Il barile d’amontillado
di
Edgar Allan Poe
tempo di lettura: 9 minuti
Avevo sopportato del mio meglio le mille ingiustizie di Fortunato; ma quando poi arrivò all’insulto, giurai di vendicarmi.
Tuttavia, voi che ben conoscete la natura dell’anima mia, non supporrete, certo, ch’io gli abbia rivolta una sola minaccia. A lungo andare, dovevo esser vendicato; questo era definitivamente, irrevocabilmente fissato; – ma la stessa perfezione della mia risoluzione escludeva qualunque idea di pericolo. Dovevo non solamente punire, ma punire impunemente. Un’ingiuria non è riparata se il castigo arriva a punire il riparatore; e non è riparata nemmeno quando il vendicatore non ha cura di farsi conoscere dall’insultante.
Bisogna sapere che a Fortunato non detti alcuna ragione di dubitare della mia benevolenza, nè colle mie parole, nè colle mie azioni. Continuai, come al solito, a sorridergli in faccia, e lui non indovinava che ormai il mio sorriso non traduceva che il pensiero della sua condanna.
Aveva un lato debole, – quel Fortunato, – benchè fosse sott’ogni rispetto un uomo da rispettare, ed anche da temere. Si vantava d’essere un gran conoscitore di vini. Son pochi gli italiani veramente conoscitori; il loro entusiasmo il più delle volte è preso a prestito, accomodato al tempo e all’occasione; è una ciarlataneria per far bene coi milionarii inglesi e americani. In fatto di pitture e di pietre preziose, Fortunato, come i suoi compatrioti, era un ciarlatano;nota 1 – ma, davvero, in materia di vecchi vini era sincero. Per questo riguardo non differivo troppo da lui; anch’io me n’intendevo molto di vini italiani, e ne facevo delle provviste considerevoli ogni qualvolta potevo.
Una sera, proprio nel colmo del carnevale, m’imbattei nel mio amico. Mi venne incontro con grand’espansione, perchè avea bevuto assai. Era mascherato, con un vestito stretto stretto, a due colori, e con un berretto in testa, conico e circondato di campanelletti. Ero così felice di vederlo che non avrei mai finito di stringergli la mano.
Gli dissi:
— Caro il mio Fortunato, v’ho incontrato proprio a proposito. – Che bella ciera che avete oggi! – Ma ho ricevuto un barile d’amontillado, o almeno d’un vino che m’è stato dato per tale, e m’è venuto qualche dubbio.
— Come! — disse lui, — dell’amontillado? un barile? Ma è impossibile! Nel carnevale!…
— Già; come dico, m’è venuto qualche dubbio; – e poi, sono stato così stupido da pagar tutto il prezzo dell’amontillado senza consultarvi. Ma che cosa volete? Ho fatto di tutto per trovarvi, ma non m’è riuscito, e temevo di perder un’occasione.
— Dell’amontillado!
— Ci ho dei dubbi.
— Dell’amontillado!
— E vorrei sincerarmene.
— Dell’amontillado!
— Se siete invitato in qualche luogo, anderò a trovar Lucchesi. Eh, lui ci ha un senso critico… Mi dirà…
— Lucchesi! Quello non è capace di distinguere l’amontillado dal xeres.
— E tuttavia ci son dei cretini che voglion dire che il suo gusto non la cede al vostro.
— Andiamo!
— Dove?
— Alle vostre cantine.
— Ma no, mio buon amico. Non voglio abusare, davvero, della vostra bontà. Lucchesi…
— Non sono invitato in nessun luogo, andiamo!
— No, amico mio. Non è per l’affar dell’invito; ma pel gran freddo che soffrirete, a quel che vedo; le cantine sono insoffribilmente umide; son tappezzate di nitro.
— Ma che freddo! Niente! Andiamo, andiamo. Dell’amontillado! Vi devono aver ingannato. – E quanto a Lucchesi, lui non è capace di distinguere il xeres dall’amontillado.
