Il Blues delle Cicche
di
Cesare Pavese
tempo di lettura: 17 minuti
Masino – altrimenti, Tommaso Ferrerò – aveva un posto in un giornale di Torino, che lo soddisfaceva pienamente. Bisogna però dire che non è difficile essere soddisfatti del posto nel giornale quando si ha l’età di Masino – ventiquattro, venticinque – e l’esagerata adattabilità ai fatti esterni, che aveva lui. Non parlo ora di quelli intimi, che è tutta un’altra cosa. Comunque, si aggiunga che il lavoro di redazione – allegra tortura del giovanotto – gli lasciava quasi sempre tutta la mattinata per andare in giro o stare in casa, lavorare o far nulla, essenzialmente per godersi il risveglio e lo spettacolo della vita che riattacca, e si concederà che Masino era uno di quei giovanotti scapati che, forse non accorgendosene nemmeno, sanno crearsi stati magnifici pieni di avventura e di interesse e – questo è il bello – senza nessun bisogno, per farlo, di uscire dalla gran struttura macchinale della vita d’oggi. Al loro posto gente piú anziana troverebbe solo da bestemmiare e da guastarsi l’anima rimpiangendo i tempi passati. Noi invece, ci adattiamo come un pendolino e stiamo allegri, che è poi l’essenziale.
Masino, dunque, si svegliò una mattina tutto pieno di energie e ascoltò con profonda compiacenza il frastuono di automobili e di tram che, per la finestra aperta allora, gli saliva attraverso la nebbia pungente della strada, fin nella camera tutta in aria. Dopo un breve scambio di vedute con quei di casa che lo vennero a assediare per quel diritto ormai acquisito di ripulirgli la stanza e fargli il letto tutte le mattine, Masino capitolò da uomo che era, abbinando la ritirata coll’altra grande voluttà cosmica d’inondarsi d’acqua e tastarsi i muscoli. I soliti brani di velleità mattutine cominciarono intanto a passargli per il capo. Ma qualcosa di diverso c’era quel giorno. Magari qualcosa di piú definito. Masino fischiettava ogni tanto, segno che a spilluzzico meditava.
E questo qualcosa gli fu chiaro in testa quando, con un passo da appuntamento fallito, fece le volte davanti all’uscio della camera, vociando a tutta la casa di dargli l’accesso e lasciarlo tranquillo.
Ed eccolo finalmente seduto a un tavolino nel freddo frizzante, chiusa allora la finestra. Il rumore dei tram giunse piú soffocato. Sul tavolo c’era qualche libro e un fascio di bozze: Spettacoli e Didascalie.
Masino fumava e pensava. L’idea, ormai afferrata interamente, era semplice e grande: fare una canzonetta. Né per pubblicarla né per leggerla in giro. Fare una canzonetta. Una specie di bisogno fisico.
Naturalmente, per bravo ragazzo che fosse, Masino non era tanto scemo o inesperto da alzarsi un mattino e mettersi a fare il poeta cosí di testa, come ci si mette a scrivere una lettera di ringraziamenti. Qualcosa aveva già in mente Masino, una specie di avventura e di filosofia allegra, ma spiegarli questi precedenti non è semplice e del resto sarebbe inutile. Basti che, qualunque fossero stati quei precedenti, da qualche tempo e specialmente in quella mattina Masino era convinto di non essere fatto per vivere insieme a una donna. E non si parla ora di moglie o di figli: neanche di un’innamorata da passeggiare alla sera chiacchierando e sbaciucchiando per ingannare il tempo, Masino sapeva che farsi. E forse il motivo che si seccava era proprio questo, che s’immaginava la bella come una cosa da ingannare il tempo, mentre la sola donna che conta è quella che ci lega mani e piedi, ma allora c’è l’altro inconveniente della schiavitù e insomma Masino non ne voleva sapere. Avesse o no torto in queste sue idee, Masino in una cosa era bene fondato: non aveva mai fatto il deluso o lo scettico e tutto il resto, come tanto usava dopo la guerra. Aveva anzi al proposito tutta una teoria Masino, che lui era un piemontese, che i piemontesi non si sono ancora rivelati abbastanza e che colle donne i piemontesi debbono essere teste quadre e smaliziate. Citava volentieri che, quando in una famiglia della provincia piemontese il figlio porta in casa una nuora, prima cosa che pensano suoceri e figlio è di mandar via, per riduzione di personale, la servente che possono avere. Così stando le cose, Masino non aveva mai scritto una canzonetta da dopoguerra, perché era invece intento a un’impresa migliore: conoscere bene ed amare, bevendoci sopra ogni tanto, la sua razza.
