Il campo di grano

di
Cesare Pavese

tempo di lettura: 17 minuti


Finch’era durata la mezza stagione, nessuno aveva fatto caso di quell’erba piú tenera e piú alta del solito, ma adesso che i crepuscoli si allungavano e la gente usciva per le strade a prendere il fresco, la cosa saltava agli occhi. Il grano sarebbe diventato ancora piú alto e giallo e frusciante, e magari qualche papavero, e un bel giorno il vecchio avrebbe voluto mieterlo e fare i covoni e parlarne nelle strade e nei negozi. Forse avrebbe cercato di venderlo.
Amalia vedeva ansiosa certi ragazzotti fermi sulla banchina della strada, proprio dove finiva il muro della fabbrica e cominciava la striscia di campo, davanti alla casa. Li guardava ansiosa, tra la vergogna e una speranza non sapeva nemmeno lei di che, adesso che il grano era verde. Ma i ragazzotti guardavano un poco, e se ne andavano.
Una sera, mentre passavano in bicicletta gli operai che stavano nelle ultime case della barriera, Amalia rincasò col cappello in mano, alzando il capo per non vedere gli steli verdi. Mangiò in fretta, senza badare alla cartaccia sporca della cucina o ai piatti rotti; mangiava quello che c’era, di questo non le importava; non le importavano le ciabatte della madre né i calzoni sbottonati del vecchio o che si forbisse la bocca col dorso della mano; ma soltanto di far presto, di non sentire un’altra volta il vecchio ricominciare col suo grano e lamentarsi che il letame non aveva ingrassato bene.
Senza cappello, uscí fuori nel crepuscolo, allontanandosi da casa perché non voleva che Tosca venisse lei a cercarla. Andò, canterellando sottovoce, in fondo al corso, dove ricominciavano gli alberi, e cercò lassú la luce di Tosca. Nel viale era pieno di bambini che strillavano fin che c’era un po’ di chiaro. Amalia si fermò davanti allo specchio del Bar Americano, e si rifece le labbra e la frangetta. Nel riflesso verdastro osservò che aveva gli occhi profondi e crudeli.
Tosca le aveva detto una volta che invidiava la loro catapecchia isolata. Tosca capiva soltanto la comodità di non fare le scale. Per Tosca la domenica era bella se si andava a fare merenda nei prati, e il suo sogno era di passare una giornata a vendemmiare.
Qualcuno la guardava. Era il fratello di Tosca. Amalia una volta gli aveva risposto male: quella faccia biondastra dagli occhi maligni, le grosse mani ciondolanti e le unghie rotte, le ripugnavano. Stavolta mormorava ridendo un complimento, e non si muoveva.
— Prima o dopo? – gli chiese Amalia, addolcendo il sorriso.
— Se mi dici quella cosa, sono dopo, – disse Tonino tendendo la mano.
— Aspetto Tosca.
— Io no, – disse quello, e alzò le spalle. Amalia batté il piede dall’impazienza. Ma Tonino se la rideva, contento di sé. Amalia si mise a passeggiare nervosa.
Quando fu sola, andò a camminare sul viale, sotto l’ombra delle piante. Su tutti gli odori di fritto, di polvere, di strada, sentiva passare il fresco della sera e le piaceva. Le piaceva in distanza il trabalzo dei tram.
Quella sera, sotto l’insegna rossa, Amalia guardò i riquadri delle fotografie e fece una smorfia. Tosca non insistette, e si allontanarono a passo svogliato. Capitarono davanti al «Giardino».
— Guardo se c’è qualcuno, – disse Tosca.
Una mano fece segno da un gruppetto seduto di là dalla siepe. – Vieni, – disse Tosca, – c’è Gianni.
— Non abbiamo neanche il cappello, – disse Amalia.
— Tanto si toglie, vieni.
C’era Gianni, c’era Tonino, c’erano tutti i meccanici del reparto. Invece di ballare bevevano la birra. Sul cemento, tra le piante, c’erano poche coppie, ma l’orchestra suonava tanto piú forte. Faceva fresco sotto le piante.