E così dicendo Fortunato mi prese a braccetto. Io mi misi una maschera di seta nera, e mi lasciai condurre da lui fino al mio palazzo.
Non c’era nemmeno un domestico in tutta la casa; erano andati a far baldoria anche loro, a far onore al carnevale. Avevo detto loro che non sarei ritornato prima del mattino, e avevo ordinato formalmente che non si muovessero da casa. Quest’ordine era più che sufficiente, n’ero sicuro, perchè se n’andassero, tutti, fin all’ultimo, appena avessi voltato le spalle.
Presi due fiaccole, ne diedi una a Fortunato, e lo diressi compiacentemente, traverso una lunga sfilata di stanze, fino al vestibolo che conduceva alle cantine. Io discesi dinanzi a lui una scala lunga e tortuosa, voltandomi di tratto in tratto, e raccomandandogli di star bene attento.
Finalmente toccammo gli ultimi gradini, e ci trovammo insieme sul suolo umido delle catacombe dei Montrésors.
Il mio amico camminava un po’ barcollando e i campanelluzzi del suo berretto risuonavano ad ogni sua sbandata.
— E il barile d’amontillado? — disse.
— È più lontano, — risposi; ma osservate, ma guardatemi questa tappezzeria bianca che scintilla, sul muro.
Si voltò verso di me e mi guardò negli occhi con due globi vitrei che distillavano le lacrime dell’ebbrezza.
— Il nitro! — disse finalmente.
— Già, il nitro. – Ma è molto tempo che avete questa tosse!
— Eh! eh! eh’. – eh! eh! eh! – eh! eh! eh! – eh!
Fu impossibile al mio povero amico di rispondermi prima di qualche minuto.
— Non è niente — disse finalmente.
— Là, andiamo, — replicai con fermezza e con serietà, — andiamo, via; la vostra salute è preziosa. Siete ricco, rispettato, ammirato, amato; siete felice, come fui un tempo anch’io; siete un uomo che lascerebbe un vuoto; mentre io… Là, là, andiamo, chè potreste ammalarvi. E poi, c’è Lucchesi…
— Ma che, se non è niente, vi dico! Eh, un po’ di tosse! Non sarà mica un male da morirne. State sicuro che non morirò d’un reuma.
— È vero, è vero; — replicai — davvero, non avevo l’intenzione di mettervi inutilmente in apprensione; – ma, ecco, dovreste avervi maggior cura, maggiori precauzioni… Prendete un po’ di questo medoc; vi farà molto bene contro l’umidità.
Tolsi una bottiglia da una lunga fila di sue compagne che stavan lì, distese per terra, e ne spezzai il collo.
— Bevete, — gli dissi presentandogliela.
Lui ci s’attacco fissandomi colla coda dell’occhio. Fece una pausa, mi strinse assai familiarmente la mano (i campanelli tintinnarono), e disse:
— Bevo ai defunti che riposano intorno a noi!
— Ed io, alla vostra lunga vita.
Mi riprese a braccetto e tirammo avanti.
— Come son grandi queste grotte! — disse.
Ed io:
— I Montresors erano una gran famiglia, e numerosa.
— Non ricordo le vostre armi.
— Un gran piede d’oro in campo azzurro; il piede schiaccia un serpente che ficca i denti nel tallone.
— E il motto?
— Nemo me impune lacessitnota 2
— Bellissimo! — disse lui.
Il vino gli scintillava negli occhi, e i campanelli tintinnavano. Il medoc mi avea riscaldato anche me. Eravamo arrivati, attraverso a muraglie d’ossi accatastati, intramezzate da barili e fusti di vino, alle ultime profondità delle catacombe. Mi fermai di nuovo, e questa volta osai di prendere Fortunato per un braccio, sotto il gomito.
— Ma guardate: il nitro aumenta. Guardate come pende dalle volte. Siamo sotto il letto del fiume. Le gocce di umidità filtrano attraverso le ossa. Là, via, andiamo, prima, che si faccia troppo tardi. La vostra tosse…
— Ma non è niente, — disse, — tiriamo avanti. Ma prima prima però, un altro po’ di medoc.