E a vederlo, la mattina di cui si parla, seduto nella sua stanza fumando, canticchiando e fischiando da farsi ronzare le orecchie, non pareva un deluso dell’amore e tanto meno della vita. Eppure sul foglio aveva scritto: «Il Blues delle Cicche». Blue. vuol dire malinconie e Masino lo sapeva. Com’era dunque?
Qui c’è un’altra teoria che s’allaccia alla prima sul Piemonte, e talmente s’allaccia che è difficile vederci un po’ chiaro. Nemmeno Masino del resto sapeva bene che cosa intendesse ed è meglio perciò rimandare la cosa a un momento che lui stesso la spieghi.
L’ultima sigaretta, che Masino fumò in casa quella mattina, fu guardando fuori della finestra, dove la nebbia d’ottobre aveva ormai lasciato un bel cielo dolce e pulito e quasi tiepido. Davanti, sul tavolo, gli stava il ritornello del blues finito. Si comincia sempre dal ritornello. Masino se lo godeva fantasticandoci su. Niente di piú bello che star a fumare davanti un lavoro proprio appena questo è finito. Ogni tanto gli dava un’occhiata. Ecco qui il ritornello:
Butta la cicca, ce n’è ancora tante,
cosa ti fermi a guardare all’in su?
e se ti pianta la bimba o l’amante
ce ne son cento che valgon di più.
Tutte le cicche si lascian fumare,
tutte le donne han la stessa virtù:
è molto peggio dover lasciar stare
quando le cicche non tirano più!
Masino non stava piú nella pelle e aveva bisogno di muoversi, di uscire, di vivere, se esprimo quel che voglio dire, la sua canzonetta. Gli venne finalmente un pensiero. Il caffè del varietà era tranquillo a quell’ora e ci si sarebbe potuto lavorare. Cambiar posto era necessario. E si rivestí in furia, con una lontana idea che in quel caffè ci bazzicavano i cantanti e i musicatori.
Cominciar le cose è sempre facile, finirle bene è un’ira di dio. È questa una regola tanto universale che a dirla sembra una sciocchezza. Ma comunque, cosí pensava Masino, imprecando tra i denti e rompendosi la testa a costringere nei versetti obbligati di un couple. una qualche avventura che si potesse concludere col suo ritornello.
Nel caffè non c’era nessun avventore e un cameriere in bianco con una gran faccia seccata stava maltrattando la macchina espresso. Nella foga dello sforzo cerebrale, intanto, Masino si lasciava sfuggire a mezza voce frammenti di motivi improvvisati. Tanto bastò.
— Côme ch’a l’è la stagiôn st’an sí? – gli chiese a un tratto il cameriere.
— La stagiôn?… Ah, cantô pa mi, – sbottò Masino seccato e contento che qualcosa lo distraesse dal martirio. – Giornalista. – E poi, va a saper perché, concluse: – Musica d’enne enne.
Il cameriere ch’era pratico, capí quello che un altro non avrebbe capito e gli venne al tavolino. Poi, con aria discreta: – A l’è dispost chiel a travajè ’n socio a fè ’d canssôn?
— Secônd.
— Ch’a senta: mi j lô rangiô con ’n maestrô… ’N tripôlin: Ciccio aggio a compo’ ’na grande canzone! A cerca un diverss dai solit, sa ben, ’na perssôña pi istruija. Chiel a me smja lon. A l’è ’n maestrô nominà. Maestro d’Afffitto. A l’a fait la musica… saj pi nen ’d cosa.
