchio postiglione, che Dunja era già tornata col samovar. La piccola civetta dal secondo sguardo aveva notato la impressione suscitata da lei su di me: abbassò i suoi grandi occhi azzurri; io cominciai a discorrere con lei; ella mi rispondeva senza nessuna timidezza, come una fanciulla che avesse veduto il mondo. Offersi a suo padre un bicchiere di ponce; a Dunja servii una tazza di tè, e cominciammo a conversare tutti e tre come se ci si conoscesse da un secolo.
I cavalli erano già pronti da un pezzo, e io seguitavo a non aver voglia di separarmi dal maestro delle poste e dalla sua figliola. Finalmente li salutai; il padre mi augurò buon viaggio, e la figlia mi accompagnò fino alla carrozza. Nell’anticamera mi fermai e le chiesi il permesso di baciarla; Dunja acconsentí… Molti baci posso enumerare
da che mi occupo di questo
ma neppur uno m’ha lasciato un ricordo cosí lungo, cosí piacevole.
Passarono alcuni anni, e le circostanze mi portarono su quella stessa strada, in quegli stessi luoghi. Mi rammentai la figlia del vecchio maestro delle poste e mi rallegrai al pensiero che l’avrei veduta di nuovo. “Ma” pensai “forse il vecchio maestro delle poste è già stato sostituito; probabilmente Dunja è già maritata.” Anche il pensiero della morte dell’uno o dell’altro balenò nel mio cervello, e mi avvicinavo alla posta di *** con un triste presentimento. I cavalli si fermarono presso la casetta della posta. Entrando nella stanza, riconobbi subito i quadretti che rappresentavano la storia del figliol prodigo; la tavola e il letto erano al posto di prima, ma sulle finestre non c’erano piú fiori, e tutto intorno mostrava la vecchiezza e l’incuria. Il maestro delle poste dormiva coperto da un tulup; il mio arrivo lo svegliò; si sollevò… Era proprio Simeon Vyrin; ma com’era invecchiato! Mentr’egli si preparava a trascrivere il mio buono per il cambio dei cavalli, io guardavo la sua canizie, le rughe profonde del viso da molto tempo non rasato, la schiena curva – e non potevo stupirmi abbastanza come tre o quattro anni avessero potuto mutare un uomo forte in un gracile vecchio.
«M’hai riconosciuto?» gli domandai. «Io e te siamo vecchi conoscenti.»
«Può darsi» egli rispose cupamente; «qui la strada è grande; molti passeggeri sono stati da me.»
«Sta bene la tua Dunja?» seguitai io. Il vecchio aggrottò le sopracciglia.
«Lo sa Iddio» rispose egli.
«Allora, vuol dire che è maritata?» dissi.
Il vecchio finse di non aver sentito la mia domanda e seguitò a leggere sottovoce il mio buono. Io misi fine alle mie domande e feci mettere in tavola la teiera. La curiosità cominciava a tormentarmi, e speravo che il ponce avrebbe sciolto la lingua del mio vecchio conoscente.
Non m’ero sbagliato: il vecchio non rifiutò il bicchiere offertogli. Notai che il rum aveva rischiarato la sua tetraggine. Al secondo bicchiere diventò loquace; si ricordò, o ebbe l’aria di ricordarsi, di me, e venni a conoscere da lui un racconto che allora mi interessò e mi commosse fortemente.
«Allora voi conoscevate la mia Dunja?» egli cominciò. «E chi non la conosceva? Ah, Dunja, Dunja! Che ragazza che era! Chiunque passasse di qua voleva lodarla, nessuno la giudicava male. Le signore le davano dei regali, una… un fazzolettino, l’altra… gli orecchini. I signori passeggeri si fermavano apposta, come per pranzare, o per cenare, ma in realtà soltanto per guardarla piú a lungo. Accadeva che un signore, per quanto arrabbiato fosse, in sua presenza si calmava e parlava benevolmente con me. Vorreste credere, signore: i corrieri e i messi di gabinetto perdevano delle mezze ore a chiacchierare con lei. Era lei che teneva su la casa; questo era da mettere a posto, quello da preparare, faceva in tempo a far tutto. E io, vecchio stupido, non la guardavo mai abbastanza, non ne gioivo mai abbastanza; non ero io che volevo bene alla mia Dunja, non ero io che vezzeggiavo la mia bimba? non faceva forse una bella vita? Ma no, gli scongiuri non liberano dal malanno: a quel ch’è destinato non si scampa.»
