Il boa di martora

di
Egisto Roggero

tempo di lettura: 16 minuti


I.

Scoccavano le undici ore all’orologio della vecchia chiesa in fondo alla strada, quando nel silenzio e nel buio s’udì un improvviso tintinnìo di vetri cadenti che s’infrangevano nel selciato e un grido soffocato risuonò nella notte:

— Aiuto!

E in pari tempo una vampata rossastra infiammò la murata di fronte ad un vecchio palazzotto, per solito assai quieto e silenzioso.

La voce – di uomo – ripetè più forte:

— Aiuto! salite!…

Il portinaio della casa di fronte, che aveva chiuso da poco il portoncino, mise fuori la testa dalla sua finestruola e alla moglie, già in letto, che sbigottita lo interrogava, disse concitato:

— Gesummaria! brucia su in casa del signor Pompeo!

E siccome era un uomo piuttosto coraggioso si tirò in fretta dentro per rimettersi le brache e correre su, a dar aiuto.

Ma qualcuno, prima di lui, era stato più lesto a dare aiuto.

Cesare Vanzetti, che aveva la porta del suo quartierino proprio dirimpetto a quello della casa del signor Pompeo, e che era ancora alzato, a quell’ora, nel suo piccolo salotto a discorrere con la sua giovane sposa, aveva notato l’insolito tramestìo nell’appartamento vicino, poi il rumore dei vetri infranti e cadenti giù nella strada, e infine l’urlo rauco e fremebondo.

Era corso all’uscio, aveva aperto, s’era slanciato, sul pianerottolo, contro la porta del signor Pompeo, con due calci poderosi dei suoi ventisette anni l’aveva buttata giù e s’era sentito avvampare il volto da una fiamma densa e caliginosa e mozzare il fiato dal fumo nero ed acre.

Tra quelle fiamme e quel fumo il signor Pompeo s’agitava frenetico come un’anima dannata tra le vampe eterne.

— Son qua io, sor Pompeo, coraggio! – gridò il giovanotto.

Intanto qualcuno veniva a furia su per le scale, messe a rumore.

— Presto, delle secchie d’acqua! – gridò ancora Cesare.

Il signor Pompeo era nel suo studio, davanti alla sua cassaforte aperta a contar de’ denari, quando la lampada da lui posta sbadatamente troppo accosto ad una tenda aveva a questa comunicato il fuoco. La vampa era salita rapida come il baleno a lambire il soffitto, poi la tenda, tutta in fiamme, era caduta sulla scrivania ingombra di carte e vi aveva appiccato il fuoco. In un batter d’occhio, il tempo di vedere e comprendere la cosa, il povero signor Pompeo si era trovato circondato dalle vampe infernali. Si era stretto al seno il fascio de’ suoi biglietti di banca, s’era fatto al balcone, con un pugno aveva fatto cadere i vetri – e una mano gli sanguinava tutta – e aveva gettato giù nella notte quieta e silente i due urli che sappiamo.

Furon portate due, tre, parecchie secchie d’acqua e gettate sul vulcano ardente: che in un momento fu calmato, vinto, reso inerme. Un fumo nero ed acre seguitò ad innalzarsi ancora per qualche tempo da quel cumulo di cartaccie annerite e rese fangose dall’acqua: il pavimento fu tutto insudiciato dalla fuliggine e dalla mota, furon spalancati tutti i balconi per iscacciare il tanfo del bruciato che soffocava; poi fu detto al signor Pompeo, che pallido come un morto e tremante si era lasciato cadere sopra un divano:

— Coraggio, sor Pompeo, fatevi coraggio: tutto è finito.

La cassaforte era rimasta aperta e il signor Pompeo seguitava a tenersi stretto sul petto il fascio dei suoi biglietti di banca che aveva salvato, come un padre sviscerato, dalle fiamme divoratrici.

— Volete un cordiale, qualcosa, per ristorarvi, sor Pompeo?… – gli si diceva intorno.