Amalia non accettò la birra e chiese un caffè. Era furiosa di aver tenuto le calze da lavoro, perché sul cemento, quando ci sono poche coppie, le gambe si osservano. Vide un tale in bianco che ballava a gambe nude, come fosse già estate. A un tavolino in penombra intravide una coppia: lui sportivo e baffetti – forse il padrone dell’automobile ch’era fuori – lei piegata sul braccio a parlargli: una dattilografa, aveva le unghie smaltate.
Tonino le chiese sarcastico se voleva ballare.
— Adesso sono stanca.
Tosca e Gianni erano già sul cemento.
I meccanici tacevano sorridendo scioccamente. Avevano certo troncato un discorso. Amalia li guardava senz’espressione. Tonino disse:
— Parlate pure, ragazzi, tanto la signorina non è torinese.
E un idiota che Amalia non conosceva, chiese:
— Ah sí? Di dov’è?
Uno disse, scuotendo il capo: – La donna è sempre la donna.
Ma quello stupido dagli occhi storti insisteva. Fu Tonino che – stavolta senza ghignare – rispose con gravità: – Siamo agricoltori. Siamo stufi di piantar cavoli e abbiamo emigrato. Dov’è quel paesello? – domandò.
Amalia finse di non avere sentito ma s’accorgeva di sudare. Per un istante le batté il cuore piú forte dell’orchestra.
Continuò Tonino: – Siamo superbi, al paesello, con quelli che non sono venuti in pastura con noi…
Veniva verso il crocchio uno alto, dal capo ricciuto, con la giacca buttata sul braccio, e qualcuno dei meccanici levò la mano esclamando. La maglietta bianca gli scopriva le braccia abbronzate. Era piú che un operaio. Lo strabico lo chiamò Remo, ridendo.
Si scambiarono feste, e Amalia stava seduta a capo basso. Poi sentí che questo Remo diceva agli altri: – Libera?
L’orchestra attaccava e Amalia saltò in piedi, facendogli un sorriso. S’incamminarono al cemento, a grandi passi.
Piú che abbracciarla il giovanotto le serrò la mano, piegandogliela contro la vita, e nell’istante che la cinse con la destra, le tastò la solidità della schiena. Amalia s’abbandonò volentieri contro di lui. Verso la fine del giro, quello le domandò a bassa voce di dov’era.
Amalia fece un sorriso stupito. Non dissero altro.
Finito il ballo, si guardarono un momento. – Si rimetta la giacca, fa fresco –. Scivolando tra le coppie ferme, giunsero al cancello e uscirono nelle penombre del viale.
Il suo compagno s’era buttata la giacca sulle spalle e con lunghi passi calmi si teneva a livello di lei. Non parlava, per lasciare a lei l’imbarazzo.
Amalia un certo momento s’era dimenticata di averlo al fianco, ma si riprese e disse: – Ne ho abbastanza di quei quattro maleducati.
L’altro la sogguardò, poi brontolò: – Sono quattro stupidi, non capiscono niente. Come si chiama? – e le prese il braccio.
Amalia risentí la stretta gagliarda di prima, e si divincolò agevolmente.
— Passeggiamo soltanto, – disse piano.
Quando giunsero alla strada ferrata, tra case e prati bui, Amalia gli pendeva dal gomito e lo ascoltava raccontare della grande corsa dell’anno prima quand’erano passati proprio per quella barriera, lui e il gruppo di testa. Amalia ricordò vagamente una domenica di folla e di clamori, e uno stormo di ciclisti aggobbiti e sfigurati sui manubri. Amalia non aveva mai sentito il suo nome, ma il ballerino aveva di bello che non si vantava e disse che correva in squadra.
— E adesso cosa fa?
Si allenava per una corsa in Riviera. Ad Amalia cominciò a battere il cuore, perché questo voleva dire che era un corridore importante.
— Tutta quanta la Riviera? – chiese.
Remo non sorrideva mai. Anche nel buio, Amalia s’era accorta che non sorrideva nemmeno quando le aveva detto che era una bella ragazza e carezzato un fianco.