A questo punto egli cominciò a raccontarmi minutamente la sua sventura. Tre anni prima, un giorno, in una sera d’inverno, mentre il maestro delle poste rigava il suo registro nuovo, e sua figlia di là dal tramezzo si cuciva un vestito, giunse una trojka, e il passeggero, in berretto circasso, con un cappotto militare, imbacuccato in uno scialle, entrò nella stanza, richiedendo dei cavalli. I cavalli erano tutti fuori. A questa notizia il viaggiatore voleva già alzare la voce e il frustino; ma Dunja, abituata a scene di questo genere, corse fuori da dietro il tramezzo e si rivolse affabilmente al passeggero domandando se non sarebbe stato di suo gradimento mangiare qualcosa. L’apparizione di Dunja produsse il suo solito effetto. L’ira del passeggero passò; egli acconsentí ad aspettare i cavalli e si ordinò una cena. Toltosi il peloso berretto bagnato, svolto lo scialle e gettato giú il cappotto, il passeggero apparve come un giovane ussero snello con dei baffetti neri. Egli si installò dal maestro delle poste, cominciò a discorrere allegramente con lui e con sua figlia. Servirono da cena. Frattanto eran venuti i cavalli, e il maestro delle poste diede ordine che li attaccassero subito, senza dar loro da mangiare, alla vettura del passeggero; ma, tornando, egli trovò il giovanotto che giaceva quasi senza conoscenza su una panca: s’era sentito male, gli era venuto mal di capo, era impossibile partire… Come fare? Il maestro delle poste gli cedette il proprio letto, e fu deciso, se il malato non si fosse sentito meglio, di mandare a S. la mattina del giorno dopo a chiamare il medico.
Il giorno dopo l’ussero stette peggio. Il suo servo andò in città a cavallo a chiamare il medico. Dunja gli fasciò il capo con un fazzoletto bagnato nell’aceto, e si sedette vicino al letto di lui col suo lavoro di cucito. Il malato in presenza del maestro delle poste gemeva e non diceva quasi neppure una parola, tuttavia bevve due tazze di caffè e gemendo si ordinò il pranzo. Dunja non si allontanava da lui. Ogni momento egli chiedeva da bere, e Dunja gli tendeva una tazza con della limonata preparata da lei. Il malato inumidiva le labbra e ogni volta, rendendo la tazza, in segno di riconoscenza stringeva con la sua debole mano la mano di Dunjuška. All’ora del pranzo arrivò il medico. Egli tastò il polso del malato, parlò un po’ con lui in tedesco, e in russo dichiarò che gli ci voleva soltanto tranquillità, e che dopo un paio di giorni avrebbe potuto mettersi in viaggio. L’ussero gli mise in mano venticinque rubli per la visita, lo invitò a pranzo; il medico accettò; tutt’e due mangiarono con grande appetito, bevvero una bottiglia di vino e si separarono molto contenti l’uno dell’altro.
Passò ancora un giorno, e l’ussero si rianimò del tutto. Era straordinariamente allegro, scherzava di continuo ora con Dunja, ora col maestro delle poste; fischiettava delle canzoni, discorreva coi passeggeri, trascriveva nel registro postale i loro buoni per il cambio dei cavalli, e riuscí tanto simpatico al buon maestro delle poste, che la terza mattina gli dispiacque separarsi dal suo gentile pensionante. Si era di domenica: Dunja si accingeva ad andare alla messa. All’ussero prepararono la vettura. Egli salutò il maestro delle poste, lo ricompensò generosamente per il cibo e per l’alloggio; salutò anche Dunja e si offerse d’accompagnarla fino alla chiesa, che si trovava all’estremità del villaggio. Dunja era perplessa… «Di che hai paura?» le disse il padre. «Sua signoria non è mica un lupo e non ti mangerà; fatti portare dunque fino alla chiesa.»
Dunja si sedette nella vettura, il servo saltò sulla sponda, il postiglione fischiò, e i cavalli partirono al galoppo.
