Il castello abbandonato
di
Pietro Giuria
tempo di lettura: 67 minuti
I
I racconti popolari di strane apparizioni, folletti, morti ed altre simili stregonerie, nascono, non v’ha dubbio, dalla credulità e dall’ignoranza; ma chi togliesse ad indagarne la prima radice, non di rado, sotto l’apparenza d’un mistero e di una burlevole superstizione, scoprirebbe un delitto, un argomento di inorridire invece di sorridere. Se espiar si potessero gli anditi piú secreti, le vôlte sotterranee di castelli che signoreggiano ancora a’ dì nostri la mente di chi li visita colle gigantesche loro rovine, vestite d’edera, imbrunite dall’incendio o dai secoli, ricomparirebbero vive sui pavimenti le goccie d’un sangue invendicato che, lavatele venti volte, non si cancellarono; l’insidioso trabocchetto che cedea di subito sotto i piedi della vittima designata; e sarebbe forza l’allontanarsene coll’anima inorridita e disdegnosa. Quegli erano i bei tempi del feudalismo, degli stemmi cavallereschi che taluni, della natura delle upupe e dei pipistrelli, vorrebbero ancora riporre in onore; ma la mano vendicatrice de’ popoli gettò le fiamme in que’ covili di serpenti, ne svelò gli arcani spaventevoli, li consacrò all’infamia, come gli antichi li avrebbero consacrati alle Furie. Eppure tutto non è finito; la tradizione popolare ne rimescola ancora le ceneri, risuscita i delitti dall’ossame del colpevole; dà loro forma e movimento per trarli dal sepolcro, e pare che gridi ai posteri:
Discite justitiam moniti…
In questo caso la tradizione popolare è degnissima dell’attenzione dello storico e del filosofo; è una voce superstite, una giustizia suprema e quasi divina che rivendica i diritti del debole conculcati, ed imprime il marchio dell’infamia alle scelleraggini fortunate del potente.
Il castello, teatro del dramma misterioso che prendo ad abbozzare (senza toccar di troppo le circostanze de’ luoghi e delle persone, perché non distanti ancor molto da noi), è posto su d’una eminenza, allo sbocco d’una gola di montagne che vanno a gittarsi in mare. L’aspetto fantastico dell’edifizio, la solitudine e la scena boschereccia che lo circondano, ti ispirano nell’animo un terrore misterioso, indefinito, e si acconciano mirabilmente alle leggende popolari. Sebbene disabitato da oltre cinquant’anni, è intatto nell’esterno e nell’interno, addobbato col lusso dello scorso secolo, co’ suoi rabeschi, cogli enormi suoi camini, co’ suoi specchi alla Luigi XIV, co’ suoi seggioloni damascati; tutto in pronto, quasi gli abitanti ne fossero usciti per un momento a diporto. Solamente un amplissimo finestrone che si inarca nel bel mezzo della facciata, scassinato dal vento e dalla pioggia, rimase aperto, e battendo talvolta impetuosamente nel silenzio della notte, sveglia l’eco solitaria degli interni appartamenti.
Nessuno l’abita, nessuno si gli avvicina senza tremore. Il marinaio che commette la sua vita ad una tavola sopra gli abissi del mare; il montanaro che non teme d’accapigliarsi col lupo, non si indurrebbero per tutto l’oro del mondo a passar soli una notte entro il recinto di quel castello.
— E perché? domandai io ad un vecchio contadino che mi serviva di guida.
— Perché vi si sente…
— E che vi si sente?
— La Contessa ed il Notaio.
— Un fantasma nero, gigantesco, proseguì la mia guida, ogni notte, al tocco delle dodici, si arrampica su per quel muro cosí ripido, cosí sdrucciolevole, trascinato suo malgrado da una forza irresistibile. Quel finestrone si spalanca; ed una larva femminile, vestita tutta quanta di bianco, pallida, scarmigliata, si sporge innanzi, lo afferra per i capelli; e quel fantasma, sebbene di forme colossali e di sembianza spaventevole, è costretto ad ubbidirle, come avverrebbe d’un colpevole sotto il braccio del percussore. Allora la mano di quella donna, cosí acciuffatolo, lo strascina tutta notte per le camere, per gli anditi, per le scale, ed un gemito fioco, lungo, disperato, echeggia funebremente di sala in sala.
— E chi è questa donna che ogni notte, all’ora stessa compie inesorabile la sua vendetta da oltre mezzo secolo?
— È la Contessina, l’antica padrona del castello. Entrate nella prima sala; vedrete sospeso alla parete il ritratto d’una giovinetta, dalle forme molli e graziosenota 1; dalla bocca sorridente con espressione di bontà e mestizia, dalla bionda e ricca capigliatura acconciata secondo l’uso di que’ tempi; un corsaletto di velluto azzurro le stringe il seno delicato, e compone la sua persona ad una grazia, ad una sveltezza incantevole. Ma que’ capelli non doveano incanutire; quelle labbra doveano chiudersi nella morte, senza aver provato mai il bacio dell’amore!
— E donde tant’ira, tanta vendetta in una giovane cosí leggiadra, cosí buona, come appare dalle vostre parole!
— Iddio, rispose il contadino, la fa strumento di sua giustizia. Vedete quel picciol lago presso il castello? Una notte – era la notte dei morti! – dopo una tempesta spaventevole di mare e di terra, quel lago rigettò il cadavere d’un giovanetto… e quel cadavere avea gli occhi gonfi, il collo nero come uomo soffocato da una stretta di fune. Di lì a poco tempo la Contessina scomparve, nè fu riveduta mai più viva nelle mura del castello.
— E il fantasma che si arrampica su per quel muro, al supplizio d’ogni notte?
— È l’anima del Notaio.
E un tremito di paura o, per meglio dire, di orrore scorse visibilmente tutte le fibre del contadino.
— È l’anima del Notaio, soggiungea quindi, fattosi il segno della croce, forse l’anima abita ancora, per suo supplizio, dentro il cadavere, nè trova quiete nemmen nel sepolcro. Se vi aggrada di visitar quel castello, ora in piena luce, andrò narrandovi mano a mano la triste istoria.
Dopo alcuni momenti entravamo per un grande atrio, in quella romantica abitazione, divenuta ormai nido di paure e d’uccelli di mal augurio.
II
Quel ribrezzo indescrivibile che la solitudine e il silenzio ti ispirano, tanto piú ove t’avvenga d’incontrare ad ogni passo gli indizii della vita domestica e l’assenza d’ogni creatura vivente, m’invase l’anima, mi strinse il cuore, non sí tosto gittai lo sguardo tra il dubbio lume di que’ deserti appartamenti. Mi pareva che da que’ mobili, da quelle antiche tappezzerie pendenti a brani dalle pareti, dal pavimento stesso esalar dovessero misteri di sangue e di morte. Eppure non v’ha cosa che sia scomposta; tutto rimase intatto quale fu abbandonato, or fa meglio di cinquant’anni. Perfino le auree branche dei candelabri sporgenti dalle pareti conservano nei collarini di cristallo i moccoli dei cerei stessi che illuminavano – chi sa forse! – quale angosciosa veglia, quale scena di spavento! Ascoltava con una specie di brivido il calpestio de’ miei passi risuonanti sul palchetto del pavimento, ripetersi nelle altre sale oscure, taciturne da mezzo secolo! L’imagine della Contessina m’apparia d’ogni parte; quello è il letto di lei; quelle coperte rabescate, quel padiglione polveroso la videro solitaria in questa sala strascinare i giorni nell’agonia, nel desiderio della morte. Chi sa quante lacrime avrà versate su quel capezzale! In quello specchio gigantesco, ove da tanti anni non si riflette faccia umana, chi sa quante volte, dopo una notte senza riposo, avrà contemplate le sue sembianze, ogni dì piú scarne, piú scolorate!
Traversate parecchie camere, tra le quali una gran sala tappezzata di ritratti, unici abitanti di quel castello, e discesa una scaletta a chiocciola, mi trovai nella cappella domestica, grazioso edifizio gotico. Respirai; la presenza d’un altare, tuttoché deserto, scaccia i cattivi genii, le tristi ispirazioni e ricorda i piú bei giorni, le gioie e gli atti piú solenni della vita. Al fioco lume che vi penetrava, mi venne veduto nel ripostiglio d’un nero inginocchiatoio, un grosso libro d’argentee borchie, adorno di bei rabeschi; l’aprii, e trovai il segno alle preghiere per i defunti! La povera Contessina, pensai fra me stesso, le avrà forse recitate per se medesima! e mi occorsero casualmente allo sguardo quelle parole:
I miei giorni passarono come un’ombra,
Inaridirono come l’erba dei campi.
Tale forse è l’espressione, il compendio della tua vita, povera giovinetta!… Oggi tutto è muto… Passarono gli abitanti di questo castello… e di tutto questo dramma misterioso, non rimane che un riflesso, ma un riflesso sanguinoso nella strana apparizione e nella lotta dei due fantasmi.
Ecco la tradizione quale mi fu raccontata.
III
Il vecchio Conte, padrone del castello, era uno di que’ tipi che, ora colla parrucca incipriata ed ora col pizzo al mento, si trovano in tutti i secoli; uomini, che dopo aver corteggiato il bel sesso per quasi mezzo secolo, senza aver mai intraveduto, nemmeno per un momento, che sia l’amore, giunti ai sessant’anni senza veruna stima per la donna che o non conobbero o contaminarono, pensano ad ammogliarsi; e ciò che v’ha di piú strano in questa razza di sedicenti filosofi, i quali si vantano conoscitori espertissimi del bel sesso, si è che, coi grigi loro capelli screziati ad iride, collo sbiadato loro sorriso, si argomentano d’invaghire una giovanetta, o compensare coi titoli e colle ricchezze a quel bisogno prepotente, ineluttabile che la natura ha posto in cuore della gioventù, il bisogno d’una vitale corrispondenza di affetti e di inclinazioni. Nè costoro si inducono al matrimonio per istima od amicizia che mettano in una donna; sí bene per orgoglio – acciò il casato non si spenga! – Ed in vero, priva d’essi, la patria andrebbe a fascio! Perché invece non tramandare esempli di virtù in cui vivere perpetuamente?
Eloisa, la Contessina, cui già accennammo, avea sposato quest’uomo senza conoscere ciò che importasse averlo a marito. In affare che decide di tutta la vita, che è il sommo degli affari, e su cui nessuno nè deve nè può sentenziare, se non quell’unico che ha da subirne le conseguenze, non manca mai o la zia o la sorella già maritata che si affretta a rispondere per la zitella; e difatti Eloisa non ne era stata informata che per disporsi al tremendo rito. Timida per natura, educata in un modo atto a tradire l’innocenza delle giovinette, disponendole bel bello a sposare un vecchio, senza dir loro ciò che importi l’esser moglie, colta all’impensata e priva d’una madre che l’avrebbe almeno sovvenuta de’ suoi consigli, non ebbe tempo di consultarsi, di preveder l’avvenire; si abbandonò tutta nelle braccia d’una sorella primogenita già maritata, la quale, accarezzandola, suscitandone per un momento la vanità femminile, le diè la spinta nel precipizio, la pugnalata di misericordia. – Perché le cose procedano in questa guisa, nol vo’ indagare; il fatto sta. – Eloisa, vestita pomposamente, direi quasi a guisa di vittima incoronata, se il paragone non sapesse di rancido, comparve innanzi all’ara; e Dio fu chiamato a testimonio d’un tradimento, d’un assassinio morale che la società, specialmente la piú elevata, chiama il piú delle volte un bel matrimonio, un matrimonio di convenienza che equivale al titolo di mercato, al traffico dei Negri e peggio.