— Tutta la Riviera?
Remo disse che le corse si vincevano in allenamento e che le strade erano tutte uguali. Amalia sentí un gran desiderio di vedergli le cosce scoperte: doveva averle robuste e ben fatte. Gli chiese se aveva delle fotografie.
Remo, sempre stringendole il braccio, disse: – Andiamo nel prato?
Mentre sedevano nell’erba, Amalia gli chiese quando sarebbe andato in Riviera o se c’era già stato. Remo brontolò qualcosa e le cacciò una mano su per le gambe, cingendole il collo e baciandola. Amalia saltò in piedi. Remo acquattato nell’erba, levò il capo.
Amalia balbettò: – Ci conosciamo appena.
Remo si distese per afferrarle una caviglia. Amalia balzò indietro e risaltò il fossato sulla sponda. Lontano sotto il lampione, passava uno in bicicletta.
Remo sempre seduto nel prato, brontolò: – Vieni qua, stupida. È notte.
— No, no, – disse Amalia col cuore in gola, – non siamo mica cani.
Allora, bestemmiando, Remo saltò in piedi. Amalia corse leggera e giunse sotto il lampione. Remo veniva a grandi passi. Amalia, rallentando il suo, deviò sul marciapiede.
Amalia dormiva sopra un sofà in cucina e aveva specchio e scatolette sopra il canterano nell’altra stanza, dove dormivano padre e madre. Per questo veniva in casa solo a mangiare e a dormire. Ora che davanti alla porta cresceva il grano, non ci restava neanche la mattina della domenica.
Le due stanze della catapecchia erano scrostate ma solide: parevano una vecchia osteria. Amalia avrebbe voluto che quelli della fabbrica si riprendessero davvero cortile e baracca e spianassero tutto. Ma suo padre pareva sicuro, se aveva persino seminato.
Di notte si sentiva attraverso la porta la voce dei passanti radi, e l’abbaiare di qualche cane e i treni; e sotto l’alba il cigolio dei carri. Qualche volta, ma di rado, il fruscio e il vortice di un’automobile.
Quella era la catapecchia che Tosca giudicava piú comoda del suo alloggio al terzo piano. Tosca al posto suo non sarebbe andata a sedersi nel prato col ciclista: non ci andava nemmeno con Gianni. Era nata nel rione. Ma l’avrebbe fatto nel cinematografo. O alla domenica in campagna.
Lei nella vigna da bambina l’aveva fatto, ma non ci sarebbe cascata piú. Valeva la pena esser venuta in città e vivere la sua vita, per buttarsi nei prati come una contadina? Fare quella cosa non era il piacere piú grande, e farla cosí era un disgusto. Sapersi concedere voleva dire distinguersi da quelle come Tosca che per un ingresso o una gita lasciavano fare da qualunque meccanico.
Tutti gli uomini sono uguali – pensava Amalia, – ma c’è uomo e uomo. Però il ciclista quella sera se n’era andato imprecando. Amalia voleva chiederne a Tosca che ne chiedesse a Tonino che ne chiedesse agli altri, ma temeva di venir canzonata. Una sera fu per entrare al «Giardino», ma ci vide tutto il crocchio con Tonino al centro, e restò fuori allungando il collo, cercando tra le piante se vedeva la testa ricciuta del ciclista. C’era, e aveva un maglione a colletto arrotolato, e discuteva rosso in faccia.
Proprio l’indomani – era una mattina nuvolosa e fresca – Amalia si stava lavando nell’angolo buio della cucina, quando guardò dalla finestra e intravide un uomo alto, gambe nude, in maglione e berretto bianchi, che poggiato a una bicicletta levava il mento a guardare. Era Remo.
Amalia, quando uscí aggiustandosi il cappello a testa bassa, attraversò in quattro passi il sentiero tra il grano e fu in strada. S’incamminò senza guardare, e Remo le era al fianco accompagnando con la mano la bicicletta cigolante. Aveva le cosce brune da atleta, ammorbidite da un pelo biondiccio. Amalia tra sé imprecava che si era lasciata cogliere in casa.