— No, no, grazie, lasciatemi solo, – badava a dire egli, sempre stringendosi sul cuore il suo affetto; – voglio soltanto andarmene a letto: mi passerà tutto.

Cesare Vanzetti gli disse:

— Se vi occorresse qualcosa, siamo qua, a due passi…. non avete che a bussare.

— Grazie, grazie, – ripetè il signor Pompeo – non ho che bisogno di riposo e grazie a tutti.

E tutti se andarono e lo lasciarono solo.

Cesare Vanzetti fu l’ultimo ad andarsene e vide il signor Pompeo che cacciava in fretta della cassaforte spalancata come una gran bocca, tutto quel fascio di biglietti da cento, da cinquecento e da mille.

Appena anch’egli fu uscito il signor Pompeo sbarrò la porta, e tirò, rumorosamente il catenaccio, poi rassicurò, – poichè era rimasta malferma sui cardini, dopo i poderosi calci di Cesare nel momento dell’incendio, – con una pesante sbarra di ferro.

— Ha paura dei ladri, – mormorò Cesare rientrando in casa sua.

E corse dalla giovane moglie che lo attendeva tutta agitata, ancora nel piccolo salotto color di rosa.

II.

Bisogna sapere che quella sera Cesare era tornato da una bella passeggiata che aveva fatta con la sua giovane sposina lungo le vie piene di gente e di luce nella bella serata invernale, e si erano soffermati a lungo davanti alle vetrine sfolgoranti di luce elettrica e di cose magnifiche.

Specialmente una vetrina li aveva attratti: la giovane sposina Tina in particolar modo. Era quella di un negozio di pelliccerie: ove un bellissimo boa di martora aveva suscitato l’ammirazione della cara donnina. I suoi occhi si erano fermati a lungo nella morbidezza vellutata di quel pelo prezioso, il cui arcano tepore di belva vinta e doma ella intuiva con un delizioso fremito quasi sensuale. Ne aveva parlato allo sposo, di ciò: ed egli aveva riso.

— Come è bello! – aveva esclamato sinceramente ammirata la bella donnina.

E Cesare aveva sentito nel cuore tutta la soddisfazione ch’egli avrebbe goduta se avesse potuto comprare, per farne omaggio alla sua cara compagna, la spoglia di quella strana e selvaggia creatura che dopo morta eccitava in siffatto modo l’ammirazione delle belle signore.

Ma un feroce cartellino (più feroce ancora della belva) posto sopra il prezioso oggetto distruggeva in lui qualunque tentazione dell’omaggio desiato:

«Prezzo netto cinquecento lire

Però, dopo, nel salottino color di rosa, al ritorno della passeggiata, com’erano usi a trattenersi tutte le sere, dopo l’intimo pranzetto, avevano continuato a parlarne, un po’ sul serio, un po’ ridendo.

— Ah! se avessi i bei biglietti del signor Pompeo! – aveva esclamato ad un tratto Cesare.

E aveva pensato che lui, il giovane segretario del barone di E…. lo guadagnava appena appena in due mesi, il danaro necessario per possedere quel bel tesoro villoso e tepido.

Ed era stato giusto in quel punto che aveva sentito quanto avveniva di là, ed era accorso come sappiamo.

Ed ora che era ritornato di nuovo accanto a sua moglie, dopo il salvataggio, aveva esclamato scotendosi di dosso un po’ di fuliggine che gli s’era appiccicata:

— Li ho veduti sai, Tina, i famosi biglietti del signor Pompeo?

Poichè l’immagine del signor Pompeo che si teneva stretti sul cuore, come un padre sviscerato, tutti quei biglietti da cento, da cinquecento e da mille, gli era rimasta impressa nella mente con una strana fissità.

E si fece a descriverlo alla moglie che ne rideva, un poco turbata ancora dal pericolo corso da quel signor Pompeo, malgrado tutti i suoi biglietti, e dall’incendio.