Ora i parenti si ritirano. – La giovinetta di diciotto anni riman sola faccia a faccia col marito sessagenario. I sogni beati delle sue notti, quell’imagine d’un essere sconosciuto, quasi angelico, che alimenta di meste e soavi fantasie la mente ingenua d’una vergine, quell’orizzonte di rosa non ombrato da alcuna nuvola, che preconizza un giorno aspettato nell’avvenire, i fiori della vita, insomma… argomenta, discreto lettore, come finirono. Ma che importa? Non deve forse esser paga, felice? Una loggia al teatro, le modiste piú decantate nell’anticamera; quattro domestici bardati come i cavalli della vettura; l’ingresso alla conversazione della marchesa N. N., un olimpo profumato dove si raccolgono le dame piú brillanti, i giovani piú garbati, stuolo di splendidi mannequins, per cui l’Italia conserva ancora lo scettro delle grazie. La sorella primogenita si recò subito a dovere il presentare la giovane Eloisa a quel consesso di dee e semidei; e, bellissima come ella era, ne ottenne facilmente l’ammirazione e gli applausi. Non mancarono versificatori, laureati in diverse accademie, che celebrassero la bellezza della sposa, le virtù del marito, i gloriosi titoli degli antenati baroni e conti, che nel loro distretto aveano il diritto di far impiccare chi loro non talentava; nè amici ossequiosi che non augurassero una serie di eroi somiglianti ai padri. Ora chi sarà quel plebeo, quell’arriéré che venga a domandarvi se la giovinetta, nel darsi tutta all’unico suo marito, ha scelto il compagno del suo cuore? Oh queste cose le cercavano que’ vecchi provinciali, que’ nonni che avrebbero creduto commettere, in questo caso, un’oscena ribalderia, una viltà sozza; ma essi non avevano che idee grette, meschine, e nessuno intelletto di galanteria; ora che la civiltà ha progredito, mercè i modellini di Parigi… non si ha piú nè pudore nè rimorso.
Eloisa e il vecchio Conte, passate le feste dei primi giorni di matrimonio, partivano dalla capitale della Liguria alla volta del loro castello. Il Notaio del villaggio si affrettò ad ossequiarli, vestito pomposamente di quell’antico uniforme che vediamo comparire talvolta fra le maschere di carnovale.
Questi era un uomo sui cinquant’anni, tarchiato ed alto della persona. I suoi occhi neri e vividi, le sopracciglia folte ed accostate, avrebbero data al suo sguardo la nobiltà e l’ardimento di quello dell’aquila, se non vi fosse balenata foscamente l’astuzia della serpe. Il naso affilato e curvo, la mascella molto angolare, le labbra sottili e chiuse, ti rivelavano a prima vista un’indole ferma, insidiosa e maligna. Aggiungi alcune ciocche di capelli sottili e radi che strisciavano sopra una fronte larga e piatta come quella della tigre, una fronte che invece di infiammarsi alle subite concezioni del suo cervello sempre in moto, si illividiva e si corrugava. Quest’uomo solea spesso sorridere, ma il sorriso del suo labbro non armonizzava mai coll’espressione dello sguardo; il suo occhio stava sempre ghiacciale. La mala natura di uomini tali ti si manifesta dalle sembianze, come la pianta velenosa ti si rivela dal suo lividume; eppure, facendosi manto di pratiche religiose, era giunto a usurpar fama di galantuomo.
E quest’essere formidabile, profondo, vendicatore aveva gettato il suo sguardo d’avvoltoio sulla giovinezza della ingenua Contessina.
IV
I mille iniqui avvolgimenti con cui l’anima infernale del Notaio tentò corrompere, travolgere il giudizio e il cuore di Eloisa, tradire l’inesperta sua giovinezza, non poteano essere architettati che dal cervello d’un uomo, profondo conoscitore del cuore umano per quella perspicacia di rettile che è tutta propria delle nature malvage, e per la triste esperienza delle vie torte, dei raggiri, dei cavilli onde la virtù si maschera e si tradisce. V’ha un ingegno splendido, generoso, dono veramente di Dio, che tende al bene e lo comanda; ve n’ha un altro abbietto, tenebroso, illuminato, direi quasi, dalle vampe dell’inferno e spiro di satana, che tende al male e trova mille vie al delitto con una acutezza, con una ostinazione veramente spaventevoli. E questo talvolta prevale a quello, come il serpente prevale all’aquila, avviluppandola insidioso colle sue spire e trafiggendola col suo dardo avvelenato. Il Notaio tentò mascherare la trista sua passione colla larva della virtù, finanche col sentimento religioso; assunse le sembianze d’un amico, d’un Mentore, tutte le facce del vizio proteiforme; ma l’animo illibato, e naturalmente retto della Contessa, conobbe sempre tra mezzo ai fiori la bava del serpente; alla maraviglia, al primo impeto di indegnazione successe il disprezzo, ed al disprezzo il silenzio. Eppure quel demone non cadde d’animo; la Contessina gli parve piú che mai bella; piú prezioso quanto piú contrastato l’acquisto; la virtù di lei fu stimolo al mal talento di quello sciagurato. Tacque, divorò il dispetto, torse in meglio le sue parole, aspettò tempo. Non ha forse mille espedienti nelle sue mani? la paura, la minaccia di calunniarla presso il vecchio marito, denigrarla in pubblico? La sua stessa riputazione di uomo incorruttibile non è un’arme contro quella di bella e giovin donna sempre esposta a dubbie interpretazioni? E pur troppo non attese a lungo il destro di vendicarsi.
Un giovinetto, compiuti appena i suoi studii di medicina nell’università di Genova, si era recato in condotta nel nostro villaggio; nè tardò ad essere ammesso nel castello del vecchio Conte. Colto d’ingegno, grazioso nell’aspetto, elegante nei modi, d’indole aperta e generosa, divenne ben presto, senza avvedersene, rivale fortunato d’un terribile competitore; ed Eloisa, semplice ed innocente, sentì nascere nel proprio cuore una nuova vita, una gioia ineffabile ogniqualvolta il giovane Edoardo si presentava, e sovente un profondo abbattimento nell’ore di solitudine. L’occhio grifagno del Notaio avea sorprese quell’improvvise vicissitudini nelle ingenue sembianze della Contessa, avea interpretato il suo turbamento al semplice nome e all’apparire del giovanetto, e prima che essi stessi se ne avvedessero, avea scoperto i nascenti affetti del loro cuore. Quindi in quell’animo efferato e corrotto si gettò un’invidia, una gelosia che doveano accendervi in poco d’ora le passioni piú sanguinarie.
Una sera – mentre da una parte i raggi estremi del sole imporporavano l’azzurro della marina, e dall’altra sorgea la luna candida, vereconda, in quel molle e voluttuoso crepuscolo, imbalsamato dal profumo dei fiori, in quell’ora misteriosa che apre l’anima alle piú tenere confidenze – Eloisa ed il giovane Edoardo, che tale era il nome del medico, passeggiavano lentamente nei viali del castello, e soffermavansi tratto tratto per ammirare la bellezza del mare, dell’orizzonte, delle colline. Godevano nel secreto dell’anima di trovarsi insieme, sebbene il loro labbro non avesse pronunciata mai parola che rivelasse quell’ebbrezza tutta arcana, tutta pura. Ma il cuore per ispiegarsi, abbisogna forse del meschino alfabeto inventato dagli uomini? Le cifre del suo linguaggio non sono pochi segni freddi, circoscritti; ma sì i mille colori, le infinite armonie della natura, la divina luce della pupilla e il silenzio stesso.
Passeggiavano i due giovanetti, e la creazione parea rallegrarsi, vestirsi a festa nel vederli cosí leggiadri, cosí affettuosi, cosí confidenti; la giovinezza è veramente la regina dell’universo, e perfin gli esseri inanimati ne sentono anch’essi la benigna influenza. Ma l’ora cosí dolce della sera è pur quella delle esalazioni pestifere, l’ora in cui gli animali piú sozzi e malaugurati escono dai loro covili per menar festa nel regno delle tenebre. Mentre Edoardo ed Eloisa si abbandonavano a colloquii sospirati, un occhio sanguinoso, fulmineo ne espia i passi, ogni movimento, e vorrebbe indagarne perfin le parole.
— Eloisa, le dicea il giovane col sublime entusiasmo dell’età sua, oh come le bellezze della natura soprastanno a quelle dell’arte! Quale è la vôlta piú magnifica, piú risplendente di palazzo o teatro, che ritragga, anche in menoma parte, la luce eterna dei firmamenti!
— E quelle miriadi di stelle, rispondeva la Contessina guardando il cielo, ubbidiscono tutte ad una legge d’amore che le guida, armonizzando, per i regni dell’infinito! — Oh come, riprendea quindi con un mesto raccoglimento, i diletti piú ambiti, piú decantati della società, sono vile e meschina cosa a petto di quelli che prova l’anima… che il cuore esige!…
— Oh guardate queste rose che sbucciarono adesso adesso sotto la frescura della rugiada! non sono veramente belle e fragranti che sullo stelo; trasportate nelle sale dei potenti, avvizziscono in poco d’ora, perché prive dei loro zeffiri, del sereno del loro cielo.
— E que’ fiori cosí modesti, ripigliava la Contessina avvicinandosi ad un cespuglietto, que’ fiori che olezzano solamente nel silenzo della notte; quel fioretto malinconico è simbolo del pensiero — e spiccatolo dallo stelo, lo porgeva al giovanetto.
Uno sguardo formidabile, come abbiam detto, espiava ogni atto, ogni passo di Eloisa e di Edoardo; e un uomo nero, deforme, quasi fosse il genio della creazione, appiattato tra le boscaglie oltre la cinta del giardino, coll’unghie confitte nel terreno, colle labbra livide e sanguinose per eccesso di rabbia, facea strano contrasto con que’ due giovanetti che passeggiavano cosí dolcemente sui tappeti di verzura, tra il profumo delle aiuole, sotto un arco di cielo che sorrideva.
Quest’uomo formidabile era il Notaio.
Gli osserva. – Un ultimo raggio del tramonto brillò tra i capelli inanellati del giovinetto, e rifulse amorosamente nella sua pupilla, mentre Eloisa gli porgeva con tanta grazia il fioretto del pensiero. Il Notaio aizzato da invidia infernale guardò le bionde anella d’Edoardo, e sentì arricciarsi sopra la fronte gelida, innondata di sudore, i grigi suoi capelli, irti, maligni come serpenti. Un interno struggimento, una lava di fuoco gli divorava le viscere; l’avresti rassomigliato allo Spirito delle tenebre, riluttante sotto il piede dell’Arcangelo luminoso.
E tentava d’avvicinarsi, ora strisciando a guisa di rettile ed ora slanciandosi a modo di pantera; si appiattò nuovamente, aguzzò le ciglia rabbioso per le tenebre crescenti che gli facean velo; e il bianco de’ suoi occhi spalancati, fissi terribilmente, si macchiava di spruzzi sanguinosi, riflesso de’ suoi pensieri.
— Maledizione! le ha stretto la mano… parlano piú sommessi… si inoltrano in quel viale; scompaiono sotto l’ombra di quel corbezzolo. Oh rabbia! piú non li veggo!
Quell’anima scellerata dovea provare tutti gli spasimi della gelosia, dell’invidia. Un tremito convulsivo agitò le sue membra, contrasse i nervi di quelle mani che forse, se avesse potuto, si sarebbero stese a dilaniar la sua vittima; privo di forze, paralizzato dalla sua atroce disperazione, cadde a terra, dibattendosi con se medesimo e digrignando i denti.
— Sono soli! mormorava tra se stesso con una voce che nulla avea d’umano; sono soli! — E qui avrebbe voluto, nell’infernale suo delirio, che la creazione si sfasciasse per inghiottirli, per separare que’ due esseri che l’ardente sua fantasia gli dipingeva nei piú soavi atteggiamenti.
Dopo alcuni momenti di quest’agonia indescrivibile, il Notaio si riebbe, e vinta dalla gelosia l’usata sua prudenza, corse difilato sotto il corbezzolo, dove supponeva che Eloisa ed Edoardo si rattenessero tuttora nell’amoroso loro colloquio. La Contessa siedea sola, tutta assorta in una dolce meditazione, contemplando alcuni fiori che forse Edoardo le avea presentati, quando la fisonomia del Notaio, pallida, travolta, quasi mostruosa, le apparve innanzi improvvisamente.
— Cosí sola, amabile Contessina! le chiese quello sciagurato con un sogghigno di maniaco. — Cosí sola, cosí pensosa… a quest’ora!
Eloisa alzò gli occhi tranquillamente senza rispondergli.
— L’aere notturno, soggiungea quegli avvicinandosi, potrebbe avvizzire le rose del vostro volto. Eh via, non mi guardate cosí stizzosa; non siete sempre cosí severa… or fa pochi momenti, al braccio di Edoardo… eravate tutta gioia, tutta sorriso… in assenza di vostro marito. —
La Contessa, squadrandolo con disprezzo, non mosse parola, si levò da sedere, e fece un passo per discostarsi. Ma allora quel miserabile, rompendo ogni ritegno, l’afferrò per un braccio con impudente dimestichezza.
— Eh via, soggiungeva con uno sguardo di maligna intelligenza, ed avvampando dell’oscena sua passione al tocco di quelle membra; — è vero che questa mano non è quella del vostro drudo.