— Si va al lavoro? – disse Remo, adagio come camminava.
Amalia lo sbirciò irritata e non seppe che rispondere. A un tratto gli chiese scontrosa: – Si allena? – e si fermò. Lontano, all’angolo, ragazze e meccanici erano raggruppati davanti all’ingresso. Scoppiò nell’aria fresca l’ultima sirena, lunga, assordante, imperiosa.
— Chi le ha detto dove abito?
Remo non aveva sentito. – Passo di qua tutte le mattine, – disse, – con la mia piccola. Oggi lavori?
— Ho fretta, – disse Amalia.
— Stasera passo a prenderti.
— Stasera vado al teatro.
Remo non si stupí. Chiese: – Sola? – E poi: – Allora vengo anch’io.
— Non passi a prendermi, – disse Amalia, – sarò davanti al «Giardino».
Quella sera invece andarono al cinematografo nel centro, perché Amalia gli fece capire che non le piaceva vedersi intorno le solite facce. Remo prima di salire sul tram si rimise la giacca. Nel cinema stette tranquillo, perché Amalia lo prese in giro e gli disse che c’era tempo per tutto. Lo spettacolo, visto dalla comoda poltrona rossa, la interessò tanto, che a un certo punto, se Remo avesse tentato qualcosa, si sarebbe davvero offesa.
Sulla via del ritorno si fermarono in un caffè e Amalia lo fece parlare della corsa in Riviera. Gli disse del mare, dei bagnanti e delle palme. Gli chiese se era mai stato all’estero. Volle che le descrivesse i suoi anni passati e i suoi progetti se vinceva la corsa.
Remo parlava volentieri della bicicletta e delle corse, ma d’altro non aveva molto da raccontare. Di tanto in tanto cercava di allungare una mano di scatto, e Amalia dovette menargli un colpo sulle dita che la fece vergognare per la vivacità del gesto.
Non si lasciò riaccompagnare fino al campo di grano: strinse la mano a Remo, che restò in mezzo alla strada, alto e un po’ curvo, guardandola allontanarsi.
Vennero le giornate cocenti, e il vecchio era un fastidio. Rientrando dal lavoro, Amalia lo trovava quasi sempre davanti alla casa, che soppesava spighe, raschiava erbacce, risollevava la faccia raggiante, ombreggiata dalla cappellina irta e gialla come sarebbe diventato il suo grano. Attaccava discorso coi passanti e fortuna che, per l’antica diffidenza non metteva ancora in piazza i suoi ridicoli progetti.
Ma ragionava avidamente con la madre, e calcolava: si vedeva già il padrone di quei quattro palmi di campo. Amalia avrebbe dato la bottiglietta di Colonia perché quelli della fabbrica li sfrattassero. Invece il padre diventava sempre piú zelante la notte nelle sue ronde ai cortili, e delle volte restava fino al mattino perché i padroni lo vedessero, con la lampadina alla cintura, riconsegnare le chiavi.
Com’era possibile che quel corpo terroso e inacidito, venuto su tra le zolle e la stalla, fosse la stessa carne del suo? Amalia rabbrividiva pensando che ci si erano messi lui e la madre – la madre in ciabatte – la bocca baffuta e ciccosa sul corpo esangue della madre – per metterla al mondo. Amalia quando si lavava, chiusa in cucina, dritta nella tinozza, le pareva di raschiarsi dal corpo la terra e la vigna.
Una mattina vide dalla finestra il vecchio e Remo sceso di bicicletta, che discorrevano. Fece una scenata a Remo e per quella sera non andò all’appuntamento. Corse, appena cenato, a casa di Tosca, per non venire sorpresa da lui nella catapecchia.
Trovò Tosca che mangiava l’insalata e Tonino che si faceva la barba.
Si sedette al tavolo, davanti a Tosca. Tonino disse che le vedeva nello specchio.