Poi Cesare – sempre mezzo ridendo e mezzo serio – esclamò:

— Tò! un’idea!…

La moglie alzò verso di lui il volto interrogativo.

— Sì, un’idea…. Il signor Pompeo, se non era per me…. che con due calci gli mandavo giù la porta, chissà a quest’ora, in che stato si troverebbe!… Certamente mi sarà grato, non è vero? e penso bene mi vorrà ricompensare!… Forse mi farà regalo di uno – del più piccolo, mettiamo! – dei suoi bei biglietti! Che ne pensi, tu?…

— Mah!… – fece la signora Tina con un accento lungo e molto dubitativo.

— In questo caso io ti fo una bella sorpresa…. tu l’indovini?

— Il boa di martora!

— Come sei pronta ad indovinare ciò che ti è caro! una bella idea, no?

— Sicuramente.

— Vedremo, – concluse Cesare stropicciandosi le mani, – che cosa farà la generosità del nostro vicino e salvato signor Pompeo.

E per quella sera i due sposi se ne andarono a letto.

Venne l’alba a indorare il mattino del giorno seguente, seguì intera la bella giornata invernale che Cesare passò tutta al suo ufficio, lavorando e pensando ai biglietti del signor Pompeo e alla sua generosità; alle cinque del pomeriggio la bella signora Tina andò a prendere in ufficio, come soleva sempre nelle belle giornate, il suo Cesare per indugiarsi, prima dell’intimo pranzetto, lungo il corso e le vie popolate di signore eleganti e di giovanotti gaudenti; venne la sera… ma il signor Pompeo non si fece vivo.

E Cesare non potè a meno di pensare alla strana ingiustizia che regola i destini umani! Lui, giovane, bello, forte, pieno di fantasia e d’ingegno, innamorato e felice sposo d’una cara donnina che lo adorava, costretto a stare chiuso dieci ore in un ufficio buio e freddo per poter riscuotere alla fine d’ogni mese quelle duecentocinquanta lire che non servivano che a pagar l’affitto del quartierino e a non morir di fame; l’altro vecchio, brutto, sporco, esoso, padrone di quelle centinaia di biglietti che davano il mezzo di aspirare l’ebbrezza del sole libero, della gioia, della felicità, della voluttà, della vita bella e luminosa, insomma!…

E invano passò il giorno seguente, e l’altro ancora.

Cesare ne rise: ma il portinaio di fronte, che si era dovuto levare da letto, dopo una giornata di lavoro e di pulizia su per le scale – giacchè il fatto era avvenuto di sabato – cominciò a brontolare, e a parlarne ai vicini, della incredibile avarizia del signor Pompeo.

Le chiacchiere corsero e si moltiplicarono; tanto che ne’ giorni che seguirono l’incendio tutti gli abitanti della strada sapevano che il signor Pompeo, salvato miracolosamente dal pericolo di morire sotto forma di costoletta arrostita, non si era degnato di dare neppure cinquanta centesimi di mancia a quel poveraccio del portinaio di fronte, che nel cuore della notte, e in pieno dicembre, aveva arrischiato una polmonite per correre su, mezzo in camicia, a gettare delle secchie d’acqua sull’inferno che divampava intorno al ricchissimo e sordido signor Pompeo.

III.

Ma queste chiacchiere pettegole furono ben presto offuscate da un fatto terribile che venne a gettare lo sgomento e il terrore in tutto il quartierino sino allora sì pacifico e tranquillo.

Ecco che cosa avvenne.

Erano passati più di quindici giorni dal fatto del famoso incendio, quando una sera la signora Tina, svegliandosi improvvisamente nel cuore della notte, sentì il posto vicino a sè vuoto.

Tastò due o tre volte con la mano per sentire il consorte, poi invasa all’improvviso da un un folle terrore, si mise a gridare:

— Cesare! Cesare!…

Ma il marito comparve subito sulla porta, in sole mutande, pallido e molto agitato.

— Eccomi qua, eccomi, cara, – rispose egli a bassa voce.