— Miserabile! proruppe allora Eloisa con tutta l’indegnazione dell’oltraggiato suo carattere, e superando se medesima con una forza sovrumana: — Fallito seduttore… non farti calunniatore della virtù che ti ha rigettato — e si svincolava dalla stretta del Notaio.
— Anche assassino, se volete, riprendea quegli rabbiosamente, ed afferrandola di bel nuovo con un fremito concentrato: — Anche assassino, mi intendete?… Trema per te e per il tuo drudo. —
E dileguava.
Eloisa, quasi percossa da fulmine, e prevedendo mille sciagure, si coprì gli occhi, e sentendosi fallir la lena, si abbandonò languidamente sopra il sedile.
V
Mentre al di fuori del castello succedea questa scena di violenza e di minaccia tra Eloisa ed il Notaio, Edoardo che se n’era casualmente allontanato, si trovò colto dal vecchio Conte che lo condusse in una gran sala a pian terreno; per iniziarlo alla storia de’ suoi antenati. In questa sala quadra, spaziosa si conservavano, da parecchie generazioni, i ritratti della famiglia, orgoglio di vecchie stirpi, argomento di virtù ai generosi, d’ignavia ai vili. Quelle tele, inquadrate in cornici enormi e dorate, coprivano, quasi da cima a fondo, le pareti della sala; marchesi, contesse e conti, stemmi d’ogni colore, d’ogni foggia, leoni, cavalli ed aquile, stelle e mezze lune, tutta la storia animalesca, tutta la scienza del blasone effigiata nei manti, negli scudi, nei tappeti di que’ nobili castellani e castellane che dormivano da gran tempo – chi sa come – nei loro sepolcri. Il Conte non facea grazia a nessuno di questa visita a’ suoi antenati; di buono o cattivo animo, bisognava sottomettersi; e tutte le ragioni della prudenza e della politica consigliavano il povero Edoardo a rassegnarsi all’influenza d’una mala stella, e far buon viso. Imaginatevi! Mancare ad un colloquio, sospirato forse da gran tempo, per ingoiarsi la storia di quei morti, narrata dal marito!
— Vedete, cominciò il Conte, afferrando il giovane per un braccio ed inforcando al naso due occhiali magistrali, quello è mio bisavolo.
E additava un gran parruccone incipriato, e sotto quel parruccone un muso asciutto di scimmia, con due occhietti grigi, vispi, occhi di gatto che tradivano un’anima bassa, astuta e cortigiana.
— Quegli, soggiungea il Conte gravemente, fu delegato ad incontrare Filippo II, glorioso re di Spagna, quando fece il solenne ingresso in F… Vedete; è vestito alla spagnuola. Oh il bel costume! peccato non vi siano piú gli Spagnuoli, vero tipo della galanteria!…
E qui il buon Conte piangea di cuore la ritirata di quei bravi Spagnuoli, vero tipo della galanteria, che lasciarono memorie cosí soavi a Milano e a Roma…
— E quell’altro? chiese il giovane, per trarsi presto d’impaccio; ed accennava una faccia tonda e rubiconda, sulla cui fronte campeggiava una beatissima ignoranza.
— Quello è un poeta; scrisse un sonetto molto lungo e celebratissimo sulla nascita del primogenito di Filippo II, ed un altro sul faustissimo avvenimento del duca d’Alba al governo della Fiandra.
— Nobilissimi argomenti e degni del cantore! disse tra sé Edoardo.
Mentre il Conte si avvicinava ad un altro ritratto e stava per incominciarne la storia, tutto caldo d’un’enfasi generosa, sopraggiunse Eloisa pallida e quasi contraffatta; e, cogliendo un momento favorevole, ebbe tempo di dire sommessamente ad Edoardo:
— Per carità, non uscite, se prima non vi parlo.
Immaginatevi la curiosità, l’impazienza del giovanetto, i suoi mille presentimenti a quelle brevi parole, e quello strano mutamento nelle sembianze della Contessa, mentre il marito di lei si inebriava tranquillamente nella gloria de’ suoi antenati.
— Questo è Biagio… proseguia il Conte, avvicinando ad un gran quadro la fiamma del candeliere.
— Biagio Assereto, l’interruppe il giovane per mascherare il proprio turbamento e veder modo che il Conte non si accorgesse del pallore della consorte; ma questa volta colpì in fallo.
— Che diavolo dite mai, Biagio Assereto? gridò il Conte incapponito; quel notaio che ebbe l’insolenza di menar prigioni due sovrani con tutta la loro corte di duca e principi? Sappiate per vostra norma, signor Edoardo, che i miei padri non si avvilirono mai a servire una repubblica di mercadanti, come è quella della vostra Genova, una repubblica che crea suo doge anche un uomo della plebaglia.
Qui v’era di che ridere e di che fremere; ma la mortale pallidezza di Eloisa occupava di troppo le facoltà tutte di Edoardo, perché egli potesse attendere alle tristi buffonerie del marito.
— E quella donna così giovane, cosí pallida! domandò Edoardo per divagare la generosa bile del Conte, e colpito, anche veramente, dall’aria angelica che traspirava da quel volto. — Oh come è bella! — proseguiva la Contessina, tratta anch’essa da una secreta simpatia verso il ritratto d’una donna piena di maestà e di grazia, temperata da una dolcezza melanconica. — Diresti che i suoi occhi cosí soavi, sono pregni di lacrime; eppure sorride, e il sorriso di quel labbro armonizza cosí dolcemente colla pupilla che, contemplandola, ti intenerisce!
Lettore, getta lo sguardo, se ne hai coraggio, negli arcani del cuore umano, e rendi conto, se ti è possibile, de’ suoi intimi movimenti e delle sue ispirazioni. Ma proseguiamo.
— Quella, rispose il Conte crollando il capo sdegnosamente, fu una cognata di mio padre, morta giovane in questo castello. Buon cuore, ma testa romantica e troppo facile a prendere domestichezza con ogni qualità di gente. Imaginatevi! portava ella stessa, e talvolta di furto, gli alimenti ad una vecchia inferma in una capannuccia cosí miserabile, cosí affumicata, che movea schifo a solo vederla. Mio padre solea dirle: — Non sai apprezzare ciò che importi esser moglie d’un gentiluomo del re di Spagna!
Il cuore di Eloisa e di Edoardo sanguinarono a questa subita rivelazione d’una vita di dolori e di sacrifizi, che quell’anima affettuosa e pia avrà consumata tacitamente tra i buffoni e i bricconi ingallonati che la circondavano. Oh quanto avrà sofferto tra queste mura prima di spegnersi!
— E morta giovane! — ripetè Eloisa fra se stessa non senza un triste presentimento, rimirando il volto di quella donna coll’affetto di un’amica, di una sorella. Edoardo osservò gli occhi della Contessina, discese nei secreti di quell’anima, ma quindi per vincere la commozione sua propria:
— E quel fanciullo che le sta accanto, ripigliava il giovanetto, quel fanciullo con fronte cosí serena, con uno sguardo cosí espressivo, cosí sorridente?
— Fu l’unico figliuolo, rispose il Conte, di quella che or ora abbiam veduto; ben presto rimase orfano della madre.
— Come fu? è dunque morto? — ripigliò vivamente Edoardo, già prevedendo nuove sciagure sul capo innocente di quell’angioletto.
— Sí, rispose il Conte con fredda indifferenza. Somigliava in tutto a sua madre: buon cuore, ma testa romantica. Partì solo per l’America quando gli Stati Uniti ruppero guerra all’Inghilterra; potea vivere tranquillamente a casa sua, e andò a morire su quelle spiagge in difesa di barbari, di ribelli.
Edoardo contemplò a lungo le sembianze di quel fanciullo che, fatto adulto e rimasto orfano, abbandonò gli agi del suo castello, sdegnoso al certo di quella vita e di quelle memorie; e volgendosi quindi ad Eloisa, cogli occhi innondati di lacrime, le diceva sommessamente:
— Ha fatto bene a morire!
— Iddio ebbe pietà di lui, rispose la Contessa, e abbassò il capo.
Per buona sorte sopraggiunse in tutta fretta un domestico ad annunziare al signor Conte che era aspettato; questi, indispettito di dover interrompere la storia della sua genealogia, chiese permesso di allontanarsi, e i due giovani respirarono.
VI
Appena Eloisa rimase sola con Edoardo, si abbandonò sopra un antico seggiolone, e nascondendo la faccia tra le mani, proruppe singhiozzando:
— Che misteri di iniquità, Edoardo!
— Ma che avvenne? rispose il giovane; toglietemi presto da questa orribile sospensione.
— Bisogna separarci, Edoardo!
— Che dite mai?… donde questo subito cambiamento?… forse vostro marito…
— Mio marito è un uomo onesto, ma debole, credulo, aggirato da un infame… dal Notaio…
Il giovane tremò a quelle parole, e come uomo che vede pur troppo avverati i suoi pronostici:
— Il cuore me ne avvisò sempre! quell’uomo ha lo sguardo di Caino.
— Nell’uscire da questa casa, soggiungeva la Contessa, stringendo le mani al petto nell’atteggiamento della preghiera, e con un’enfasi che tradiva il secreto dell’amor suo:
— Guardatevi da lui!…
— Ma io non l’offesi… nol vidi che poche volte…
— È vero, non l’offendeste… voi; ripigliava tristamente la giovinetta; ma io gli ho rinfacciata la sua infame ipocrisia, io… ho disdegnato l’amor suo!
E vergognando che quell’uomo miserabile avesse potuto far disegno sopra di lei, nascose nuovamente il volto tra le mani, né potè vincere un affannoso singhiozzo che le eruppe con violenza dal petto. Eloisa, senza avvedersene, avea a poco a poco concepito un amore profondo e per sempre deplorabile, che ella avea fermo di combattere, di nobilitare con sublime sacrifizio, di nascondere dentro un sepolcro; ma se finanche la speranza diventava un delitto per lei, oh almeno, compenso tacito e pur soavissimo, la stima e l’amicizia di Edoardo! Costretta invece a rivelargli le oscene trame del Notaio, se ne sentiva quasi umiliata, quasi colpevole di aver acceso innocentemente nel vile animo di quell’uomo un affetto che avrebbe formata la beatitudine della sua vita. E il giovane Edoardo, quell’animo illibato che non avrebbe contaminata nemmen d’un pensiero la casta imagine di Eloisa; che l’avea vagheggiata, nel secreto del cuore, con tutte le piú splendide illusioni della sua giovinezza, vederla ora insidiata, minacciata da quell’uomo, da quel mostro!
— Ora, riprese la Contessina, fatta animosa dalla gravezza stessa del pericolo, quell’iniquo si crede vostro rivale; non cesserà di attorniare mio marito, studiar modi di accalappiarlo co’ suoi tradimenti; chi sa anche!… gli è sfuggita la parola assassinio! ho veduto che le sue mani, contratte violentemente, tremavano per eccesso di rabbia, le sue narici si dilatavano… Oh! guardatevi da lui e da quell’uomo che lo serve; ha faccia di sicario. Poc’anzi, da una finestruola del castello, li ho intravveduti nella foresta dei pini, con apparenza di concentrarsi… e perciò corsi ad avvisarvene.
Il giovane, incapace di temer per se stesso, piú non udiva le parole supplichevoli della Contessa; ma percorrea colla mente le sorti avvenire di Eloisa, sola in quel castello, nelle mani di un vecchio debole, geloso, signoreggiato da un iniquo; e i deboli sono crudeli, inesorabili!
— Posso lusingarmi dell’amicizia vostra, Edoardo — ripigliava la Contessina dopo alcuni momenti di riflessione, e dolcemente rasserenata — posso promettermi un sacrifizio che voi farete all’onor mio, alla mia pace, a quella di mio marito, sacrifizio ben leggiero per voi, ma utilissimo per questa infelice, e voluto dalle circostanze. Non solo ho fermo in animo profondamente di rispettare ogni mio dovere, ma ben anche di veder modo che il piú maligno calunniatore non riesca a sparger mai d’alcun dubbio l’onore del nome mio. Preveniamo amendue, Edoardo, i sospetti indegni, oltraggiosi che presto o tardi si getterebbero, per mai piú sdradicarsi, nel cuore di un vecchio. – È vero, egli ha spezzata la mia giovinezza… ma io non debbo amareggiare la sua canizie; mi fu apprestato un orrendo calice, mentre ancora nol conosceva… fui tradita… ma debbo vuotarlo tutto senza lagnarmi della mia sorte, senza maledire l’altrui perfidia, senza che egli sospetti mai ciò che io soffro! – Voi siete degno della mia confidenza, Edoardo; apprezzerete al vero e in silenzio le mie parole, e mi serberete, benché lontano, la vostra stima. Non è vero, la vostra stima! Altro non chieggo, né sperar debbo; ma a questa, io vi ho diritto, diritto che saprete onorevolmente interpretare nella rettitudine del cuor vostro. Allontanatevi… almeno per qualche tempo; questi luoghi potrebbero riuscir funesti ad ambidue. Ve ne sarò grata, Edoardo; non debbo nutrir per voi che stima e riconoscenza; ma questi affetti, tuttoché non possano giovarvi mai, sono però tali, che un’anima come la vostra non potrà disprezzarli.