Il povero maestro delle poste non capiva in che modo avesse potuto permettere egli stesso alla sua Dunja di andare insieme con l’ussero, come l’avesse colto quell’accecamento, e che cosa fosse accaduto allora alla sua ragione. Non passò neppure mezz’ora, che il cuore cominciò a dolergli, a dolergli, e la inquietudine s’impadroní di lui fino a tal punto, che non si trattenne e andò egli stesso alla messa. Avvicinandosi alla chiesa, vide che la gente si disperdeva già, ma Dunja non c’era né dentro la cinta né sul sagrato. Entrò in fretta nella chiesa: il prete veniva via dall’altare; il sagrestano spegneva i ceri; due vecchietti pregavano ancora in un angolo; ma Dunja in chiesa non c’era. Il povero padre con grande sforzo si decise a domandare al sagrestano se ella era stata alla messa. Il sagrestano rispose che non c’era stata. Il maestro delle poste andò a casa né morto, né vivo. Gli rimaneva una sola speranza: a Dunja, nella sua giovanile sventatezza, era forse venuto in mente di farsi portare fino alla posta seguente, dove abitava la sua madrina. Egli aspettava in una tormentosa agitazione il ritorno della trojka sulla quale l’aveva lasciata andar via. Il postiglione non ritornava. Finalmente verso sera egli tornò solo e ubriaco con una notizia da far morire: “Dunja dall’altra posta aveva proseguito con l’ussero”.
Il vecchio non poté sopportare la propria sventura: dovette coricarsi subito in quello stesso letto, dove il giorno prima giaceva il giovane ingannatore. Adesso il maestro delle poste, considerando tutte le circostanze, si accorgeva che la malattia era stata simulata. Il poveretto fu preso da un forte febbrone; lo trasportarono a S., e al suo posto misero temporaneamente un altro. Il medesimo medico che era venuto dall’ussero curava anche lui. Egli assicurò il maestro delle poste che il giovanotto era perfettamente in salute, e che già allora egli aveva indovinato la sua malvagia intenzione, ma era stato zitto, temendo il suo frustino. Dicesse la verità il tedesco, o desiderasse soltanto di vantarsi della sua chiaroveggenza, certo con ciò non consolò punto il povero malato. Appena rimessosi dalla malattia, il maestro chiese al direttore delle poste di S. un congedo di due mesi, e senza dire a nessuno neppure una parola della sua intenzione, s’incamminò a piedi per andare a prender sua figlia. Dal buono per il cambio dei cavalli sapeva che il capitano Minskij andava da Smolensk a Pietroburgo. Il postiglione che l’aveva portato aveva detto che per tutta la strada Dunja aveva pianto, benché viaggiasse, sembrava, per suo desiderio. “Magari”, pensava il maestro delle poste “condurrò a casa la mia pecorella smarrita.” Con questo pensiero egli giunse a Pietroburgo, prese dimora al reggimento Izmajlovskij, in casa d’un sottufficiale in riposo, suo vecchio camerata, e cominciò le sue ricerche. Ben presto egli seppe che il capitano Minskij era a Pietroburgo e abitava all’albergo Demut. Il maestro delle poste decise di presentarsi a lui.
La mattina presto venne nella sua anticamera e pregò di riferire a sua signoria che un vecchio soldato chiedeva di vederlo. L’attendente, pulendo uno stivale sulla forma, dichiarò che il padrone riposava e che prima delle undici non riceveva nessuno. Il maestro delle poste se ne andò e tornò all’ora stabilita. Minskij stesso gli venne incontro in veste da camera, con un berretto rosso. «Di che hai bisogno, amico mio?» gli domandò. Il cuore del vecchio cominciò a fremere, gli vennero le lagrime agli occhi, e proferí solamente con voce tremante: «Signoria!… fate questa grazia in nome di Dio!…». Minskij lo guardò in fretta, si fece di fiamma, lo prese per un braccio, lo condusse nello studio e chiuse la porta dietro di sé. «Signoria!» seguitava il vecchio «cosa fatta capo ha; rendetemi, almeno, la mia povera Dunja. Vi siete pur cavato la voglia di lei; non rovinatela dunque per nulla.»
«A quel ch’è già fatto non si rimedia» disse il giovanotto in un’estrema confusione; «sono colpevole dinanzi a te e son contento di chiederti perdono; ma non credere ch’io possa lasciare Dunja: ella sarà felice, te ne do la parola d’onore. Che bisogno hai tu di lei? Mi ama; s’è disavvezzata dalla sua condizione di prima. Né tu, né lei dimenticherete quello ch’è accaduto.» Poi, avendogli ficcato qualcosa dietro la manica, aperse la porta, e il maestro delle poste, senza ricordarsi neppur lui come, si ritrovò in istrada.