La signora, sempre sbigottita, mormorò:

— Dove sei andato?

Ma Cesare rispose:

— Non hai dunque sentito nulla, tu?

La signora Tina rispose:

— Io, no…. dormiva.

— Non hai sentito nulla?

— No; ma che è stato dunque?

Cesare rispose:

— Sono stato svegliato da un grido…. pareva venisse di là, nella scala.

— Sei stato a vedere? – mormorò la signora tremando.

— Sì…. e non ho sentito più nulla.

— Forse avrai sognato…. – mormorò la giovane signora.

— Oh no…. è stato un grido terribile!

— Vieni a letto, vieni a letto, – si mise a gridare la povera signora Tina terrorizzata.

— Vengo subito, non aver paura, – mormorò Cesare.

E si cacciò sotto le coltri.

Ma egli tremava come una foglia: ed era tutto di ghiaccio.

— Che sarà mai stato? – mormorava.

— Avrai sognato, – badava a ripetere la signora Tina, vinta però suo malgrado da un misterioso terrore.

— Era un grido terribile, – ripetè Cesare, sempre turbato.

La signora Tina, stretta a suo marito, finì per addormentarsi.

Ma Cesare rimase tutto il resto della notte sveglio, agitato da uno strano fremito febbrile.

Il mattino dopo, all’alba, una forte scampanellata all’uscio del quartierino li fece sobbalzare, ambedue.

Cesare si vestì in fretta e corse ad aprire.

La scala era piena di gente.

Quando Cesare si presentò alla porta uno spettacolo orribile gli si fece alla vista.

Il signor Pompeo livido, spaventoso a vedersi, giaceva sgozzato sul pianerottolo.

Giaceva a mezzo fuori dell’uscio, in camicia: un’orribile ferita gli squarciava il collo; il sangue aveva invaso tutto il pianerottolo ed era colato giù per gli scalini, e lambiva la porta del quartierino di Cesare.

Egli retrocesse inorridito, pallido più del cadavere.

Il morto, con le braccia larghe, sozzo di sangue raggrumato e nerastro, il volto sollevato, gli occhi aperti e vitrei, pareva guardarlo con orribile fissità.

Dietro a lui veniva la signora Tina. A quello spettacolo ella non resse: mandò un grido straziante e cadde dietro riversa, svenuta.

IV.

— I ladri! – fu la voce unanime.

Difatti il signor Pompeo aveva fama di molto danaroso e avarissimo. La cassaforte fu trovata aperta e vuotata completamente.

Nessun dubbio era possibile: uno o più ladri si eran introdotti in casa del signor Pompeo, nel cuor della notte; lo avevano freddato, poi avevano svaligiato la cassa. Cesare, davanti al giudice, ripetè ciò che in quella notte tragica aveva detto alla moglie, cioè il grido che lo aveva svegliato e lo aveva riempiuto di terrore.

Furon fatte delle indagini: fu arrestata qualche persona sospetta; ma nulla approdò a qualcosa di decisivo: gli arrestati furon rilasciati, e sul delitto si distese, buio e impenetrabile, un fitto velo di mistero.

Però da quel giorno il terrore si fece padrone del gaio quartierino di Cesare Vanzetti.

La signora Tina fu presa da un folle terrore di stare sola, nelle ore in cui Cesare era in ufficio.

La notte poi tanto lei che Cesare non potevano più prendere sonno.

L’immagine spaventosa del morto signor Pompeo era in mezzo a loro; si agitava viva e tremenda in ogni angolo del gaio quartierino, già nido così lieto e ridente dei loro amori.

Nulla poteva scacciarla.

La signora Tina s’era fatta pallida e malaticcia: niente poteva richiamarla più alla serena giocondità della sua passata vita di sposina modesta ma amata e tranquilla.

Nemmeno quando Cesare, un venti giorni dopo il terribile fatto, venne un bel mattino a casa seguito da un fattorino che portava una scatola bianca ed elegante.

— Una sorpresa per te, – esclamò egli sorridendo.