La Contessina pronunziava questo discorso con una voce cosí commovente, con un misto di tanta dignità e tenerezza, che Edoardo, rapito ed affascinato, non seppe risponderle se non poche e confuse parole:
— Eloisa, m’è cosí sacro il voler vostro, che io abbraccio volontieri qualunque sia, anche amarissima, l’occasione di attestarvi coll’ubbidienza i miei sentimenti.
— Anche da lontano m’avrete per amica, non è vero, Edoardo? soggiunse la giovanetta con uno sguardo accorato ed ingenuo, e nella coscienza della sua virtù; e in quella gli porgea la destra coll’affetto di una sorella.
— Sí, Eloisa, partirò da questo paese, soggiunse il giovane, partirò subito; ma porterò meco indivisibile la memoria della virtù vostra, e la vostra imagine. No, non avrò piú la dolcezza di incontrarvi almeno per via, passarvi accanto, respirar l’aria che respirate. Pur troppo, qui sentiva in ogni parte, in ogni cosa la presenza vostra; ed ora, addio, Eloisa! un lungo, eterno addio!
— Consumiamo amendue in silenzio il sacrifizio della nostra vita; addio, Edoardo!
Si slanciarono ancora uno sguardo piú efficace d’ogni parola, e si strinsero dolorosamente la mano, come due amici che non debbono mai piú rivedersi.
VII
La scienza tanto decantata del Machiavelli, e ridotta ai principii dai frenologi, nel penetrare i laberinti del cuore umano, nel conoscere le tendenze d’un individuo, è scienza da fanciulli, ove la si voglia paragonare a quella intuitiva ed ingenita, di cui sono dotati certi esseri maligni, eccezionali nella società. Questa scienza, per esseri di cotal fatta, è, direi quasi, un sesto senso: è una facoltà terribile di fiutar l’anime putrefatte del delitto in corpi ancora viventi, simile all’odorato de’ cadaveri, che è proprio della iena. Non v’ha filosofo, non v’ha politico, come poc’anzi accennai, che abbia lo sguardo indagatore d’un forzato; che meglio di questi riesca a subodorare i disegni, i pensamenti piú occulti d’un camerata, e sappia scegliere il compagno piú conveniente alle nuove fellonie che medita. Cosa spaventevole! I tristi si conoscono fra di loro molto piú dei buoni; e regna pure, tra quella rea gente, una specie di amicizia, o, per meglio dire, di lega, di congiura, come Salustio la determina, una congiura che forma d’essi una società a parte. La comunanza del delitto è il secreto della loro unione; e quando uomini di questa tempra si stringono la mano, la gente onesta ha sempre di che tremare.
Il domestico del Notaio che Eloisa avea indicato ad Edoardo come uomo di mal affare, e dalle cui mani dovea guardarsi, nella sua prima giovinezza avea servito nella milizia, e, perché disertore in tempo di guerra, avea subita la pena di alcuni anni in galera. Non fa meraviglia che un uomo codardo e fuggitivo dinanzi al nemico della sua patria, abbia quindi il coraggio dell’assassino, e sia pronto sempre a far traffico della coscienza propria e di una pugnalata fra le tenebre. Il Notaio e Cencio, che tale era il nome di quello sciagurato, si squadrarono e conobbero a primo sguardo
La somigliante orribile natura.
Di qui una lega, cementata da segrete scelleratezze, cui l’astuzia loro e la debolezza del governo assicurarono l’impunità. Né la trama dei loro delitti era compiuta; lo sguardo d’Eloisa, lo sguardo d’un amante avea pur troppo indovinato.
Il Notaio siedea solo nella sua camera al chiarore di un lumicino che rendea piú taglienti, piú sinistri i duri contorni della sua faccia, e piú trista l’apparenza di quella stanza.
Vedevasi tutt’all’intorno delle pareti, tra colonne di vecchi scaffali, una serie di filse, di pergamene, digesti, codici, ecc., e nel mezzo un crocifisso nero e quasi gigantesco, il quale, dacché Giuda l’ha venduto, non vide mai un ceffo piú ipocrita, piú traditore di quello del Notaio; e si giurava e stipulavansi atti in nome di lui, e falsi testamenti che avrebbero dovuto destare i morti nel loro sepolcro. Una gran tavola, ingombra anch’essa di pergamene e di libri, nel mezzo della camera; un armadio, un vecchio e polveroso inginocchiatoio accanto al letto, alcuni seggioloni rabescati ne compievano il mobiliare. L’atmosfera, racchiusa in quelle quattro pareti – poiché il Notaio apria di rado le finestre, quasi temesse che la luce aperta del sole balenasse sulle sue carte – avea qualche cosa di tetro, di contristato che ti pesava sul cuore; avresti detto che l’alito di quell’uomo, l’influenza di quell’anima inputridita, mortalmente la corrompesse.
Il Notaio si levò piú volte da sedere con atto di impazienza, e stette in orecchio all’uscio semichiuso della camera. Deluso nella sua aspettazione, ora passeggiava a passi concitati, ed ora improvvisamente soffermavasi, puntando il pugno sulle labbra, torvo, concentrato ne’ suoi pensieri. L’impeto della bufera scuoteva ad ora ad ora le imposte delle finestre e la porta della camera; ed il Notaio, credendo distinguere, tra il mugulare del vento, il calpestio d’un uomo, tornava ad oregliare, ma sempre invano. Finalmente nascose il lume, aprì le finestre, e fece capolino. – La notte si facea cupa e minaccevole; non si udiva né voce umana, né ululato di cani pei casolari e per le ville circonvicine; tutto, ad accezione della bufera, era silenzio e solitudine. Il Notaio guardò il cielo, e cercò i pronostici di quella notte. – Oh, come mai l’uomo che medita un misfatto enorme, ha coraggio di alzar la fronte, fissar lo sguardo nel puro lume dei firmamenti! Come all’idea dell’avvenire, all’imagine del Creatore che si riflette in que’ templi di eterna luce, non depone le passioni scellerate che tengono al fango di questa terra! Come mai, a quella vista, non cade il ferro dalla mano dell’assassino!
Finalmente entrò Cencio.
La statura di quest’uomo men che mezzana, le spalle tarchiate, le mani corte e callose, il collo toroso, annunziavano una forza fisica piú che ordinaria; le ciglia rossiccie, rade ed ispide, l’occhio bigio, irrequieto, il naso largo e piatto, i denti piccoli e stretti, i capelli rossicci anch’essi e maligni, ritraevano, quale era veramente, un’indole brutale e bassamente astuta. Cencio, senza guardare in faccia il Notaio, senza torsi di capo un sozzo berretto che portava, con quella oscena dimestichezza che la comunanza del delitto stabilisce ben presto tra persone di grado differente, si abbandonò su d’un vecchio seggiolone.
— Per questa sera non si farà niente.
— E perché? domandò il Notaio che, ritto in mezzo alla camera, l’avea squadrato a prima giunta, impaziente di interrogarlo.
— Perché ho veduto alcuni gruppi di contadini, e specialmente un domestico della Contessa, che parea stesse in agguato. D’altronde il nostro giovane si è già ritirato.
— Uscirà di nuovo, ne son certo, ad ora piú tarda, quando tutto riposi dentro il castello; ad ogni modo sarà per domani.
— Domani! e non sapete che l’è il giorno dei morti?
— Meglio per lui! troverà aperto il paradiso; poiché si vuole che le anime di coloro i quali muoiono in cotal giorno, vadano dritte diritte in paradiso, e senza pagar lo scatto al guardiano. — Ed uno scroscio di risa infernali scoppiò dalle labbra di quel maledetto.
— Per coloro che muoiono in istato di salvamento, rispose Cencio gravemente; ma non per gli uccisi, privi dei sacramenti.
— Gli daremo l’assoluzione in articulo mortis — proseguì il Notaio gesticolando e scimiottando quell’atto augusto e terribile. – Parrà strano che un uomo di cotal tempra, in procinto di commettere un assassinio, si abbandonasse a queste scene burlevoli; ma il Notaio sapeva a meraviglia simulare e dissimulare; avea penetrato nel cuor di Cencio i primi germi d’un pentimento; gli era d’uopo cancellar quanto prima ogni buona idea che potesse rampollare in quel cervello; e a questo effetto tornava meglio il ridicolo che la ragione.
Cencio, senza rispondere, lo contemplava con un ribrezzo non mai conosciuto per lo innanzi. Il mal costume, la vita scioperata non aveano spento nel cuore di quest’uomo quell’intimo sentimento dell’onesto che ci distingue dagli animali, e certi principii religiosi che sua madre gli avea ispirati. L’anima di costui non era putrida come quella del Notaio, vero tizzo d’inferno; l’ozio, l’ignoranza l’avea imbestialita, colpa piú d’altri che di lui, ma non era pervertita dall’ateismo e dallo stolto proponimento di rinnegare Dio e se stesso, per vincere ogni ripugnanza al delitto, per fiaccare le teste dei serpenti che il rimorso genera dentro il cuore.
— Per Dio! cominciò Cencio con un tono di solennità che avrebbe mosse le risa, se la fisonomia di quell’uomo, quelli mani e le parole che stava per pronunciare non gli avessero impresso un non so che di terribile e di commovente. — Fui soldato, contrabbandiere, e sentia messa… sono stato in galera… e sentia messa. Bisognava che venissi in casa tua, fra tanti santi e tante imagini, per aver paura di avvicinarmi alla porta di una chiesa… per dimenticare persin mia madre… quella buona donna che, nel morire, mi diede questo scapolare, e mi disse agonizzando: — Cencio, non dimenticare tua madre! — Ed ora, lo crederesti, non ardisco gettar lo sguardo su questo ricordo… non ardisco pregare nemmen per lei!…
E lo sguardo di Cencio infuocato da una specie di vendetta contro il Notaio che lo avesse ridotto a tale, si annuvolò di lacrime nel pronunciare queste parole.
Il Notaio, sempre ritto in mezzo alla camera, lo guardava senza far motto; taceva e illividiva. Cencio, riscuotendosi dopo alcuni momenti da quella strana commozione, ed asciugandosi col rovescio della mano una grossa lacrima, ripigliava cogli occhi bassi e con animo determinato:
— Domani è giorno dei morti; tutti pregano per i loro defunti… Oh voglio pregare anch’io per mia madre… non voglio bagnar le mani in altro sangue; sai tu indicarmi un’acqua dove possa finalmente lavarmele?…
E sorse in piedi, e cacciò in volto al Notaio uno sguardo di basilisco.
Ma quegli non si scompose, benché sentisse internamente l’importanza di quel momento e la convenienza di mutarne il carattere.
— Eh, Cencio mio, rispondeva con un sogghigno, saresti quasi per dire che in questa casa hai perduta la stola dell’innocenza… quella che hai riportata dal bagno!…
— Taci! non rinfacciarmi la mia catena di schiavo!… Lá, in quel bagno… conobbi uomini che infingevano allegrezza… che ridevano… che burlavano i compagni pensierosi… e poi li udia piangere nella notte; ma la tua faccia è sempre livida, sempre impassibile. Quando ti veggo in chiesa con quell’aria di santone, parmi che la vôlta dell’edifizio dovrebbe sprofondarsi.
— Per un tuo pari, Cencio mio, questo sermone non ci è male. — Quindi, ponendosi la destra al cuore come uomo che meglio si riconsiglia, dopo alcuni momenti soggiungea sospirando:
— Pur troppo dici il vero! E che piú giova dissimularlo? un interno rimordimento, una voce che è forza udire, mi comanda di confidarmi alla pietà di Dio!