Ruppi il collo a un fiasco di vin di Grave e glielo porsi. Lo bevve tutto d’un fiato. Gli occhi gli brillarono d’un fuoco ardente. Si mise a ridere e gettò il fiasco per aria con un gesto di cui non compresi il significato.
Lo guardai sorpreso.
Lui ripetè il movimento, – un movimento grottesco.
— Non capite? — disse.
— Io no.
— Allora non siete della loggia?
— Come?
— Non siete lavoratore.
— Ah! sì! sì! — diss’io.
— Voi lavoratore! È impossibile!
— Ma si, vi dico!
— Un segno.
— Eccolo, — replicai, e dalle pieghe del mio mantello trassi fuori una cazzuola.
— Volete scherzare, voi, — esclamò dando un passo addietro. — Ma vogliamo quest’amontillado.
— Allora, andiamo, — diss’io, rimettendomi quell’arnese sotto il pastrano, e offrendogli di nuovo il braccio, su cui s’appoggiò pesantemente.
Continuammo il nostro cammino in cerca dell’amontillado.
Passammo sotto una fila d’archi bassissimi; poi scendemmo; facemmo alcuni passi, e, scesi ancora, ci trovammo in una cripta profonda dove l’aria impura faceva arrossare piuttosto che brillare le nostre fiaccole.
In fondo in fondo a questa cripta se ne vedeva un’altra, meno vasta. Ne erano stati rivestiti i muri con resti umani, ammucchiati nelle grotte sopra noi, al modo delle grandi catacombe di Parigi.
Tre lati di questa seconda cripta erano ancora così decorati. Dal quarto le ossa erano state strappate e giacevano confusamente sul suolo, formando in un punto una barriera d’una certa altezza.
Nel muro, messo così a nudo per la rimozione delle ossa, si vedeva ancora un’altra nicchia, profonda circa quattro piedi, larga tre, alta sei o sette. Non pareva che fosse stata costrutta per un uso speciale, ma formava semplicemente l’intervallo fra due degli enormi pilastri che sorreggevano la volta delle catacombe e s’appoggiava ad uno dei grossi muri di granito massiccio.
Invano Fortunato alzò la sua torcia affievolita. Quella poca luce non ci permise di scorgere l’estremità della nicchia.
— Andate avanti, — diss’io, — è là l’amontillado. In quanto a Lucchesi…
— È un ignorante, interruppe il mio amico, precedendomi e andando a zig-zag, mentre io lo seguivo da vicino. In un istante avea raggiunto l’estremità della nicchia, e trovandosi bruscamente fermato dalla roccia, si fermò stupidamente attonito. Un momento dopo l’ebbi incatenato al granito.
Sulla parete c’eran due anelli di ferro, alla distanza di circa due piedi un dall’altro, in linea orizzontale. Ad uno era sospesa una corta catena, all’altro un lucchetto. Dopo avergliela passata intorno alla vita, il fermar la catena al lucchetto fu l’affare d’un momento.
Era troppo istupidito per resistere. Levai la chiave e mi tirai indietro d’alcuni passi fuor della nicchia.
— Passate la mano sul muro, — diss’io; sentite quanto nitro? Ma è proprio umido, troppo umido! Via, lasciate che vi supplichi ancora una volta d’andarvene. – No? – Allora bisognerà che vi lasci. Ma prima vi renderò tutti quei piccoli servigi che posso.
— L’amontillado! — esclamò il mio amico non ancora del tutto rinvenuto dal suo sbalordimento.
— È vero, — diss’io, — l’amontillado.
E così dicendo mi misi intorno a quel gran mucchio d’ossa di cui ho parlato più sopra. Le buttai da una parte, e così ebbi presto scoperto una buona quantità di pietre e di calcina. Con quei materiali, e coll’aiuto della cazzuola cominciai attivamente a murare l’ingresso della nicchia.