Stette fermo a lungo, finalmente vide entro la risvolta della sua manica un fascio di fogli; li tirò fuori e spiegò alcuni assegnati stazzonati da cinquanta rubli. Gli vennero di nuovo le lagrime agli occhi: lagrime d’indignazione! Strinse i fogli facendone una pallottola, li gettò in terra, li calpestò col tacco e andò via… Allontanatosi di alcuni passi, si fermò, pensò un poco… e ritornò… ma gli assegnati non c’erano piú. Un giovanotto ben vestito, vedendolo, corse verso una vettura di piazza, vi salí frettolosamente e gridò: «Via!…». Il maestro delle poste non lo rincorse. S’era deciso ad andare a casa, alla sua posta, ma prima voleva vedere ancora almeno una volta la sua povera Dunja. Per questo, dopo un paio di giorni ritornò da Minskij; ma l’attendente gli disse con rudezza che il padrone non riceveva nessuno, lo spinse fuori col petto dall’anticamera e gli sbatté la porta sotto il naso. Il maestro delle poste stette lí, stette lí, e poi se ne andò.
Quello stesso giorno, alla sera, egli camminava per la via Litjejnaja, dopo aver fatto cantare un Te Deum alla chiesa di Tutti gli Afflitti. A un tratto gli passò accanto di corsa una carrozza elegantissima, e il maestro delle poste riconobbe Minskij. La carrozza si fermò davanti a una casa a tre piani, proprio all’ingresso, e l’ussero salí correndo sulla scalinata. Un’idea felice balenò nel capo del maestro delle poste. Ritornò indietro e, giunto all’altezza del cocchiere: «Di chi è il cavallo, amico?» domandò «non è di Minskij?». «È proprio cosí» rispose il cocchiere; «e tu che vuoi?» «Ecco qua quello ch’è successo: il tuo padrone m’ha ordinato di portare un bigliettino alla sua Dunja, e io mi sono scordato dove la sua Dunja abita.» «Ma ecco, qui, al secondo piano. Sei arrivato tardi, amico, col tuo bigliettino; adesso c’è già lui da lei.» «Non importa,» ribatté il maestro delle poste con un indefinibile moto del cuore «ti ringrazio d’avermi informato, io poi saprò fare quel che devo.» E con queste parole salí la scala.
La porta era chiusa; egli sonò. Passarono alcuni secondi in un’attesa penosa per lui. Stridette una chiave; gli apersero. «Abita qui Avdotja Simeonovna?» egli domandò. «Sí, qui» rispose la giovane servetta «per che cosa ti ci vuole?» Il maestro delle poste, senza rispondere, entrò in una sala. «Non si può, non si può!» gli gridò dietro la servetta «Avdotja Simeonovna ha degli ospiti!»
Ma il maestro delle poste andava avanti senza ascoltare. Le due prime stanze erano buie, nella terza c’era la luce. Egli si avvicinò alla porta aperta e si fermò. Nella stanza, magnificamente ammobiliata, Minskij sedeva pensieroso. Dunja, vestita con tutto il lusso della moda, era seduta sul bracciolo della poltrona di lui, come una cavalcatrice sulla propria sella inglese. Ella guardava Minskij con tenerezza, arrotolando i riccioli neri di lui sulle sue dita scintillanti. Povero maestro delle poste! Mai sua figlia gli era sembrata cosí bella; era forzato ad ammirarla. «Chi è?» ella domandò senz’alzare il capo. Egli taceva sempre. Non ricevendo risposta, Dunja alzò la testa… e con un grido cadde sul tappeto. Minskij spaventato si precipitò per tirarla su, e a un tratto, vedendo sulla porta il vecchio maestro delle poste, lasciò Dunja e andò verso di lui, tremando d’ira.
«Di che hai bisogno?» gli disse, stringendo i denti «perché mi segui di nascosto dappertutto, come un brigante? o vuoi ammazzarmi? Fuori di qua!» e agguantando con mano forte il vecchio per il colletto, lo spinse sulla scala.
Il vecchio ritornò alla sua abitazione. Il suo amico gli consigliava di fare una denunzia; ma il maestro delle poste ci pensò su, ci fece una croce sopra e si decise a cedere. Due giorni dopo ritornò indietro da Pietroburgo alla sua posta e riprese il suo ufficio.
«Ecco già due anni» egli concluse «che vivo senza Dunja e che di lei non si sa nulla. Se è viva o no, lo sa Iddio. Ne accade d’ogni genere. Non è lei la prima, non è l’ultima che uno scapestrato di passaggio abbia sedotta e tenuta un poco laggiú, e poi abbandonata. Ce n’è molte a Pietroburgo, di giovani sciocche, oggi vestite di raso e di velluto, e domani le vedrai spazzare le strade insieme con gli scalzacani delle taverne. Quando si pensa a volte che anche Dunja, forse, va alla perdizione cosí, vien fatto peccare senza volerlo e di augurarle la tomba.»