A quest’atto drammatico di subito pentimento, Cencio benissimo argomentando che il Notaio tentava di addormentarlo sull’iniquo suo disegno, si fece un passo innanzi, e squadrandolo in faccia con occhio di meraviglia:
— Davvero! quando parlate da galantuomo, mi fate paura! Ci conosciamo, amico mio: buona sera. — E volte le spalle, si ritirava. Quando Cencio si fu chiuso nella sua cameretta, il Notaio, attonito, umiliato, ma terribile piú che mai nella sua umiliazione, nel sospetto che un suo complice potesse farsi accusatore, o lo inceppasse ne’ proprii disegni, lo accompagnò con uno sguardo d’odio e di disprezzo.
— Penseremo anche a te, imbecille — mormorò sommessamente fra i denti, rimanendo sempre ritto in mezzo alla camera. — Coll’aiuto di Dio e delle mie mani saprò antivenirti. —
VIII
Quella notte, come poc’anzi accennammo, fu piena di terrori; avresti detto che il genio del male sconvolgesse gli elementi, che la natura inorridisse e si rabbuiasse per qualche atroce misfatto; che mille strane voci tra il sibilio dei venti e il mugghiar rotto dei flutti, vaticinassero sventure. E chi sa che la natura non senta orrore delle opere nostre, o non ci avverta d’un pericolo che si avvicina? Il giudizio degli uomini sta sospeso sugli eventi di quella notte; ma certo, una voce di moribondo, simile al gemito d’Abele sacrificato, salì alle stelle, e l’angiolo della giustizia calò sul capo dell’omicida; lo seguì tacitamente, continuamente nelle buie sue vie, finché, giunta l’ora decretata, caduto dall’oriuolo del tempo il granello di sabbia che la indicava, il terribile angiolo percosse la sua vittima.
Edoardo, impaziente di vedere ancora una volta, prima di partire, l’abitazione d’Eloisa, o per qualche altro suo disegno che non ci è dato di conoscere, uscì di casa, e, malgrado l’oscurità e la tempesta, prese la via del castello; un’ombra nera, inosservata, simile alla Parca degli antichi, lo seguitava. — Giovane malaugurato! non vedi come la notte si rabbuia, non senti alle tue spalle l’anelito divorante della morte! Ella stende la sua falce sopra il tuo capo, e nessuno può salvarti; allontaniamoci da questa scena.
La Contessina si chiuse nelle sue camere, piena di una trepidanza, di un’ansietà indefinita che non tardò a popolarle di fantasmi spaventevoli il sonno breve e interrotto. – Le pareva di seder sola, pensierosa nella sala dei ritratti, e fissar gli occhi pietosamente sull’imagine di quella donna che la sera innanzi, in compagnia di Edoardo, tanto l’avea commossa. Un raggio fioco ed amoroso, come d’un sole che tramonta, accarezzava la fronte di quella donna, e accrescea vaghezza e malinconia alle sue forme cosí soavi, cosí gentili. Oh meraviglia! il baleno della vita ha penetrato quelle pupille; quel labbro si è commosso, atteggiandosi ad un sorriso; quel petto ha palpitato!… l’imagine tutta quanta si spicca dalla parete e sta dinanzi ad Eloisa, persona viva e parlante.
— Oh Eloisa, parea dirle quell’estinta, affissandola colla affettuosa confidenza di due amiche del pari sventurate; quale nefando caso ti condusse a consumare la tua giovinezza in queste luttuose sale! Un altro piede, prima del tuo, ha logorato, strascinandosi lentamente per agonia, il pavimento che tu premi, e votò il calice, infelicissima, che ti è riservato!
— O donna, rispondeva Eloisa piena d’amore, di meraviglia e di riverenza, sei tu veramente cosa viva? Vieni tu a riabitare questi luoghi per consigliarmi e consolarmi nella mia solitudine? Non sono passata mai dinanzi al tuo ritratto senza scambiarti quello sguardo cosí mesto, cosí amorevole che a te mi lega con una intima simpatia, che io stessa non so intendere!
Parea che l’ombra sospirasse pietosamente a quelle parole, e dicesse, crollando il capo:
— Pur troppo! i fati stessi ci signoreggiano!
E l’ombra si avvicinava, e stendendo la sua destra, fredda e candida come neve, alla destra di Eloisa, con sembiante ed atto di chi vuole prepararti all’annunzio d’una sventura:
— Gli uomini sono crudeli! le soggiungeva; un genio iniquo si è cacciato in questa casa; io, tuttoché spirito, ne sento ancora nell’acre le maligne influenze. Oh Eloisa! fuggi, fuggi da queste sale abbominevoli; mentre qui ti ragiono, un’opera di sangue sta consumandosi… i miei occhi, sgombri dal mortal velo che aggrava i tuoi, veggono una lotta orrenda, una scena che strappa ancora una lacrima alle morte mie pupille. Questo è il supremo momento d’un sacrifizio… un momento gravido di peccato e di dolore… l’ombre della notte, unici testimoni, inorridiscono. Cacciamone i maligni influssi colla preghiera!
E il volto del fantasma divenia pallido ben altrimenti che nella morte; abbassò gli occhi, compose le mani nell’atteggiamento di chi prega, e stette immobile, taciturno. In quel mentre un nerissimo nugolare attraversava i raggi del sole; l’aere si facea buio, pesante; e fra le tenebre dell’ecclisse pioveano carboni ardenti; passò un momento, simile a quello in cui il condannato ascende la scala del patibolo, un momento di lutto per la natura. Era quell’ombre, fra quel silenzio sorge una voce lamentevole, una voce di moribondo. Dio eterno! è la voce di Edoardo! Eloisa, pallida, esterefatta balzò dal letto; grosse stille di un sudor freddo le bagnarono capelli e fronte; aprì le imposte, tese l’orecchio, cacciò lo sguardo per la campagna. Le parve d’udire un tonfo nelle acque del lago, e travide un’ombra che dileguava.
Al domani, il cadavere di un annegato venia tratto dal lago del giardino, e quel cadavere era il giovane Edoardo. Facea un sole magnifico, un azzurro di cielo incantevole.
IX
Come poc’anzi abbiamo accennato nel discorso tra il Notaio e Cencio, correa appunto il giorno dei morti; e questo giorno suolsi celebrare nei villaggi ben altrimenti che nelle città, dove anche le memorie piú solenni dei trapassati sono convertite a sollazzo, a passatempo dei vivi. Que’ buoni terrazzani sentirono pietà profonda, non scevra di maraviglia alla morte dell’infelice; e, raccolti nella chiesa parocchiale, non dimenticarono di pregare anche per lui. Il Notaio non mancò anch’egli di recarsi a udir la messa per l’anima del buon medico, come diceva, e porsi in luogo tale che tutti ne lo vedessero.
I politici sconvolgimenti di Francia che incominciavano a imperversare, a trarsi tutta l’attenzione della repubblica ligure, dopo il fatto della corvetta francese, catturata dagli Inglesi, nel porto stesso di Genova, e la debole vigilanza del governo, fecero sí che poco si badasse alla morte di un individuo. Il povero Edoardo, compianto per un giorno, fu sepolto e dimenticato; un palmo di terra separa tante cose, nasconde tanti delitti!
Ma non tutti si acquetarono cosí facilmente alla tragica fine del giovanetto. Cencio, udito il caso, non dubitò nemmeno un momento che l’assassinio di Edoardo non fosse opera del Notaio. Ma temendo che quell’uomo formidabile avesse in animo altro misfatto, fermò seco stesso di attraversarglielo, di espiarne ogni andamento, e perciò d’infingersi. E Cencio purtroppo non si ingannava. Nacque allora tra il Notaio e il suo domestico una mortale diffidenza, tanto piú profonda, quanto piú cercavano di mascherarla; l’uno era divenuto tremendo all’altro, e stavano pur sempre uniti espiandosi, dissimulando, come duellanti col ferro incrocicchiato, che si guardano l’un l’altro e meditano un colpo decisivo. L’animo non ci consente di addentrarci nella vita domestica di que’ due scellerati, e preferiamo di trattenerci coll’infortunio.
Eloisa, in quel giorno funesto, non uscì dal castello. Seduta nella cappella interna su d’un antico seggiolone, tiene fra le mani un grosso libro, forse quello stesso cui già accennammo in principio del racconto, e legge tacitamente le preghiere per i morti. Una luce scarsa che giù discende dalle gotiche finestruole dell’edifizio, accresce il mistero di quel recesso, la mestizia di quel giorno. Ad ora ad ora il vento della sera trasporta all’orecchio della giovinetta il suono lugubre delle campane; ed ella, tremandone improvvisamente ed agghiacciandone per tutta la persona, abbassa il volto e lo nasconde sopra il libro. Una lenta e grossa lacrima è caduta da’ suoi occhi, le scorre lentamente per le guance, ed ella non se ne accorge; si credea sola, ma il vecchio Conte le stava a tergo, muto ed aggrottato.
— La memoria degli estinti deve essere ben soave e ben pungente, cominciò il Conte con tono ironico, per istrapparvi, Contessina, di queste lacrime.
— Il dolore è pur sempre rispettabile, né credo sia delitto piangere almeno secretamente, rispose Eloisa senza commuoversi.
— Rispettabile! riprese il Conte sorridendo malignamente; ma bisogna che rispettabile ne sia la cagione. Queste belle lacrime il marito non può asciugarle, non è vero? — proseguiva con una rabbia concentrata e col sogghigno sulle labbra.
— V’hanno lacrime che nessuno può asciugare, e sono quelle che si versano sopra i morti, quando i vivi non sanno intenderle.
— Il marito è sempre un essere volgare, antipatico che non sa intendere le belle lacrime della moglie; ma ben conosco una mano delicatissima che avrebbe potuto tergerle…
— Non vi comprendo, signor Conte; ma i vostri scherzi sono molto inopportuni, per non dire crudeli.
— Ben mi intendo io, rispose il vecchio; e voi pure mi intendereste — proseguiva, traendosi un passo innanzi e spalancando gli occhi in fronte alla Contessina, — se l’animo vi reggesse a gettar lo sguardo nella coscienza vostra.
— Sí, rispose Eloisa con nobile indegnazione, e levandosi da sedere — posso gettar lo sguardo nella mia coscienza, e levarlo quindi serenamente in fronte di mio marito, in faccia al mondo intero.
— Sciagurata! tuonò il Conte, scoppiando in collera; la tua impudenza eguaglia solo la tua scelleraggine!
Eloisa non si mosse, non fe’ motto; ma dopo la prima maraviglia a quell’insulto inaspettato, e raccogliendo tutte le sue forze alla risposta:
— Siete un vile! signor Conte. — Non vi credeva che un uomo debole, ma onesto; veggo adesso che siete un miserabile!
E pronunciate lentamente queste parole, spiccando bene ogni sillaba, Eloisa, priva di forze, si abbandonò sopra la seggiola.
— Moglie adultera! gridò il Conte, serrando il pugno in atto di minacciarla; il vile tuo complice è già sotterra, e tu stessa l’uccidesti.
— Egli sta dinanzi a Dio!… non mio complice, ma forse tua vittima!! — rispose Eloisa solennemente, e sorse in piedi fissando gli occhi in quelli del marito, con uno sguardo vitreo, sguardo di fantasma, e scuotendo in alto la mano irrigidita:
— Quel sangue ricader possa come fuoco inestinguibile sul capo dell’omicida! Gli fiammeggi dinanzi agli occhi nel momento dell’agonia! — Tacete, Conte; preseguia quindi con voce soffocata e sempre con quello sguardo formidabile; tacete! tremate d’alzare il velo ad un mistero di inferno!… Il medico è morto… colà in quel lago… ma quel cadavere alzerà il capo in un giudizio piú che umano… Oh! se mio marito fosse intinto in un omicidio… vorrei ardere sopra l’altare questa mano che in un giorno tremendo e santo io gli porgeva!
La sua voce, le sue mani, tutta la sua persona tremavano; ed il Conte, benché innocente di quella morte, sentì scorrersi un brivido fin nei capelli. L’aspetto della donna, cosí soave, cosí angelico per natura, assume talvolta una maestà solenne e quasi terribile che la eleva sopra se stessa. Eloisa, estenuata dalla lotta interna cogli affetti proprii che tacitamente avea sostenuta all’annunzio del fero caso, e quindi da scena cosí violenta col marito, ricadde sopra la seggiola e riprese l’indole sua affettuosa e malinconica.
— Quell’infelice, soggiunse allora con un profondo abbattimento — è già comparso innanzi a Dio che sarà giudice di noi tutti. — Voi, Conte, avete provata, stancata la pazienza della vostra vittima… di questa donna che, inesperta, non consultata, vi gettarono tra le braccia … che non vi fece mai rimprovero delle sue lacrime, finché un oltraggio insopportabile venne a scuoterla dalla sua muta rassegnazione, finché la dignità propria, ferita dalla calunnia, le impose d’alzar lo sguardo, d’interrogarvi quale sia il vostro diritto sull’onor suo!