— Siete fortunati voi due, – disse Amalia, – cosí soli. Tutto quello che guadagnate è vostro, e non vi piace cambiare.
— Perché non fa la terza? – disse Tonino. – Io ci starei.
Tosca masticando guardava fisso Amalia. – Oh, per te! – disse a Tonino. – La vita è una seccatura, – continuò; – io vorrei essere nata come te in una campagna, almeno non si sta chiuse tutto il giorno, e se si è stanche ci si stende all’ombra.
Tonino si mise a cantare: «Torna al tuo paesello».
Amalia sorrise guardando l’insalata. – Non è mica tanto facile: c’è da lavorare piú che qui e nessuno ti dice grazie. Stanno bene i maiali, ma non chi li guarda. È peggio che fare la serva.
— Ci fossero almeno i ciclisti! – esclamò Tonino, facendo un mezzo giro, con la bocca storta sotto la mano riversa.
Remo si riconciliò con Amalia, dimostrando di avere capito che lei non voleva visite intorno alla casa e aspettandola davanti al «Giardino». Amalia sorrideva vedendoselo venire incontro indocile e prenderle il polso. Le faceva persino una certa pena incontrare quegli occhi bassi contriti. Scherzando con Tosca una volta in fabbrica le disse: – Gli manca solo la parola.
Remo aveva presto capito che non le piaceva quand’erano insieme vedersi intorno le facce della barriera. Cosí una domenica la portò a una piscina elegante dove le automobili facevano coda.
Seduti sul mosaico fresco, coi piedi nell’acqua verdastra, fumavano una sigaretta. Amalia guardava le bagnanti e invidiava le linee snelle dei fianchi e delle schiene. Nel suo costume stretto si sentiva un poco tozza, ma ben fatta. Capí che abbronzandosi la pelle mutava l’intonazione coi capelli e che un fazzoletto da testa poteva dir molto. E s’accorse che pochi uomini erano ben fatti come Remo, tanto che guardandolo provò per la prima volta come una fitta nel sangue.
Distesa nella sabbia, occhi chiusi, il sole le pareva piú lucido e stupendo degli altri giorni. Possibile che fosse lo stesso che le aveva bruciato (da ragazza) i polpacci e la nuca nei campi? Disteso accanto a lei, Remo le chiese in un bisbiglio se quella sera avrebbero cenato insieme. Amalia non rispose, ma accettò.
Finirono in una sala dove servivano camerieri in giacchetta bianca. Amalia era indolenzita dalla giornata all’aria aperta e chiese scherzando a Remo se il suo allenamento non ne avrebbe sofferto. Remo rise allora, per la prima volta, mostrando i denti e le disse: – L’allenamento dà la forza, non la toglie –. Quel giorno aveva la camicia col taschino e il fazzoletto.
— Sono una povera contadina, – balbettava Amalia, mentre bevevano vino bianco in ghiaccio. – Non hai veduto dove abito? Mio padre ha piantato il grano intorno alla casa, come se fosse una stalla. Se tu mi vuoi davvero bene, dovresti dar fuoco a quella casa. Dare fuoco al grano, almeno, strapparlo, che non lo veda mai piú
Remo la portò di peso, che rideva, su per le scale di casa sua fino a una soffitta di cui aveva la chiave, e ce la tenne fino alle tre del mattino.
Nei giorni che seguirono, Amalia prese a odiare quella soffitta e la branda di tela e la volta obliqua che, se non si faceva attenzione, ci si batteva la testa. Malgrado la loro nuova intimità Remo non diveniva piú espansivo.
Rispondeva brontolando quando Amalia diceva che sarebbe stato bello andare insieme in Riviera e avere una bella camera e passeggiare sulla spiaggia. Amalia aveva il rimorso di stancare troppo il corpo di Remo prima della corsa, ma capiva che doveva legarselo, innamorarselo, e ormai rifiutarsi non sarebbe piú servito. Bisognava invece abituarlo a lei. Tanto piú che anche lei passava le notti in un formicolio di sudore e trovava la pace solo in quel tuffo che il sangue le dava quando Remo la conduceva in soffitta.