A Masino piaceva far l’uomo d’affari astuto. Chiese quindi con un’ingenuità impressionante: – E chiel aj gôadagna môtô bin anssima? – Il cameriere non rispose ma andò fin dietro al banco, passò uno straccio su un rubinetto e poi si degnò: – Si j l’aveissa da vive mach ’d côla rendita lí, j staría fresch.
Masino rimase un momento imbarazzato.
L’altro non parlava e lui non sapeva cosa dire.
— A l’è ’d Napoli ’s Ciccio sí? – chiese poi malsicuro.
Il cameriere sorrise: – Ch’aj lô ciama a chiel, – concluse. – A l’è sí ch’a riva.
Entrava infatti un tale enorme con due occhi astuti sepolti nel grasso. Si sbottonò il pastrano e sì sedé al primo tavolino soffiando: – Salute a tutti! Oh Ciccio, quel tonico che sai.
Masino lo guardò attento mentre Ciccio si dava da fare alla macchina espresso. Nessuno parlava.
Ricevendo il caffè l’uomo grasso cominciò: – Sempre mi tocca d’incontrare l’italo-napoletana…
— Maestro, – lo interruppe il cameriere. – C’è qui il signore che mi avete chiamato. Scrittore che vi può servire la canzone…
Il maestro volse gli occhi a Masino e bonariamente: – Lo vidi all’entrare ch’era lui. Be’, cosa mi dite, giovanotto?
Masino stava appunto pensando: «Se non mi sveglio, qui passo per fesso» e genericamente, mentre Ciccio si ritirava, accennò alle proposte di quest’ultimo, accennò alle proprie qualità di scrittore e ammise che l’arte popolare della canzonetta poteva interessarlo.
— Canzonette? ’A canzone! – lo fermò il maestro. – Noi non facciamo canzonette, so’ roba commerciale: cerco no poeta che mi sappia fare la grande canzone, la canzone italiana… Siete poeta?
— S… s… sí, ma bisogna intenderci sul genere e su che cosa dobbiamo lavorare. Se musica e parole son d’un diverso stato d’animo… voglio dire, sentimento… Bisogna che la musica risponda alle parole –. Masino che cercava di parlar popolare era uno spettacolo ghiotto.
Replicò il grassone: – Come? So’ le parole che debbo’ rispondere alla musica, giovanotto! Generi poi, si sa, ce n’è due, la canzone e la macchietta, ma u sentimento è uno solo, u sentimento…
— Io avrei appunto in mente, – s’arrabattò Masino, – di far qualcosa che non fossero né macchiette né canzoni, qualcosa di moderno, qualcosa di piú schietto che dica in forma popolare le cose che si sentono oggi.
— Capisco, capisco, – dichiarò il maestro pensoso, – qualcosa de artistico. E faccia quindi la canzone: la canzone non è solo poppolare, è anche artistica.
Era il caso, se fosse stato agosto, di asciugarsi i sudori. Masino tornò all’assalto.
— Non mi sono spiegato, – assentimento del maestro. —Le dirò: io vorrei che, come la musica si è rinnovata ai nostri tempi, si rinnovassero anche le parole. Sa, le parole sono il corpo della canzone, – sorpresa, – come la musica ne è l’anima, – approvazione. – Penso a parole che rispondano interamente allo spirito della musica d’oggi: sa un fox non è piú un valzer e un blues, – disse proprio blu., – non è piú una romanza. Veda il jazz… – disse proprio il giaz…
— Ah il giazze, il giazze! ma ne avete già fatte di parole per giazze? – Il maestro ebbe un sogghigno beato. – E chi vi diede la musica?
Qui Masino vergognoso dovè confessare che era nuovo al mestiere. E quasi quasi temeva una sfuriata. No. Il maestro ne fu invece incantato. – Siete vergine. Cerco no poeta vergine, io. La canzone vol l’animo sensibbile. Andate al caso mio.