E quella donna, poc’anzi cosí altera, si sciolse in lacrime.
Il Conte parve commosso da quell’aspetto e da quelle parole; il veleno che lo avea mosso sulle prime, non era suo; l’anima infernale del Notaio glielo aveva destramente ispirato la sera innanzi, mentre Eloisa ed Edoardo si trattenevano ancora nella sala dei ritratti. Infingendo amicizia e zelo, avea sedotto, travolto il giudizio del Conte, uomo debole ed orgoglioso, e coll’apparenza di addurre scuse ai pretesi falli della consorte, ne supponea certo il delitto, se ne facea atrocissimo calunniatore. Il Conte, dopo il colloquio avuto con quel tristo, si era ritirato a casa e racchiuso nelle sue camere per non imbattersi in Eloisa; il resto è noto.
— Ma voi, rispondea il Conte, tentennando nella domanda, e già pauroso di un nuovo rabbuffo — voi… non amavate… il medico?
— A quest’ora, rispose Eloisa, non esistono piú motivi per occultare il mio secreto, secreto che dovea chiudersi nella mia sepoltura. – Io… l’amo! – ma questa parola non mi uscì mai dalle labbra; né deve uscirne se non col sangue del mio cuore!
Sorse in piedi, e sputò sangue. Un’orribile convulsione interna avea prodotto questo fenomeno. Ella, sorridendo colle labbra scolorate, colle tempie illividite – contrasto spaventevole! – accennò a quel sangue, come un aspetto liberatore, e quindi elevando il dito, soggiungeva, cogli occhi immobili come di spettro, e fissi in quelli del marito:
— L’amai sempre… tacitamente, senza speranza! ed ora che sta sotterra… ah l’amo piú che mai… immensamente l’amo!…
Suonarono queste parole, strappate dal cuore, con accento cosí straziante; con tale disperato sguardo si travolsero le sue pupille, cercando un essere che piú non era sopra la terra; con tale un atto d’orrendo spasimo la destra dell’infelice si strinse al cuore, che il Conte stesso ne fu commosso. Eloisa cadde fredda sul pavimento.
X
Ti ricorda, lettor mio, di quell’amabile giovanetta cosí blandita, cosí festeggiata nel giorno che andava sposa al signore di questo castello? Tu sai bene che il regno della donna felice e onesta è riposto nel santuario delle pareti domestiche; quindi per apprezzare al vero, quale sia la sua sorte, non devi ricercarla nei crocchi di società, nella cattiva tragicommedia che di continuo si rappresenta, ma sí bene nei penetrali di sua casa.
Entra or meco, con piè leggiero, in questa camera. Vedi che stupende tappezzerie alle pareti, che superbo padiglione sopra quel letto! ma le cortine sono abbassate; il lume del candeliere è velato e fievole; t’accosta, ritira il lembo di quelle cortine. Conosci tu Eloisa? sai tu dirmi se quegli occhi invetrati e immobili veglino o dormano? quel capo, che si abbandona cosí gravemente sopra il guanciale, ti par quel desso che ghirlande nuziali, avvinte con tanta grazia tra le bionde trecce dei suoi capelli, già coronavano? Le due persone immobili, taciturne, sedute l’una in faccia all’altra accanto al letto, sono il Notaio e la sorella primogenita di Eloisa; si aspetta il momento che l’inferma rinsensi per indurla garbatamente a far testamento. Ma sinora non dié segno di conoscenza; ha gli occhi aperti, eppur sogna. – Oh è pur terribile sognare ad occhi aperti, senza che la visione delle cose che la circondano, agisca punto sulle pupille! Vivere, immemore di se stessa, in un mondo popolato di fantasmi! La mente ha perduto il suo giudizio, ma il cuore non perde mai il sentimento dei propri mali; la mente impazza, il cuore sanguina.
È notte e silenzio profondissimo. Non s’ode nella gran sala che il moto regolare, monotono del pendulo dell’oriuolo; è il passo del Tempo che, indifferente alle gioie e ai dolori umani, né si allenta né si affretta nel suo cammino all’eternità, all’infinito. Per Eloisa piú non esiste vicenda alterna di luce e di tenebre; ogni misura di luoghi e tempo si è smarrita in un immenso e buio precipizio; ma tu, Notaio iniquissimo, fissa gli occhi in quell’orologio: vedi qual ora formidabile sta sul capo della tua vittima!… un’altra se ne matura per te medesimo, e piú tremenda. — E tu, primogenita, che hai procurato il bel matrimonio, se le viscere non ti si stracciano, getta adesso uno sguardo sulla giacente. Vedi la ingenua vergine che tutta si abbandonava nelle tue braccia? Che n’hai fatto! Credi tu che tutte le futili vostre gioie, le vostre ipocrite amicizie, le delizie miserabili delle vostre splendide soirées, tutti i galloni del vostro servidorame, contrappesino quella lacrima lenta, fredda che va formandosi nella vitrea sua pupilla?
Or vedete. — L’inferma tenta rizzarsi; colla mano scarna si ritrae i capelli dalla fronte, quasi enorme peso che la aggravasse; e le ossa del suo petto si sollevano, come quelle di persona che vorrebbe gettare uno strido e non può.
— Fuggi, fuggi! non vedi tu che ti incalza? È desso, è desso! i suoi occhi scintillano fra le tenebre come quelli del tigre in agguato. — Oh me misera! Egli è morto… e mi amava!
A queste parole dell’ammalata che rivelavano un mistero orribile, la sorella primogenita, che ne avea già avuto qualche sentore:
— Che vi pare, signor Notaio, chiese sommessamente al suo compagno, che vi pare la voglia dire?
— È nel delirio della febbre, rispose quegli senza commuoversi, ma ben comprendendo il veleno dell’argomento.
La Contessa fece atto di sorridere.
L’ammalata, dopo alcuni momenti di riposo, levossi nuovamente, ed afferrandosi le treccie dietro il capo:
— Oh nascondetemi quell’altare; abbrunatelo! L’altare nuziale per chi v’é tratto suo malgrado, è un altare mortuario. Guai, guai pronunciarvi una parola! è irrevocabile, è il suggello della morte!
— Questa volta, Contessina, disse il Notaio sogghignando per rappresaglia, questa volta sembra che rinsensi. — Che vi pare la voglia dire?
— Ben v’apponeste; è nel libro della febbre.
Il Notaio, per non trovarsi presente a qualche nuova accusatrice rivelazione dell’ammalata, colse il destro di ritirarsi, dicendo alla Contessa:
— Speriamo che domani sarà piú tranquilla, ed allora sarà piú facile indurla a fare come bramate.
E premeva su queste ultime due parole.
— Badate, signor Notaio, nell’uscir di castello, a camminar guardingo, poiché quel lago, di notte specialmente, è molto pericoloso.
— I morti non ritornano, mormorò tra se stesso, e scomparve.
Il Conte, cui la squisitezza de’ propri nervi non permetteva d’assistere, come egli solea dire, a quelle scene, stava raccolto nella sua camera e pensava che, se fosse rimasto vedovo senza figliuolanza, l’edifizio della sua casa, costrutto di tanti stemmi e di tante pergamene imperiali, sarebbe precipitato; ed invero, dopo la caduta di Roma, piú gran disastro non sarebbe ricordato nella storia umana!
Ma Dio che riserbava alla povera Eloisa morte piú tranquilla, la trasse di pericolo; le giovinezza di lei trionfò del male e de’ piú atroci patimenti dell’animo. Allora la sorella maggiore tornò a Genova.
XI
Di lí a poco sedevano nella loggia d’un teatro due amabili signorine, vestite con gran pompa alla foggia dello scorso secolo. Una di esse, agitando graziosamente un enorme ventaglio gemmato ed istoriato, e accarezzando con l’altra mano una graziosa cagnuolina adagiata sopra un cuscino presso di sé:
— Se sapeste, diceva alla compagna, quanto è felice la mia sorella Eloisa! È divenuta una campagnuola e cosí schiva del bel mondo, che non esce quasi mai dal recinto del suo castello. Suo marito non è piú giovane, ma un vero tipo di quegli uomini cavallereschi che piú non esiste; un vero tipo dell’antica galanteria!
E qui dava delicatamente un colpo di ventaglio alla sua cagnuolina; intanto si apria l’uscio della loggia, ed un domestico della famiglia presentava una lettera alla sua padrona.
— Ecco appunto i caratteri di mia sorella, disse ella gettando uno sguardo alla soprascritta; donde l’avete voi ricevuta?
— L’ha portata un vecchio domestico, rispose il valletto, ed instava per rimetterla egli stesso nelle vostre mani; né ho potuto altrimenti assicurarlo di un pronto ricapito, che recandovela immediatamente.
— Ditegli che venga domattina.
Il valletto, inchinata la padrona, si ritirava.
Il lettore avrà facilmente argomentato che una di queste signorine era la sorella della povera Eloisa. Ripose in iscarsella la lettera e continuò ad attendere allo spettacolo. Ma un’orrenda catastrofe dovea sopraggiungerle quella stessa sera. La Contessa, uscita dal teatro, nel salire in vettura, avea affidata per un momento la sua cagnuolina alle mani di un domestico; ma questa, impaziente di seguir la padrona, si slanciò dalle braccia del malarrivato valletto, e cadde miseramente tra le ruote e tra le zampe de’ cavalli. Un guaito lamentevole annunziò la fine della povera bestiolina, e la Contessa, a quello strillo, ne fu per morire. Il coraggio con cui aveva assistito alla dolorosa agonia di Eloisa, le venne meno in quel punto; il domestico, vecchio galantuomo che serviva in quella casa da oltre vent’anni, fu cacciato immediatamente colla squallida famigliuola; il lacrimevole avvenimento levò gran rumore nel bel mondo; corsero visite di condoglianza; non mancarono poeti, o per meglio dire, versificatori che decantassero la virtù, la bellezza della cagnuolina, e chi assicurasse poeticamente di averla veduta in grembo a Venere. La Contessina, inconsolabile, inacessibile nelle sue stanze, smarrì la lettera della sorella, nè prima le fu dato rinvenirla, che il messaggio, inviato a bella posta e in tutta la fretta, non avesse dovuto fare per piú giorni alcune ore di anticamera. Eloisa intanto aspettava; la vista di que’ luoghi le rinnovava ad ogni momento atroce spasimo; i rancori e quindi gli odii domestici, le rendeano l’esistenza piú amara che morte; d’altronde la vendetta dell’iniquo Notaio non parea ancor soddisfatta. Perciò scriveva alla sorella di provvedere in modo acconcio alle sue tristi circostanze; pregava volesse accoglierla almeno per qualche tempo in sua casa. Ed ora l’ufficiosa primogenita, che aveva procurato il bel matrimonio, dopo averle partecipato la fiera morte della sua cagnuolina, il dolore inesprimibile che ne provava, nell’ultime linee della lettera entrava in argomento; la consigliava a rassegnarsi, a darsi pace, e conchiudeva che senza compromettersi non potea riceverla in casa sua.
Tale è l’andazzo delle cose di questo mondo.
Eloisa, abbandonata da tutti, aspettava anelante la risposta; finalmente la ricevette, lesse palpitando, due lunghe pagine che trattavano della morta cagnuolina, alle ultime due linee trovò la risposta sospirata tanto, il rifiuto di riceverla in casa per non compromettersi.
— È una sorella che scrive… è quella che tanto m’accarezzava la vigilia delle mie nozze!
Un disprezzo non mai provato per cosa umana, sorse allora in quell’anima nobile e disdegnosa; gettò la lettera tra le fiamme del camino, nè fece mai piú motto della sorella.
— Iddio solo non abbandona! disse quindi inginocchiandosi, e commossa sino alle lacrime per quel sublime sentimento del cuore umano che, staccato pienamente da ogni terreno desiderare, si sente piú presso a Dio.
Di lì a pochi giorni Eloisa scomparve dal castello; il vecchio Conte rimase solo in que’ deserti appartamenti. Bisbigliossi sommessamente che la Contessa era morta; altri vociferavano che di notte fu via trasportata. La morte del medico, la scomparsa d’Eloisa, qualche parola del Cencio misero sospetto di un orrendo mistero tra gli abitanti del villaggio; ma nessuno ardì fiatare.
Avvenimenti ben piú importanti già soprastavano.