Avevo appena terminato il primo strato della mia costruzione, che scopersi come l’ebbrezza di Fortunato si fosse in gran parte dissipata. Il primo indizio che ne ebbi fu un grido sordo, un gemito che uscì dal fondo della nicchia. Non era il grido d’un uomo ubbriaco! Poi ci fu un silenzio lungo, ostinato. Collocai il secondo strato, poi il terzo, poi il quarto; allora sentii le furiose vibrazioni della catena. Il rumore durò alcuni minuti, durante i quali, per potermene meglio dilettare, interruppi il mio lavoro e mi sedetti sulle ossa. Finalmente, quando il rumore si calmò, ripresi la mia cazzuola, e terminai, senza interruzione, la quinta, la sesta e la settima fila. Il muro allora era quasi all’altezza del mio petto.
Mi fermai un’altra volta, ed inalzando le fiaccole al disopra della costruzione, gettai alcuni deboli raggi sul rinchiuso.
Dall’ugola di quella persona incatenata fece repentinamente esplosione una serie di grand’urli, di grida acute, e mi ributtò, per così dire, violentemente indietro. Per un istante esitai, – tremai. Tirai fuori la mia spada e cominciai a trinciare furiosamente dentro la nicchia; ma un istante di riflessione bastò a tranquillarmi. Tastai la muratura massiccia della grotta, e l’esame mi rassicurò completamente. Allora mi riaccostai al muro e risposi agli urli del mio uomo. Feci loro eco ed accompagnamento, – li sorpassai in volume e in forza. Ecco come feci, e lo strillone si chetò.
Era la mezzanotte, allora, e il mio lavoro era presso al termine. Avevo completato un ottavo, un nono e un decimo strato. Già avevo terminato una parte dell’undicesimo ed ultimo; non restava che una sola pietra da metterci. La rimossi e l’alzai con isforzo; e la posi a un dipresso nella sua giusta posizione. Ma allora sfuggì dalla nicchia un riso soffocato che mi fece rizzare i capelli sulla testa. A quel riso successe una voce triste che difficilmente potei riconoscere per quella del nobile Fortunato. La voce diceva:
— Ha! ha! ha! – He! he! – Un bello scherzo, davvero! – grazioso! magnifico! Che risate che ne faremo al palazzo, – he! he! – del nostro buon vino! He! He! he!
— Dell’amontillado, — diss’io.
— He! he! – he! he! – già, – dell’amontillado. Ma non si fa tardi? Non ci aspetteranno al palazzo, la signora Fortunato e gli altri? Andiamocene.
— Sì, — dissi, — andiamocene.
— Per l’amor di Dio, Montresors!
— Sì, — dissi, — per l’amor di Dio!
Ma a queste parole non ci fu risposta; invano tesi l’orecchio. M’impazientai. Chiamai forte:
— Fortunato!
Niente risposta. Di nuovo fortissimo:
— Fortunato!
Niente. – Passai una torcia attraverso all’apertura che rimaneva e la lasciai cadere la dentro. In risposta non ricevetti che un tintinnare di campanelli, sordo, lontano. Mi sentii un brivido al cuore, – senza dubbio a causa dell’umidità delle catacombe. M’affrettai a por fine al mio lavoro. Feci uno sforzo, e misi a posta l’ultima pietra; poi la ricoprii di calcina, Contro la nuova muratura rimisi l’antico strato d’ossa. Da un mezzo secolo nessuno le ha rimosse. In pace requiescat!
Fine.
nota 1 – Troppa degnazione!
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nota 2 – Nessuno m’insulta impunemente.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Il barile d'amontillado
AUTORE: Poe, Edgar Allan
TRADUTTORE: Arbib, Rodolfo
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Nuovi racconti straordinari / di Edgardo Poe ; traduzione di Rodolfo Arbib. - Milano : Sonzogno, 1885. – 91 p. ; 17 cm.
SOGGETTO: FIC027040 FICTION / Romantico / Gotico