E ne trasse fuori delicatamente, la sorpresa….

La Tina mandò appena un’esclamazione più di stupore che di gioia e di piacere.

Era il boa di martora! il magnifico boa la cui morbidezza aveva fatto sognare, in una non lontana sera di pace e di serenità, la bella signora.

La sposina lo palpò, lo accarezzò poi, all’improvviso, un pensiero le fe’ ritrarre sbigottita, quasi con ribrezzo, la mano.

Alzò gli occhi turbati in volto al marito.

Anche lui, contemporaneamente, era stato colpito dalla stessa idea.

— Il boa…. che avrebbero dovuto comprare con il regalo del signor Pompeo.

Rimasero ammutoliti e turbati ambedue.

Poi Cesare spiegò:

— Questa mattina il barone di E…. che si è fidanzato ha voluto lasciare un ricordo di questo giorno a tutti i suoi impiegati; e non ha dimenticato naturalmente anche me.

La signora Tina andò a riporre in un armadio il prezioso boa.

Però l’immagine del signor Pompeo – come per tutto il resto, ormai, là dentro – si unì da quel momento anche al boa.

Ogni qual volta la signora Tina se ne cingeva il collo sentiva come un vago ribrezzo serperle intorno, e la faccia spaventosa del signor Pompeo sgozzato le si presentava subito con la terribile evidenza di un incubo.

Tanto che quell’oggetto finì per aggiungere una causa di terrore ai tanti che già la tormentavano.

E Cesare dovette finire per decidersi di cambiar casa, onde fugare in qualche modo le ombre paurose che dopo il tragico fatto lo avevano invaso.

E il bel quartierino gaio e sereno, dove tante belle ore felici di amore eran trascorse, fu abbandonato in una triste giornata cupa e piovosa del marzo; e Cesare e la sua sposa si trasferirono in una grande casa dei nuovi quartieri.

Tanto più che ora le cose pareva andassero molto bene per lui; le entrate erano notevolmente aumentate, egli faceva regali costosi alla sua Tina per tenerla allegra e divagarla dai folli terrori che la turbavano; la portava spesso a fare gite in campagna, le fece fare qualche viaggetto, le comprò dei gioielli, e le mostrava il portafoglio guernito di bei biglietti che pochi mesi prima ancora pareva a loro un sogno possedere….

V.

Eppure nella nuova casa le ombre paurose non parvero essere svanite.

La signora Tina nel cuore della notte si svegliava improvvisamente in sussulto; e trovava vicino a lei il marito sveglio, fremente, agitato, tutto coperto di sudore freddo, che batteva i denti per un incognito terrore.

La casa era bella, ora, adorna di ricchi mobili, di belle tappezzerie, di gingilli, di cose graziose, poichè, come s’è detto, egli ora guadagnava molto di più; ma una inesorabile aria grigia pesava su tutto quelle belle cose.

Nessuno dei due aveva mai più nominato il signor Pompeo, nè fatta parola alcuna che ricordar potesse il lugubre dramma della vecchia casa.

Eppure quel dramma, quella immagine di morte, viveva perenne nella vita dei due giovani sposi.

L’assassino che aveva tolto la vita e rubato i bei biglietti a quell’infelice signor Pompeo, aveva anche tolto inesorabilmente la tranquillità e la calma nella famigliola di Cesare Vanzetti.

Ambedue vedevano sempre quella testa di morto – orribile! – con la gola recisa e gli occhi spalancati, davanti alla loro porta, ove l’assassinato si era gettato forse per chiedere un ultimo aiuto che essi non avevano potuto dargli…. Quella testa, quella visione, quel morto era sempre là, davanti ai loro occhi, vivo, eterno, spaventoso.

In quanto al prezioso boa, comprato in quei giorni funesti, la signora Tina lo aveva nascosto nel più profondo d’un armadio, e provava terrore solo ad avvicinarsi al cassetto che lo serrava.