XII
Scoppiarono allora le prime scintille della rivoluzione di Francia, e l’Europa ne andò in fiamme.
I terribili eserciti repubblicani invasero la nostra Italia, e mentre andavano predicando libertà e incivilimento, spogliavano i monti dei sacrosanti pegni de’ poverelli, devastavano le chiese, rapiano statue, quadri, danari, e tutto a fascio, colle bandiere de’ nemici, inviavano a quella loro Babilonia denominata Parigi. I bambini si battezzavano coi nomi di Catone e di Bruto, nomi che, ricomposte poi le cose, si convertirono in quelli di Antonio e di Tommaso. La plebe, che ora applaude a Gesù Cristo, ed ora lo pospone a un assassino di strada, avida di cose nuove, applaudiva a’ suoi splendidi seduttori, e piantava per le vie, per le piazze un’antenna, e diceala albero della libertà, albero che non si può trasportare da clima a clima, e che per quanto sangue vi si getti, non alligna se non dove si genera e dove si rinforza col lungo andare de’ secoli. Allora fu che le statue di Andrea Doria e d’altri illustri cittadini, si videro strascinati colla fune al collo e stritolate nel fango dall’ebra moltitudine, la quale teneva, per argomenti di eguaglianza cittadinesca, quella licenza invereconda, fautrice della tirannide forestiera. Mentre si commetteva un ludibrio cosí infamenota 2, passò un buon prete, e vista la veneranda testa di Andrea Doria vituperata da que’ forsennati: — Ben ti sta, disse apostrofandola e tendendo il dito verso di lei; ben ti sta! Tu hai liberato questa canaglia dal giogo forestiero, tu fosti padre della patria, datore di sante leggi; dovevi flagellarli, opprimerli! — Que’ furiosi sulle prime ristettero maravigliando; quindi: — Dagli! dàgli addosso! dàgli al malvagio cittadino! — E il buon prete n’era salvo per miracolo. Compianto alle frenesie della plebe ignorante e sedotta! Quel che è peggio, una turba di indegnissimi Italiani, per mettersi in favore dei nuovi padroni, additavan loro i tesori piú preziosi, le tele piú eccellenti. Si bandiva ai popoli il grido di libertà, e si calavano dagli altari le immagini di Gesù Cristo; nè mancarono nuovi Giuda, nella turba dei suoi ministri, dei sacerdoti che, impudenti più dello straniero, strapparono dalla fronte di Maria le gemme della coronanota 3. Tra questi demoni campeggiava il nostro Notaio; l’abito del galantuomo pesava troppo sulle sue spalle, per non gittarlo appena ne avesse il destro e la convenienza; anch’egli si chiamava amico degli uomini, anch’egli volea rigenerare la schiatta umana. Il Vangelo di Gesù Cristo era cosa vieta, non piú adatta ai bisogni del secolo: Voltaire, Diderot ed altri simili eran veri filosofi, rinnovatori filantropi; a rinforzo dei loro argomenti sorgea sempre la ghigliottina.
Il Conte, padrone del castello, impaurito da voci di guerra e da minacce di moti popolari, credè suo meglio l’allontanarsene nascostamente. Né s’ingannava; che ivi a poco una gente di mal affare, vagabondi, sfaccendati d’ogni paese, accoltisi nel villaggio, e sedotta una parte dei contadini coll’arti solite in questi frangenti, divisarono saccheggiare e quindi ardere quell’edifizio, simbolo di signoria feudale. Il galantuomo del nostro Notaio era mantice in queste prime faville, e messosi a capo di que’ sciagurati, atterrate le porte, irruppe nel castello. Chi sa a quale opera di sterminio avrebbero proceduto, se il curato, vecchio venerando e venerato, avvisato in tempo da Cencio, non compariva improvvisamente tra quella furia; ed acquetati ben presto i suoi parocchiani, non intimava arditamente ai malvagi seduttori di allontanarsi. La memoria della contessina Eloisa, da tutti amata e riverita, memoria che il curato seppe ad uopo richiamare, commosse gli animi dei popolani non accesi che dalla fiamma soffiata in essi dagli stranieri; e costoro, vedendo che la bisogna si mettea male, cominciarono a ritirarsi più che di passo. Si sparse intanto la voce che nei deserti appartamenti della Contessa, s’udia un rumore straordinario; che l’ombra di lei, pallida e gigantesca, si era mostrata in un andito tenebroso, con atto di respingere gli assalitori. La voce della sua morte era incerta; ma certo si è, come avviene talvolta tra gente esaltata ed ignorante, che taluni, i quali ostentavano disprezzo e miscredenza a Dio e all’anima, ebbero paura d’uno spettro imaginario, e si allontanarono.
Ma il rumore che aveano udito nei chiusi appartamenti della Contessa, non era al tutto imaginario. Il Notaio, pratico della casa, e che da lungo meditava questa entrata trionfale, spiccatosi dalla turba, avea saputo cacciarsi dentro alle camere piú secrete di Eloisa. — Figurati adesso, o lettore, quest’uomo formidabile, cagione di tanti mali e vittima di se stesso, che riesce a metter piede in que’ penetrali pieni, agli occhi suoi, di memorie straziantissime e sempre piú vagheggiate! A che somigliarlo, se non alla vipera che penetra finalmente nell’insidiato nido della colomba, e il trova freddo e deserto? — Quest’aere è pieno di lei! qui svelò tutte quante le sue bellezze senza sospetto; in quello specchio brillò viva l’angelica sua figura… quelle sono le coltri, i capezzali del suo letto!… — E l’imagine d’un bene immenso gettò il delirio nelle ardenti fibre del suo cervello; tremò, quasi il guizzo del fulmine lambito avesse la sua persona; estenuato da lotta atrocissima d’affetti opposti, cadde su d’un seggiolone presso il letto, e si strinse le tempia colle pugna.
— S’ella… fosse qui un momento… un sol momento, e poi la morte! Vederla almeno, e spirarle ai piedi!
In quella che alzava gli occhi, non so dire se in atto di bestemmia o di preghiera, gli venne veduto sopra d’un tavolo uno scrigno tutto gemmato, arredo di Eloisa. Spiccò un salto, e ghermitolo come una preda, l’aperse a forza, vi gittò dentro le mani tremanti dalla gioia e dall’ansietà, se mai vi fosse ancora riposto qualche foglio amoroso del medico; ma invece scoprì nel fondo una ricca collana nuziale ed un ritratto in miniatura di Eloisa. Ripostosi il tutto sotto i panni, si cacciò a precipizio da quelle sale abbandonate; l’avresti detto, nella sua fuga, il mal genio delle tenebre.
Intanto la turba di que’ furibondi che erano accorsi al castello per ardere e saccheggiare, scacciatane da buoni villici che meglio riconsigliaronsi alla voce del curato, si volse a sfogar l’ira contro un’umile cappelletta dedicata alla Regina degli Angioli, sedente sopra la cima di un vicin colle. La santità dell’altare, la povertà del luogo, dove non olezzavano che pochi fiori selvatici, tributo di qualche buona contadina, non valsero a salvarla dalla furia di quegli insani, i quali si confidavano balzar l’Eterno dal trono, per sostituirvi la Dea Ragione. Il delubro andò in fiamme, l’altare fu rovinato, abbattuta per mano istessa dal Notaio, che sperava in quello scempio soffocare i suoi tormenti, la rozza croce che sorgeva sul dinanzi del sacro limitare.
Dio non paga il sabato; la pena è zoppa, ma infaticabile sulle tracce del colpevole.
L’angiolo della giustizia, come poc’anzi abbiam detto, librandosi tacitamente sul capo dell’omicida, stringe colla sinistra l’oriuolo del tempo; e spia il granello predestinato di sabbia che sta per caderne, e colla destra innalza il ferro che dee colpir la rea vittima. L’avvicinarsi di quest’ora sveglia nel cuor del giusto affetti incogniti, sublimi aspirazioni; ma nel perverso mette spavento misterioso. L’animo del Notaio fu invaso, oppresso da funesti presentimenti, da paure di cui tentava beffar se stesso, ma che ostinate, tenebrose tornavano ad assalirlo. Una carie interna, forse generata dalle male sue passioni e da rimorsi, lentamente lo divorava; era vivo sepolcro di se medesimo. Riordinatesi, comunque fosse, le cose, la piena dell’odio pubblico, l’universale esecrazione gli pesavano inesorabili sopra la testa, preparavangli una fossa maledetta, ove passo passo dovea discendere, schivato, sogguardato come un leproso.
E in casa, in compagnia di Cencio, che faceva?
Chiudeasi talvolta nella sua camera, e rimanea solo buon tratto d’ora con grande meraviglia di Cencio che non poteva darsi pace di que’ spirituali trattenimenti del buon Notaio. Sulle prime ebbe sospetto che passasse ogni dí a revista qualche tesoro; ma la faccia di lui, nell’uscire da quella camera, era cosí travolta, cosí affoscata, che la cagione di quel secreto trattenimento dovea riuscirgli tutt’altro che gradevole. Quanto l’uno parea cercasse d’avvilupparsi nel mistero, tanto l’altro s’incapponiva a volerne spillar fuori la verità.
Una sera, passando presso la camera del Notaio, Cencio fraintese un rotto singhiozzare, un lamento fioco e soffocato; ficcò lo sguardo traverso lo spiraglio della porta, e vide il padrone in ginocchioni:
— Che faccia l’esame di coscienza! che si sia convertito! Che dica il rosario con quella corona che ha tra le mani?…
E si fregò gli occhi, temendo di trasognare.
Era proprio il Notaio in ginocchioni. L’amore, o per dir meglio, la passione che quell’uomo violento avea concepita per Eloisa, si era rinforzata di tutta la forza del suo carattere, e soffocata sempre nel cuore, ne facea strazio disperante. La corona che Cencio, mal distinguendola, avea presa per un rosario, altro non era che la collana nuziale di quella povera giovanetta, collana cui stava sospeso il ritratto di lei.
— Oh queste perle, diceva tra sé il Notaio, abbracciavano un giorno quel collo! Questo ritratto è proprio il suo. Che sorriso di paradiso! che sguardo!… Cosí al medico sorridevi!… E queste belle treccie le abbandonavi alle sue mani!…
Qui passando dalla tenerezza ad una smania di mostro, invaso da una frenetica gelosia, sorgea in piedi; le sue nari si dilatavano; il sangue gli gonfiava le vene e i polsi; gli battea le tempia violentemente…
— Ma è sotterra il mio rivale… il mio… fortunato rivale! — mugghiava fra se stesso, battendo il piede sul pavimento e stringendo convulsamente il ritratto di Eloisa.
— È sotterra!
Il suo labbro si contorceva con un sogghigno infernale, i suoi occhi, fissi sul pavimento, si spruzzavan di sangue; tutte le sue membra tremavano.
Cencio, sempre all’uscio della camera, non sapea che pensarsi.
— Il rosario, diceva fra se stesso sorridendo, gli ha fatto male; è un cibo troppo indigesto per il suo stomaco non assuefatto.
E pian piano si ritirava.
XIII
Affrettiamoci allo sviluppo del nostro racconto.
Il Notaio, per colmo di miseria, divenne cieco. Concepì allora per Cencio una diffidenza piú che mai viva e pungente, e che nullameno dovea mascherar piú che mai. Condannato a riflettere continuamente sopra se stesso, in quella dolorosa oscurità di occhi, in quel sepolcro anticipato, la facoltà sensitiva dell’anima divenne piú intensa, talché i delitti da gran tempo consumati, gli si schieravano innanzi al guardo della mente con una lucidezza, e, direi quasi, energia di forme non mai veduta. Seduto nella sua camera, solo, abborrito da ogni creatura umana, senza il conforto di concentrarsi nella propria coscienza, che è sempre un tempio aperto e luminoso per l’uomo dabbene, quella larga sua fronte, ingiallita dal morbo interno e dai rimorsi, cadde la prima volta sopra il petto, aggravata da un’amarezza inconsolabile, e meditò! — Tutti i disegni piú vagheggiati, a fascio; il frutto delle sue scelleraggini, l’esecrazione, il rimorso; non altra compagnia che quella di Cencio… d’un forzato. – E l’avvenire! la morte; e dopo la morte! chi sa quai sogni orribili dentro il sepolcro… e accanto al medico! Allora due grosse lacrime sgorgarono tacitamente dalle morte sue pupille; la sua mano si distese per cercare nel vuoto orribile, nel silenzio, nelle tenebre che lo inondavano, una destra amica per sorreggersi, e non v’era che quella di Cencio, di un complice; la croce, su cui solo avrebbe potuto sorreggersi, l’avea spezzata di propria mano; da qual lato rivolgersi, che non fosse luttuosa notte e timore di peggio?