Masino piemontese friggeva. Si buttò di nuovo al «giazze». – In questo dobbiamo imparare dall’America. Lei ha sentito qualche canzonetta di film?
— Non mi parlate del filme sonoro, giovanotto, che affama i musicisti. L’America, l’America! Siamo noi che abbiamo fatto l’America. Siamo tutti napoletani laggiù –. Non aveva mica torto. – Che vole? ’A melodia è nostra.
Masino pensò di rispondergli che l’Italia purtroppo non è l’America, ma si accorse che prima di tutto si sarebbe data la zappa sui piedi e che poi, almeno le apparenze, per esempio in quel caffè, dicevano che anche «Turine» era piuttosto «am-fibbia».
Comunque volle tagliar corto.
— Ad ogni modo lei, maestro, vorrà avere un saggio di quel che so fare prima di lavorare con me. No, maestro?
— Giusta idea. Venite da me alla pensione. C’è no pianoforte laggiù.
— Sí, ma qualcosa dovrò ben prepararle. Che cosa mi consiglia?
— Giovanotto, se vol lavorare con me, ’a prima cosa è l’ispirazione. Lei faccia quello che crede. Se poi io lo sento, affare è fatto.
— Maestro, mi dovrebbe dare un saggio della sua musica… Per affiatarci, dico.
— ’A mia musica? Ma se sona, la mia musica. Sa, cedo tutto al prestanome perché mi tocca compo’ cose commerciali…
(Attesa di Masino).
— …Vole no titolo? ’L famoso «Tango de la nui». Sí. Quello è mio.
Presto nel pomeriggio Masino aspettava su un angolo, occupazione non prevista nella mattinata, ma che fa parte, come tutte queste cose, dell’unica avventura che gli accadde quel giorno. Del resto, cosí pensava anche Masino e l’imprevisto appuntamento gli avrebbe servito non solo a passare il pomeriggio, ma ancora ad altro che a suo tempo sarà chiaro anche troppo.
Un biglietto in una calligrafia nota e sgrammaticata l’aveva chiamato e lui pronto, là in attesa. E qui non serve confondersi al ricordo che Masino doveva seccarsi a passeggiare colla bella. Qualunque maschio, per nemico che sia delle donne, non sa resistere alla tentazione di sperimentare nella realtà il suo odio contro di loro. Odio e amore hanno detto che si somigliano e cosí in definitiva il campione si comporta come se non le odiasse affatto.
Ma non Masino. Masino quel giorno fu impeccabile e osceno e vigliacco. E se la racconto è perché un po’ tutti si somiglia a Masino.
Con solo cinque minuti di ritardo arrivò la ragazza. Vestita anche bene, per una commessa che era. S’incamminarono, lui alto e trasandato, lei con un paltoncino bruno e un caschetto di feltro. E s’eran stretta la mano pieni di confidenza.
— Come va, bambina?
— Son contenta, hai potuto venire?
— Come vedi.
Erano sotto i portici. Masino chiese come mai quell’appuntamento improvviso. – Ero sola, – gli rispose sorridendo la ragazza, – tanto sola. Non ci siamo mai piú veduti. Ti ringrazio che sei venuto, piccolo caro –. Masino passò sopra al piccolo caro. Aveva già altre volte protestato contro l’epiteto, tanto che ora la ragazza lo diceva ridendo, con intenzione.
— E ben, Daina, dove andiamo?
— Non so, dove vuoi –. Dina si chiamava, ma Masino aveva per massima di mutare il nome alle belle, come un segno di possesso e un ricordo che le facesse fantasticare quando lui non c’era. Da Dina, Daina, scritto Dinah, inglese. Tanto bello. Non sempre però riesce.
— È strano, Daina, no, che noi c’incontriamo solo una volta ogni tanto, un giorno o due, e poi stiamo dei mesi senza vederci? Ricordi l’ultima volta, quel prato?