Ma una sera – una triste sera di dicembre che era l’anniversario preciso della notte fatale – la signora Tina fu spinta, quasi inconsapevolmente, a trarre fuori dalla custodia ove era rimasto sino a quel giorno il bellissimo boa.

E, siccome dovevano, lei e lo sposo, recarsi a teatro, ella se ne cinse il collo.

Appena lo scorse Cesare impallidì.

— No, no, – disse con voce rauca.

E, poichè la moglie lo guardava meravigliata, egli esclamò:

— Non lo mettere, te ne prego.

La moglie alzò sopra di lui i grandi occhi scuri.

— Perchè dunque? – mormorò semplicemente.

Egli rabbrividì tutto e abbassò gli occhi.

E non disse altro.

Ella mise il boa e lo recò a teatro.

Per tutta la sera egli restò cupo, taciturno, agitato.

Ritornati da teatro la donna posò il boa morbidissimo sopra una poltrona in fondo alla vasta camera, di fronte al letto.

Cesare pareva sempre agitato e convulso, e non riusciva a prendere sonno.

A un tratto la moglie ruppe il silenzio della notte e disse:

— Perchè, dunque, non volevi che mettessi il boa di martora?

Cesare non rispose.

— Perchè, – continuò la donna, – esso ti fa dunque tanta paura?

Cesare taceva ancora.

Ma la moglie sentì che rabbrividiva tutto, accanto a lei.

— Perchè dunque, perchè? – ripetè.

Un filo della luce della strada entrava dalla imposta malchiusa del balcone.

Il boa posato sulla poltrona appariva rischiarato dalla sottil fascia luminosa.

Cesare lo vedeva, lo guardava e taceva.

A un tratto si alzò a sedere sul letto.

Alla moglie apparve nella penombra bianco come un cadavere.

Egli alzò le braccia, tremante, ed esclamò con voce strana, profonda, da lei mai udita:

— Ah, tu dunque vuoi saperlo, vuoi saperlo?

E come lei taceva allibita, egli continuò:

— Tu vuoi dunque saperlo il perchè del mio continuo terrore, del folle turbamento che mi consuma, che mi uccide, che mi fa impazzire? Giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto, da un anno intero? Lo vuoi tu, dunque sapere una volta?… giacchè io sento che tu, come tutti, non lo sospetti perchè forse lo sai….

La moglie taceva spaurita.

— Ebbene te lo dirò.

E Cesare, pazzo ormai, fuori di sè, continuò:

— Sì, te lo dirò, poichè debbo dirtelo, poichè devi saperlo, tu almeno, tu, una volta! Ebbene sappilo, sì, sono io che l’ho ucciso, quella notte, ricordi? Quella notte, quando mi hai veduto in mutande!… Quando mi hai chiamato! Io aveva finito in quel momento di ucciderlo! Io avevo soffocato il suo ultimo grido, il suo ultimo rantolo! Dio com’era terribile, come era duro a morire quel disgraziato! E l’ho ucciso. Io, capisci, io! E questa casa, questi mobili, i gioielli che ti ho regalati, le tue vesti, questo letto, tutto, tutto quanto ti circonda, io l’ho rubato…. capisci? l’ho rubato in quella sera, a lui! Ora comprendi dunque, tu, una volta finalmente? Lo comprendi, dunque, lo comprendi?…

Cesare parlava ancora, alto, rigido, spettrale, nel buio della camera silenziosa e la moglie atterrita lo ascoltava come in sogno.

Poi egli, folle di spasimo e di rimorso, si gettò verso lei quasi per cercar ricovero nelle sue braccia fide….

Ma quelle braccia fredde, si levarono rigide e lo respinsero, in un moto folle e convulso di terrore e di orrore.

Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Il boa di martora

AUTORE: Egisto Roggero

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

TRATTO DA:I racconti meravigliosi / Egisto Roggero. - Milano : La poligrafica, 1901. - 257 p. ; 20 cm.

SOGGETTO: FIC000000 FICTION / Generale