Una domenica andò in motocicletta, appollaiata contro la sua schiena, alla Fontana Fredda, dove c’erano comitive venute da ogni parte. Appena abituata all’incerto equilibrio, Amalia sbirciò le campagne che volavano dattorno, e a guardarle in quel modo si sentiva felice. Ritornando al tramonto, nel sole dorato, premeva la guancia contro la solida schiena di cuoio di Remo e socchiudeva gli occhi nel fuggente barbaglio degli alberi.
Alla Fontana, Remo aveva parlato con un signore vestito di bianco, che gli dava del tu e gli batteva la mano sulla spalla. Era un tecnico della Federazione. La mattina seguente Remo intensificò l’allenamento e decise con Amalia di non fare piú disordini. La sera si trovavano a bere una birra o andavano al cinematografo. Amalia chiedeva ancora se non poteva accompagnarlo in Riviera, la domenica della corsa, ma Remo diceva di no.
A poco a poco lo vide piú di rado – qualche momento prima di cena – perché subito dopo Remo andava a letto, per alzarsi all’alba. Era molto preoccupato dalla corsa e piú silenzioso che mai.
Intanto il grano gonfiava e ingialliva. Scarso com’era, faceva tuttavia un’ondata davanti alla casa che arrivava alla cintura, e il vecchio lo lasciava solamente la notte. Già molti ragazzi aveva preso a scapaccioni perché tiravano pietre nel grano. Amalia emergendone al mattino si vergognava se qualcuno la vedeva.
Una sera che tutta sola usciva dal cinema, le venne voglia di rifare la strada dell’incontro e si diresse al «Giardino». Udí l’orchestra da lontano e solo avvicinandosi godeva il fresco di quelle piante. Ferma dietro la siepe guardò il cemento, gremito, e i tavolini. E vide seduti i meccanici – uno tornava con Tosca – vide Tonino che rideva, e vide Remo. Remo che da tre ore era a letto.
Ebbe una stretta al cuore e lottò per non entrare. Dopo tutto non ballava mica. Perché avrebbe mentito? Non ne aveva bisogno, parlava cosí poco. Aveva forse avuto sete ed era sceso a chiacchierare con gli amici. Ma, passato quel giorno della corsa, non lo avrebbe piú lasciato. Voleva dire troppo, per lei.
Pure, se non avesse avuto vergogna delle occhiate di Tonino e degli altri, sarebbe entrata. S’allontanò indignata, e rincasò guardando appena il grano frusciante. Che soltanto passasse presto quel giorno della corsa!
La ridestò a notte alta uno trepestio e persino un respiro ansimante, dietro la porta. Forse era un cane o un ubriaco. Ma un’angoscia vaga la tenne inchiodata sul sofà, a sbarrare gli occhi mentre udiva un andirivieni, un cigolio – forse il vento – ma il cuore l’aveva come schiacciato dall’orrore e dalla vergogna di dormire in una bassa cucina, dietro una porta, sulla strada, alla mercè di tutti i passanti, come una contadina; di dovere tenere di giugno la finestra serrata perché nessuno entrasse, di essere sola, di sapersi giocata anche da Remo. L’assalse il terrore che la porta non fosse ben chiusa. Ma il disgusto per lo sgocciolio del lavandino nell’angolo, fu piú forte; serrò gli occhi e volle dormire.
Non era certo stata una notte di vento. Il sole non s’era ancora levato, che già faceva caldo. Eppure Amalia asciugandosi davanti alla finestra vide il letto del grano tutto disfatto, abbattuto. Appariva la banchina della strada che ancora ieri le spighe verdigialle nascondevano.
Amalia era sulla porta quando sentí lo strillo della madre alla finestra. Saltarono nel fossato tutte e due – Amalia aveva già il cappello – e videro che gli steli erano spezzati, infranti, buttati alla rinfusa sul terreno scoperto. Qualche spiga perdeva i grani. Un operaio che passava in bicicletta si volse a guardare.
La vecchia – ancora scalza – si stringeva una guancia con la mano, tenendosi il gomito.