Dina ricordava. Abbassò il capo con un sorriso ambiguo e si strinse di piú al fianco di Masino. – Va’ là, va’ là, – disse al compagno. – E quella sera in barca, dici niente? – Quella sera in barca per poco non erano finiti tutti e due nel Po, tanto rollio i loro abbracci avevano impresso al legno.
Dopo un silenzio Masino uscí fuori: – Contami su, che cos’hai fatto di bello in questi giorni. Sola, eh? – aggiunse con un sorrisetto furbesco.
— Sí, sono sempre stata sola. Non uscivo quasi mai. Da quella volta dell’ingegnere, piú niente.
— Non mi hai mai contato bene la storia dell’ingegnere, Daina. Com’è stato, su?
— Cosa vuoi che sia stato… Ma dove andiamo?
— In un bel posto, Daina. Chiudi gli occhi e racconta. L’ingegnere…
— Tutto qui, l’ingegnere aveva l’automobile. Mi ha fatta salire una volta e siamo andati in collina.
— E che cos’avete fatto in collina? – chiese astutissimamente Masino. Del resto, quelle eran tutte moine, poiché null’altro li univa, Masino e Dina, che il ricordo di un’avventuretta carnale una volta o due e un po’ di un qualcosa non ben definito. Ma quel giorno Masino sentiva, come dire, la nostalgia dell’avventuretta e voleva spiegata la storia dell’ingegnere non mica per gelosia, ma perché quello era un mezzo di entrare nel solletichevole argomento. Quando si è giovani, si sa.
Difatti Dina, stupendosi molto: – Ma niente, caro, – e poi con un tono pentito, tra il sorriso: – neanche quello che ho fatto con te.
— Grazie, Daina, – tentò di dire Masino, ma, per la dignità della razza, un’automobile minacciò di travolgerli all’uscita dei portici e lui potè perder la battuta.
— Davvero, sono sempre sola, – riprese Dina, – certe volte piango.
— Eh! eh! – fece Masino. – Dovresti cercare di sposarti… piccola cara.
Dina non sorrise a questo. Erano in una strada deserta ora e Masino sentí il solito dovere: dare un bacio passionale e disinvolto, noncurante degli eventuali passanti: era quello il gesto che l’aveva reso simpatico a Dina la prima volta. Eseguirono, una, due volte; le mani fecero la loro strada, poi Dina si staccò. Scosse l’abito e pensò al rossetto. Masino teneva lo specchio. Ma Dina era assorta:
— Con chi vuoi che mi sposi? Ormai sono stata troppo con gente fine, te, l’ingegnere, non saprei adattarmi alla vita della mia classe. Chi posso sposare? – Questo discorso era lento e interrotto dai ritocchi alle labbra, ma piú dalla penosità della confessione. – Chi posso sposare? Un muratore? E poi? Che vita faccio? Non posso piú stare con un operaio. Mi batterebbe, non avrebbe finezza, non potrei.
— È mica detto che sposi un operaio, – cercò di intromettere Masino. – Quanta gente c’è al mondo: chissà chi puoi trovare! – E senza compromettersi voleva sottintendere nelle parole chissà che significato, ma si sentí soltanto ridicolo. La bella baldanza dell’inizio se n’era andata. Dina, senza saperlo lo aiutò:
— Voglio raccontarti una cosa che mi è successa. Non te l’avevo mai detta. Sai quel tale che mi ha salutata quella domenica, in barca? È l’amico di uno che ha un mucchio di soldi. Sono in due con questo qui: sono furbi. Un giorno ci siamo trovati tutti quattro, siamo andati al caffè. Uno dei due parlava col milionario. L’altro mi diceva che il loro amico era ricchissimo e stupido, che non aveva mai avuto donne. Mi faceva capire che se io lo innamoravo, c’era da guadagnare per tutti tre. Poi mi hanno invitata a salire nella loro garçonnière. Quello ricco mi stava già dietro, ma non osava dirmi niente. Nella garçonnière facevano tutto gli altri due. Ci hanno dato il tè e le paste. Io chiacchieravo e ridevo, ero allegra. A un certo punto quello della barca ha cominciato a abbracciarmi e baciarmi, sai? Voleva che mi togliessi il vestito. Io non ho voluto e allora si son messi in due a pregarmi e a minacciarmi. Quello ricco stava zitto. Io allora sono ricorsa a lui, ho fatto la donna forte, sai, e lui mi ha fatto uscire.
