Il gruppo
di
Cesare Pavese
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Non eravamo piú giovani, eppure ci scappavano fatte delle cose inesplicabili. Ci trovavamo i pomeriggi della domenica su per quella scala buia, chiusa fra due pareti, e salivamo salivamo fino al pianerottolo che una finestra aperta sul cielo nudo rischiarava. Il Capitano ci riceveva impassibile, apriva la porta senza fermarcisi, e noi entrando lo trovavamo già in mezzo alla stanza, come se la porta si fosse aperta da sé. La stanza, desolata, aveva una grande finestra come quella del pianerottolo e c’era un tavolo, qualche sedia, ma sembrava vuota.
Non ricordo chi di noi ci avesse fatta fare la conoscenza del Capitano. Mi pareva di esser sempre salito lassú la domenica pomeriggio, e d’averci sempre trovato gli altri. Succede come quando si frequenta un caffè abitualmente: uno si lascia cadere sul suo divano, si guarda intorno soddisfatto, ma non saprebbe dire come ci venne la prima volta.
Probabilmente – anzi di certo – l’amico G., visto che godeva lui la maggior confidenza del Capitano, era stato il primo a visitarlo. E, ancora di recente, un nuovo compagno era stato portato lassú da G. Nei discorsi che ci accadeva di fare a volte intorno al Capitano, era G. che parlava con maggior calore e diceva le cose piú importanti. E se qualcuno di noi contraddiceva, era G. che si metteva a sorridere con commiserazione.
Ma, per quanto disuniti di pareri, la domenica c’eravamo sempre tutti. Di volta in volta non si prendeva appuntamento, non ci si diceva arrivederci. A una certa ora si usciva di casa, si bighellonava un po’, ci si riuniva a due a tre e, capitati su quella piazzetta, si levava la testa alla finestra altissima, si aspettava se veniva qualche altro, poi si saliva.
Il pomeriggio trascorreva in discorsi pacati, qualche volta in diverbi. A questi il Capitano non prendeva parte. Il piú litigioso era U., avvocato e vedovo, eterno antagonista dell’amico G. che con lui s’impermaliva e qualche volta dimenticava di sorridere. Quando parlava il Capitano, era quasi sempre di torti, di violenze inflitte o patite, e della forza d’animo necessaria a sormontarle.
Ma non sono le parole dette o ascoltate lassú che possono darmi la chiave del nostro strano contegno di quel tempo. Quando si è un crocchio, i discorsi riescono sempre banali, o trascurabili. Ciò che mi sorprende è che non piú giovani, anzi uomini fatti com’eravamo, lasciassimo chi la famiglia, chi lo spettacolo, chi una piú cara compagnia, per arrampicarci come ragazzi su quelle scale e «guardare la città di lassú».
Fuori, per le vie, il Capitano nessuno l’aveva mai visto. Pareva deciso a finir la sua vita lassú, aggirandosi per quell’unica stanza, gettando occhiate dalla finestra sui tetti. Le sue passeggiate le faceva di buon mattino, tanto che, discorrendone la domenica, aveva l’aria di parlare di un’altra città che non la nostra: le sue strade avevano un diverso movimento e tutt’altra luce. E anche noi salivamo – ormai per abitudine – quelle scale, dicendoci che il nostro gesto era soltanto un atto di simpatia verso un vecchio degno, ma nel suo intimo ciascuno si lusingava che quella volta la riunione sarebbe riuscita per lui specialmente importante, consacrando una sua parola memorabile, una confessione, un detto che, piacendo al Capitano, l’avrebbe poi per sempre contraddistinto davanti a tutti e a se stesso.
Di noi soltanto l’avvocato U. pareva non pesare le parole e osar di mostrarsi al Capitano, senza riguardi, qual era. Uomo verboso e sarcastico, parlava in presenza di lui come avrebbe parlato da solo in piazza. Qualche volta mi sentivo a disagio io, per la sua mancanza di tatto.
Ora avvenne una domenica scendendo le scale al crepuscolo – il Capitano andava a letto col sole –, che G. disse una mala parola all’avvocato, e l’altro al solito minacciò di chiedergli soddisfazione in pretura. La cosa non ebbe seguito perché ci riuscí di volgerla in scherzo, ma quella sera l’amico G., accompagnandomi a casa, si sfogò con me del rancore accumulato, lagnandosi e raccontandomi i suoi sospetti. Stava di fatto che U. l’arrogante si permetteva quel tono perché era stato a trovare il Capitano da solo a solo, e usava insomma salire da lui di tanto in tanto nel pomeriggio e anche al mattino.
La cosa presto si seppe da tutti quanti. Dapprima ci parve incredibile, dato che il Capitano con la sua franchezza avrebbe almeno dovuto lasciarcelo capire nei pomeriggi di riunione. Che cosa il vecchio facesse negli altri giorni in cui non lo vedevamo, era sempre stato per noi argomento di curiosità, di quella curiosità che favorisce la fantasticheria e non desidera veramente esser soddisfatta giacché è un piacevole e lusinghiero passatempo. Ma ora, il sapere che uno di noi saliva lassú per conto proprio, sapere che discorreva col vecchio e che il vecchio ci stava, ci irritò e ci deluse. Se a qualcuno il privilegio poteva toccare, questo qualcuno era l’amico G., non altri.
Espressi all’amico la mia indignazione e lo consigliai di parlarne con tatto una buona volta la domenica pomeriggio. G. mi disse che ci aveva pensato, ma non avrebbe voluto creare dell’imbarazzo. Comunque, era pronto. Ma proprio quella domenica andò che a uno di noi nacque il primo figlio, e ciò produsse un incrociarsi di visite e un ricevimento che scompaginarono la riunione. In sostanza salirono la scala del Capitano soltanto l’avvocato U. e l’ultimo venuto, quello presentato da G. Da allora crebbero i malumori, e ben presto cessammo di dirigere lassú i nostri passi.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Il gruppo
AUTORE: Pavese, Cesare
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze
TRATTO DA: Racconti / Cesare Pavese. - Torino : Einaudi, [1994]. - 525 p. ; 20 cm.
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)