Un giorno, verso sera, le ombre che lo aggravavano, parve divenissero ancor piú fitte, piú desolate. Era la vigilia della solennità dei morti.
— Cencio, dammi mano, usciamo all’aperto: ho bisogno di respirare!
E Cencio che non l’avea abbandonato, sia speranza di eredar qualche cosa, sia impossibilità di acconciarsi a servizio d’altri, poiché tutti conosceano i meriti di un tanto galantuomo, condusse passo passo il suo padrone sull’erta di un vicin colle.
— La giornata deve esser bella, disse il cieco levando il mento; che vedi Cencio?
— Gli ultimi raggi del tramonto colorano l’orizzonte sopra il mare; battono sui vetri delle finestre del castello, nel giardino inselvatichito e nelle acque di quel lago che, indorate dal sole e commosse dalla brezza, somigliano a sangue ribollente.
Il Notaio tremò a queste parole — In quel lago s’annegò il medico.
— E dove siamo? dove sediamo?
E movea le mani a tentone.
— Sui rottami dell’altare consacrato alla Vergine, tra le rovine della cappella, rispose Cencio.
— Fuggiamo! fuggiamo!
E balzò in piedi quasi un aspide appiattito tra que’ sassi l’avesse punto. Fece alcuni passi colle braccia tese, senza l’aiuto di Cencio, e tremando da capo a piedi, parea Edippo nella foresta consacrata alle Furie.
— Cencio, ove sei?
E Cencio tacque.
— Cencio, per pietà, non lasciarmi qui in abbandono! Si fa notte… notte eterna!
— Vi ricorda, padron mio, di quella notte?… le fiamme dell’incendio la illuminavano; una turba di forsennati vi applaudiva all’intorno di questa cappella… ed ora siete solo… avete bisogno… perfin di Cencio!
— Pur troppo!
E quell’uomo, già formidabile, simile a tronco fulminato, raccolse le braccia al petto e abbassò il capo.
— Oh questo è un momento d’espiazione! Dio mi ha percosso!
Quella notte, che gli dovea esser l’ultima, il Notaio aggravò fieramente e di subito. Era il giorno anniversario della morte del medico; e nel delirio della febbre, quella faccia d’annegato, livida, cogli occhi gonfii, colossale, gli stava innanzi. Il Notaio si volgeva altrove, ma quella testa era dovunque. Per riscuotersi da tali immagini, chiamò Cencio, e chiese da bere.
Questi, osservatolo alquanto in volto:
— Padron mio, cominciò a dirgli tra il serio e lo scherzevole, questa volta tocca a voi far testamento, ed è forse la prima volta che lo fate in buona fede.
— Comincia forse ad albeggiare, che io mi sento una specie di vampa nelle pupille?
— È notte fitta, padron mio; la vampa che vedete è forse un preludio dell’inferno.
— Chiamami un confessore.
— E che fare d’un confessore, se non credete né a Dio, né al diavolo?
— Cencio, non deridermi! le mie mani sono ancora terribili — e afferrava le coltri con una rabbia convulsiva.
— Vecchio tigre, hai perdute le ugne e i denti — soggiunse Cencio, sogguardandolo e traendosi addietro d’un passo. — Non mi avete voi detto, or fa un anno, qui appunto, che coloro i quali muoiono in questo giorno, non abbisognano di sacramenti e vanno dritto dritto in paradiso?
Ma il Notaio piú non udiva; il suo petto si sollevava per il rantolo dell’agonia; un bramito di fiera piuttosto che voce umana gli fremeva dentro la strozza.
— Chiudi la porta, le finestre — urlò quindi delirando.
— Donde vennero tanti spettri? Strisciano su pei scaffali, mettono sossopra le mie carte, stracciano i testamenti… i testamenti, dove io li ho traditi! E quelle vedove che piangono, e que’ bambini affamati!… Oh prendete, prendetevi tutte le mie ricchezze… sono vostre… ma fuggite!
Cencio che aveva anch’esso una buona dose di superstizioni, gettò lo sguardo intorno alla camera fra l’atterrito e l’attonito.
— Nessuno può saperlo; m’assicurai ben bene s’era morto — proseguia l’infermo sempre in delirio. — Calcai la terra sopra il suo capo; nessuno mi ha veduto. Cencio solo ne sospetta; bisogna che mi sbarazzi di costui prima che mi tradisca.
E qui fremeva, ed agitava le mani col tremito impaziente, coll’ansia furiosa del delitto.
— Grazie! — gridò Cencio, spalancando gli occhi e traendosi nuovamente a dietro d’un passo a quelle benevoli intenzioni del Notaio: — meriteresti due dita nella gola, se a quest’ora la fatica di strozzarti non fosse inutile!
A che riferire lungamente que’ misteri di iniquità che qua e lá trapelavano dalle sconnesse parole del moribondo? Verso l’alba parve che migliorasse, la febbre era meno ardente; il malato avea ripresa conoscenza.
— Cencio, chiamò allora il Notaio, illuminato forse da un raggio della pietà eterna. Cencio, a dirla qui tra noi, siamo due birbanti; ma non ci è tolto poter tornare qualche cosa di meglio. Accostati.
Ma Cencio non si mosse.
— Quando sermoneggiate, padron mio, debbo badar bene alle vostre mani.
— Hai paura d’un moribondo?
— Non paura, ma ribrezzo. Parlate, e siate breve acciò il tempo non vi manchi.
Il Notaio parve si rassegnasse a quell’insulto, e traendo un sospiro, soggiungeva:
— Pur troppo! dici il vero. Ti prego d’un servizio che sarà l’ultimo, e che tu non potrai negarmi, senza toglierti un conforto nell’agonia… Apri lo scrigno; la chiavetta è qui sotto il mio capezzale; prendi la collana che vi è riposta ed il ritratto di donna che vi è sospeso.
Cencio ubbidì; cavò fuori que’ preziosi arredi, e fissando lo sguardo sul ritratto, strinse l’occhio destro, torse l’angolo sinistro della bocca, quasi gustasse un sapor prelibato:
— Oh la bella Contessa, esclamava, la bella contessina Eloisa! Questo era l’oggetto delle vostre meditazioni, non è vero?
— E de’ miei rimorsi! l’interrompea il moribondo. Ora, Cencio, mi ascolta. Per l’anima di tua madre, per la tua… per quest’ora amarissima che tu pure dovrai subire, porta intatta questa collana e questo ritratto alla contessa Eloisa…
— E dove volete voi che io la trovi? Non ne ebbi mai piú sentore, da che sparì dal castello. È piú facile trovare il corpo del medico.
— Non amareggiarmi questi ultimi momenti di agonia. Saranno contati anche per te. La contessa Eloisa è a Genova, nel convento di… Va, recale questi oggetti che le appartengono; e dille… che mi perdoni!
E spirò.
Cencio, che non era scellerato al tutto, si inginocchiò presso il letto e pregò alquanto sommessamente. Rialzatosi, prese un capo del lenzuolo, e prima di stenderlo sulla fronte del cadavere, ristette a contemplarlo: — il ferreo tuo volere — parea dicesse nella sua rozza intelligenza, percossa da quell’immagine della morte — quel tuo spirito infaticabile, dove sono andati! Quanto a quest’ora ti gioverebbe l’essere stato ben diverso da ciò che fosti! Eppure la tua ultima preghiera, la preghiera d’un moribondo non sarà rigettata.
Accese allora un lumicino ai piedi del cadavere. Aprì le imposte, e vide un’aurora risplendentissima, pari a quella del mattino in cui il povero Edoardo fu tratto morto dal lago. Facea l’anno precisamente.
XIV
E facile argomentar ciò che segue.
La giovane contessina Eloisa, d’accordo col marito, si era ritirata a Genova nel monastero di N.N. Il silenzio, la devota ritiratezza di quelle mura le avevano acquetate a poco a poco le tempeste dell’animo; quelle tranquille occupazioni, alternate colla preghiera, il non vedersi circondata che da volti amici e mansueti, scemarono l’impeto di una mortale malattia di cui portava i germi nel petto, e che ivi a poco dovea strascinarla al sepolcro. Ma il pensiero della morte non era grave a quell’anima; anzi le appariva circondato da tutte le illusioni della giovinezza infelice.
Mentre ella, negli ultimi giorni d’autunno, passeggiava nel giardino del monastero, uno sconosciuto si presentò al parlatorio e chiese della Contessa. Non descriverò le sensazioni repentine, le memorie risorgenti nella mente d’Eloisa al veder Cencio; né quelle di quest’uomo in veder lei cosí stanca, cosí mutata. Come meglio seppe, espose la sua missione, i voti estremi e la morte del Notaio; quindi le rimise la collana e il ritratto.
Eloisa, alla vista di quegli oggetti che le ricordavano il tremendo giorno delle sue nozze, gli augurii dei parenti e degli amici, le apparenze lusinghiere dell’avvenire, e quindi l’atroce disinganno di tutto, i dolori, le morti, non potè frenare un sospiro ed una lacrima. Voltasi quindi a Cencio, gli diceva pacatamente con una dignità temperata da profondissima malinconia:
— Recate questi oggetti a mia sorella, alla contessa N.N.; ditele, che le fui grata del dono, alla vigilia del mio matrimonio; e che ora, da questo monastero tutto le rimando, poiché nulla piú m’appartiene.
— Debbo cercar anche del signor Conte vostro marito, e ciò per parte del Notaio: — Avete qualche cosa a comandarmi?
— Ditegli ciò che vedeste e ciò che udiste.
E presentata a Cencio una borsa, si ritirava.
Di lí a poco tempo una marmorea lapide, posta di recente, biancheggiava sul pavimento d’una cappella nel monastero; ed ogni giorno, verso sera, una vettura abbrunata, tratta da cavalli bardati superbamente, si arrestava nel cortile dinanzi all’uscio della chiesuola. Scendea una dama vestita a corrotto, pallida, taciturna, accompagnata talvolta da un cavaliere, uomo di circa sessant’anni, anch’esso vestito a lutto; e senza scambiarsi mai parola, si raccoglievano amendue nella funebre cappelletta, presso il recente marmo. La dama non fu vista mancar mai a questa visita che nascondea forse per lei qualche motivo di espiazione. Era dessa la sorella primogenita d’Eloisa, che avea procacciato all’inesperta giovanetta il bel matrimonio ed uno strato anticipato dentro il sepolcro; – sotto quel marmo dormia Eloisa.
Il vecchio cavaliere che talvolta l’accompagnava, era il Conte suo cognato; e questi non fece mai piú ritorno al castello de’ suoi padri, dove la tradizione popolare non vede a comparire, ogni notte, che l’ombra d’Eloisa e quella del Notaio.
Per non lasciar contristato il nostro lettore, soggiungeremo che Cencio, preferendo alle sue antiche perigliose abitudini di contrabbandiere, esposto sempre alla pioggia, al vento, alle schioppettate, il vivere riposato di galantuomo, ammaestrato anche dall’esempio del Notaio, entrò laico in un convento, dove, applicato alla cucina, ebbe campo di spiegare il proprio genio, rimasto sino allora come tesoro nascosto. L’avresti detto un Cincinnato in giubilazione che riposasse sui propri allori.
Fine.
nota 1 – Tutto questo è rigorosamente storico.
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nota 2 – Tutto questo è rigorosamente storico.
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nota 3 – Anche questo è rigorosamente storico; cosí infame profanazione si compieva nel Santuario della Madonna di Misericordia in Savona; e mi fu raccontata da testimonii. Taccio il nome di quel sacrilego per discrezione alla onesta fama de’ superstiti.
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TITOLO: Il castello abbandonato
AUTORE: Pietro Giuria
CURATORE: Rigoli, Aurelio
NOTE: Racconti popolari che, nella prima metà dell'Ottocento "rinomati scrittori italiani" (Pietro Giuria, Emanuele Celesia, F. Ramognini) recuperarono dalla tradizione orale e trasposero in prosa d'arte, per la ben nota raccolta di Angelo Brofferio "Tradizioni italiane".
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Racconti popolari dell'Ottocento ligure. - Palermo : Edikronos, 1981. - 2 v. ; 17 cm. - vol. 1.: 203 p. - vol. 2.: 226 p. - (I Contastorie)
SOGGETTO: FIC027080 FICTION / Romantico / Brevi Racconti