— Ebbene ho veduto gli altri due un giorno e hanno cercato di accompagnarmi. Io non ho voluto e loro mi hanno detto che sono una stupida. Che con quello che ho fatto potrei anche farmi sposare dal milionario. No? Potrei farmi sposare se volessi. Ebbene non mi piace, non lo voglio. Pensa se vorrei un muratore…
Masino ascoltava e non voleva confessarselo, ma il pensiero di Dina in una camera in procinto di spogliarsi, in quel momento lo agitava. Fermò un proposito che aveva in mente, poi cercò di metter parole:
— Quelli sono stati piú che dei mascalzoni, degli stupidi. Non è cosí che si fa, vero Daina? – con un sorriso. – Ma godere un po’ la vita, è un’altra cosa, no? – e tentò un altro sorriso.
Anche Dina sorrise – in un modo un po’ scialbo – e si strinse al suo braccio. Stettero un po’ in silenzio, toccandosi stretti.
— Vieni con me oggi, Daina? Ti conduco in un bel posto.
— Dove?
Masino cercò le parole.
— Staremo un po’ soli. Non ti piace, Daina? Come quella volta in barca, – e se la strinse di piú al fianco.
— No oggi, Masino, non voglio oggi. Usciamo insieme. Andiamo al cinematografo.
— Perché Daina? Ci vediamo tanto di rado. Su, vieni.
— No, Masino, no. Stiamo bravi.
— Perché? C’è degli impedimenti? – con un sorrisetto a doppio fondo.
— Non sono gli impedimenti. Oggi non voglio. Parliamo insieme. Ti vedo tanto di rado.
— Ma possiamo parlare insieme anche là. Saremo piú soli.
— Masino, poi non ci vediamo piú. Non serve a nulla. Oggi no.
— Via, Daina, buona, vieni.
— No, Masino, – la ragazza fu energica, – piuttosto torno a casa subito.
Masino comprese che quel giorno era inutile. Quel giorno Daina voleva parole. E lo soffocò un’ira contenuta che il poco conto in cui teneva l’avventura gli moltiplicava. Per un capriccio, nulla piú di un capriccio. Questo, lo esasperava.
— E torna a casa, allora, – ribattè allontanandosi. – E vatti a far fottere da un altro.
Dina rimase un attimo immobile, emise un oh! che parve un gemito e se ne andò quasi correndo.
Masino aveva fatto i couplet.. Stava seduto al caffè fumando e aspettava il don Ciccio. Poiché la mattina, tira tira il maestro aveva accettato le proposte di canzonette moderne (i blues!) e la sua idea fissa della canzone si era rivelata niente piú che un’idea fissa entrata in quell’anima sensibile a rifarla dei torti dell’esistenza.
Col capolavoro in tasca Masino aspettava. E mentre si aspetta si può sentire questi couplet. che del resto sono essenziali alla storia.
Il primo è generico:
Quante donnine per strada c’è
che sembrerebbero sogni d’amore,
ma se le fermi, povero te,
allora subito senti l’odore;
tu te le vedi tutte virtù
girare l’angolo se un uomo ammicca,
ma appena sono a tu per tu
quelle gli dicono: – Dammi na cicca.
E segue il ritornello che si sa.
Ma il secondo, il secondo è il delitto.
Ci son poi donne fatte cosí
che è una delizia fumarle un giorno:
baciale in bocca o giú di lí
ma tosto levale da starti intorno.
Come una cicca spenta a metà
quelle ti serbano un brutto sapore
sta’ attento allora, per carità,
non devi illuderti che ci sia amore.
Questo aveva potuto fare Masino.
Finalmente entrò il maestro. I due si salutarono e s’incamminarono verso la pensione.