— Questa volta tuo padre ci ammazza, – disse rauca.
Amalia alzò le spalle. Si chinò, passò un’altra volta la mano tra gli steli che scoprivano, vicina, la terra biancastra.
— Cosa vuoi che dica? Sarà stato un ubriaco. Non si è mai ubriacato lui?
Se ne andò col rimorso di lasciare sola la madre che gemeva, se ne andò rapidamente, perché cominciavano a passare frotte di operai in bicicletta. A un tratto si ricordò di quello che aveva detto a Remo, ubriaca.
Rincasò a mezzogiorno, senza accompagnarsi con Tosca. Da lontano la catapecchia era la stessa. Le batté il cuore quando vide la striscia devastata: la porta pareva piú nuda.
— Dov’è papà?
La vecchia soffiava dentro la stufa. – È andato a licenziarsi dalla fabbrica. Dice che gliel’hanno fatto pestare loro, per riprendergli la terra. Vuole tornare al paese. Vuole morire di fame. Possibile che stanotte non si sia sentito niente?
— Per due covoni di roba, se c’erano. Costava di piú la semente.
— Vaglielo a dire a lui. Tu hai lavorato, stamattina?
— Ma ritorna?
— È già tornato due volte. Non sa piú dove andare. Ma possibile che tu non abbia sentito niente?
Quando il padre tornò, Amalia evitò le busse tenendo in testa il cappello e posando i guanti sul tavolo. Da scarlatto ch’era entrando, il vecchio a poco a poco si fece flaccido e nervoso, e andò fuori a rastrellare e tornò coi lucciconi e traboccò la minestra sulla tavola. La vecchia taceva.
— Oggi vai alla fabbrica? – disse il vecchio inaspettatamente. Amalia chinò gli occhi nel piatto.
— Lavora per quelle bestie, lavora. Corri a fare la coda. Ingrassali. Ne hanno bisogno di gente come te. Lavora. Di giorno ti fanno lavorare e di notte ti pagano. Vecchia, dove hai messo la zappa?
Amalia scappò alla mezza, per non gridare. Gironzolò nelle strade deserte sotto il sole, mordendosi il labbro, levando il capo quando in fondo al corso passava un tram. A un tratto passò un ciclista, a gambe nude, impolverato: non era Remo.
Sotto il portone della fabbrica Amalia chiese a Tosca di tenerle compagnia quella sera. Girò con lei che andò a comprare il pane, e salirono insieme le scale sporche e si sedettero in cucina a tirare il fiato. Poi Tosca si mise in faccende. Arrivò Tonino che salutò con un cenno d’intesa. Amalia gli rispose un sorriso distratto.
Mentre Tosca sgrondava l’insalata sul balcone, Amalia si alzò e cominciò a disfare il pacco delle uova. Tonino, che si lavava dietro la tramezza, disse allegro:
— Non mi dice nemmeno grazie? – Comparvero gli occhi e i capelli arruffati al disopra del legno.
— Non lo sa che le ho fatto un piacere?
Amalia levò gli occhi.
— Se quest’anno ha da vendemmiare, sono qua –. Tonino uscí in cucina strofinandosi una spalla. La guardò aguzzando gli occhi e sorrise. – Mi hanno detto che prima d’andare in bicicletta, voleva vedere quel grano tagliato. Non mi dice grazie?
Amalia appoggiata al tavolo non comprese subito. Poi le avvamparono le guance e morí il fiato. Saltò alla porta, l’aperse e corse abbasso. Torceva il viso camminando, per nascondersi, e gli strilli dei bambini le giungevano come da una distanza remota, attutiti in un ronzio. Dopo poco che era in casa si lasciò picchiare dal vecchio che, calando la notte, ancora non si capacitava che lei dalla cucina non avesse sentito nulla.

Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Il campo di grano
AUTORE: Pavese, Cesare

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze

TRATTO DA: Racconti / Cesare Pavese. - Torino : Einaudi, [1994]. - 525 p. ; 20 cm.

SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)