Tale fu il racconto del mio amico, il vecchio maestro delle poste, racconto interrotto piú d’una volta dalle lagrime, ch’egli asciugava pittorescamente con la sua falda, come lo zelante Terentjič nella bellissima ballata del Dmitriev. Queste lagrime erano in parte stimolate dal ponce, di cui egli sorbí cinque bicchieri durante la sua narrazione; ma comunque fosse, esse commossero fortemente il mio cuore. Separatomi da lui, per lungo tempo non potei dimenticare il vecchio maestro delle poste, per lungo tempo pensai alla povera Dunja…
Ancora di recente, passando per il paesino di ***, mi rammentai del mio amico; seppi che la posta, di cui egli era a capo, era stata soppressa. Alla mia domanda se fosse vivo il maestro delle poste nessuno poté darmi una risposta soddisfacente. Mi decisi a visitare il luogo a me noto, presi dei cavalli privati e mi avviai al paese di N.
Questo capitò d’autunno. Nuvole grigiognole coprivano il cielo; un vento freddo soffiava dai campi mietuti, portando via le foglie rosse e gialle dagli alberi che incontrava. Arrivai in paese al tramonto del sole e mi fermai presso la casetta della posta. Nell’anticamera (dove un tempo m’aveva baciato la povera Dunja) mi venne incontro una grossa donna, e alle mie domande rispose che il vecchio maestro delle poste era quasi un anno che era morto, che nella sua casa s’era stabilito un birraio, e che lei era la moglie del birraio. Mi rincrebbe del mio viaggio inutile e dei sette rubli spesi per nulla.
«E di che è morto?» domandai alla moglie del birraio.
«S’era dato al bere, batjuška» ella rispose.
«E dove l’hanno seppellito?»
«Di là dal chiuso, accanto alla sua donna bonanima.»»
«Non si potrebbe accompagnarmi fino alla sua tomba?»
«E perché non si può? Ehi, Vagnka! smettila di fare il chiasso col gatto. Accompagna un po’ il signore al cimitero, e indicagli la tomba del maestro delle poste.»
A queste parole un ragazzo stracciato, di pelo rosso e cieco da un occhio, mi corse incontro e mi accompagnò subito di là dal chiuso.
«Lo conoscevi il bonanima?» gli domandai durante la strada.
«Come non conoscerlo! M’ha insegnato a intagliare gli zufoli. Un tempo (che Dio l’abbia in gloria!) veniva dall’osteria, e noi dietro: “Nonno, nonno! le nocciole!” e lui allora ci distribuiva le nocciole. Faceva sempre il chiasso con noi, un tempo.»
«E le persone di passaggio lo rammentano?»
«Ma adesso ci son poche persone di passaggio; se non è l’assessore che viene da queste parti, ma quello non s’interessa dei morti. Ecco, nell’estate passò di qui una signora, quella chiese del vecchio maestro delle poste e andò a visitare la sua tomba.»
«Che signora?» domandai io con curiosità.
«Una bellissima signora» rispose il monello; viaggiava in una carrozza a sei cavalli, con tre piccoli signorini e la balia, e con un canino nero, e quando le dissero che il maestro delle poste era morto, lei si mise a piangere e disse ai bambini: “State buoni, e io vado un momento al cimitero”. E io volevo offrirmi per accompagnarla. Ma la signora disse: “La so da me la strada!”. E mi diede un soldo d’argento… una signora cosí buona!»
Giungemmo al cimitero, un luogo nudo, non chiuso da nulla, cosparso di croci di legno, non ombreggiate neppure da un albero. Non avevo mai visto in vita mia un cimitero cosí triste.
«Ecco la tomba del vecchio maestro delle poste» mi disse il ragazzo, saltando sopra un mucchio di sabbia, in cui era piantata una croce nera con un’immagine sacra di rame.
«E la signora venne qua?»
«Venne» rispose Vagnka; «io la guardavo da lontano. Si distese qui e ci stette a lungo. E poi la signora andò in paese e fece chiamare il prete, gli diede dei denari e partí, e a me diede un soldo d’argento… un’ottima signora!»
Anch’io diedi un soldino al monello e non mi rincrebbe piú né del viaggio, né dei sette rubli da me spesi.
1830.
Fine.
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TITOLO: Il maestro delle poste
AUTORE: Aleksandr Puskin
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Romanzi e racconti / Aleksandr Puskin ; prefazione di Angelo Maria Ripellino ; traduzioni dall'originale russo di Leone Ginzburg \et al...!. - Milano : A. Mondadori, 1963. - 673 p. ; 19 cm. - (Biblioteca moderna Mondadori ; 774-777).
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)