— Giovanotto, avete lavorato? – chiese don Ciccio vedendo l’altro imbarazzato a parlare.
— Ho provato un blues, – e trasse di tasca il foglio.
— Vedremo, vedremo, – ribatte l’altro. – Al pianoforte. Anche il blusse è robba artistica. Siamo quasi giunti.
Come Dio volle arrivarono. Salirono la solita scala impossibile e finalmente furono in un camerone, freddo, pieno di cose eteroclite. Un letto, un paio di mutande appese in aria, una chitarra alle pareti e montagne di spartiti musicali da ogni parte. C’erano poi oleografie intorno alla chitarra.
— State comodo, comodo, – cominciò il maestro. – Fa fresco aquí nel pomeriggio E andò senz’altro a sedersi al piano, soffiando. – Dunque, ’a canzonetta è pronta? Date qua, se m’ispira, ’affare è fatto.
E prese il foglio che Masino gli porse, a dire il vero, un po’ trepidante.
Don Ciccio si voltò al leggio, vi posò il manoscritto e guardò i tasti. Poi attaccò:
— Il blusse delle Cicche? No grottesco dal titolo? E be’, vale anche lo grottesco. Vediamo.
E lesse tutto impassibile, toccando i tasti ogni tanto e una volta al principio del secondo couple. piegandosi e chiamando Masino a decifrare uno sgorbio. Masino era ormai piú calmo e padrone di sé.
Letto che ebbe, don Ciccio guardò ancora i tasti e si mise a suonare una tarantella, tutto assorto.
— Un’aria di blues, avrei intenzione, – interpose Masino un po’ intimidito.
— E sicuro, – disse l’altro, – sicuro. Ma sto pensando ora all’argomento. Mi dà l’idea no grottesco troppo forte. Voi cosa dite, giovanotto?
Masino cosí alla sprovvista non seppe troppo cosa dire. Vi fu un certo silenzio, poi:
— ’O verso è comico, giovanotto, voi lavorate accuratamente. Ma bisognerebbe mutare l’idea. Sa il pubblico non tollera. Noi diciamo che la femmina è ’o serpente, è ’o veleno e questo è ammesso… Ha ragione sa, giovinotto, ha ragione: ’a femmina è perfida, perfida, ma ’a cicca tutti la pestano. No marito, n’amante che ci fosse nel teatro si ribellerebbe. Ma son d’accordo con voi, sapete… io so’ scapolo, ’a femmina è peggio che la cicca della strada, ’a femmina vole ’o denaro…
Masino aveva perso ogni speranza. Volle però interrompere e mentire:
— …Appunto. Si parla di donne della strada.
— Come? Aquí? E sí e no, giovanotto. ’A canzone-blusse è na malincunia e ’a malincunia l’ispirano tutte le donne. Noi diciamo ’o serpente, ’o veleno, ma ’a cicca no’ se po’… credete a me, giovanotto, no’ se po’.
Masino che come si è detto aveva un carattere molto remissivo ed era piemontese, non fu poi troppo seccato. Mise via il foglio con filosofia e fece per uscire, ma il maestro l’imbottigliò e volle suonargli una canzone. Ce ne fu fino a ora di cena.
Ora Masino era un bravo giovane e andando a casa ripensava al couplet. Ci pensò tutta la sera e ci pensò la notte. E da ogni parte che lo rivoltava lo trovava sempre piú vigliacco. Ci fu un momento che si stupì di aver fatto una cosa simile. E poi pensò che Dina aveva guardato a lui quel giorno, come alla salvezza della sua vita. «Ma perché ho fatto questo?» si chiedeva. Che è una domanda affatto inutile. Poiché il mattino dopo Masino tornò a svegliarsi e a lavorare pieno di gioia al frastuono dei tram e delle automobili.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Il Blues delle Cicche
AUTORE: Pavese, Cesare
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze
TRATTO DA: Racconti / Cesare Pavese. - Torino : Einaudi, [1994]. - 525 p. ; 20 cm.
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)