Nato a Vicenza nel 1907, Piovene morì nel 1974 a Londra, dove si trovava come inviato speciale. Nonostante la sua non lunga vita, pubblicò moltissimo: tra articoli sui giornali (fu corrispondente del «Corriere della Sera», de «La Stampa», de «Il Giornale Nuovo» fondato da Indro Montanelli), saggi e narrativa. Nel 1931 uscì la raccolta di racconti La vedova allegra. La seconda opera di Piovene uscì dieci anni dopo, nel 1941, Lettere di una novizia, considerato il suo capolavoro, di cui ci occuperemo (tradotto in film da Alberto Lattuada, nel 1960). Seguiranno La gazzetta nera, del 1943; Pietà contro pietà, del 1946; I falsi redentori, del 1949; Le furie, del 1963; Le stelle fredde, del 1970. Fu anche autore di libri di viaggio: De America (1953); Viaggio in Italia (1957); Madame la France (1967); La gente che perdé Gerusalemme (1968). Usciranno postumi: Verità e menzogna, 1975 (incompiuto); Idoli e ragione, 1975 (raccolta di saggi); Inverno d’un uomo felice, 1977; Romanzo americano, 1979; Spettacolo di mezzanotte, 1984.
Una novizia, Margherita (Rita) Passi, vicina a farsi suora, comincia a dubitare della sua vocazione e scrive una lunga lettera al padre confessore, don Giuseppe Scarpa, raccontandogli un po’ della sua vita e soprattutto di una bugia che le era costata la perdita dell’affetto del padre. Questa colpa l’aveva condotta al desiderio della solitudine e dell’allontanamento dal mondo.
Da questa lettera prende il via una fitta corrispondenza che coinvolge, oltre ad altri, anche la madre superiora di quel convento, suor Giulietta Noventa, alla quale don Giuseppe ha rivelato le confidenze della novizia. Sono lettere di una qualità letteraria elevata, ricche di notevoli e raffinate implicazioni psicologiche, le quali rendono appieno le sottigliezze, i pregiudizi, le ipocrisie e le esagerazioni di un mondo religioso e claustrale ostinatamente chiuso in se stesso: «Non posso dirvi quanto dolore e vergogna ho provato al vedere quale mancanza di riguardo abbia commessa una nostra ragazza inviando una lettera a una persona tanto superiore a lei, completamente a mia insaputa!», scrive la madre superiora.
Tuttavia non mancano i segni di un candore ed un amore divino che, pur in mezzo alle tante mancanze umane, soffiano tra quelle mura. La madre superiora può esserne, con la sua ingenuità e con la sua debolezza, un esempio. La fede non sempre illumina e rasserena, anzi più spesso produce inquietudine e smarrimento dai quali si riesce a liberarsi solo con l’amore di Dio. Scrive il padre confessore don Giuseppe Scarpa alla novizia: «se dubitate della chiamata di Dio, io me ne rendo garante. [ […]] Non siate tanto cattiva calcolatrice da rifiutare un asilo che Dio vi ha offerto per trarvi dai guai. [ […]] Interrogato, Dio saprà dirvi parole ben più efficaci delle mie.»
Non sapremo mai se queste parole, ed anche quelle che il segretario del vescovo scrive a Rita e anche a sua madre, provengano sinceramente dal cuore, o siano fredda conseguenza di una routine, giacché esse appartengono al mistero dell’animo umano. Nel corso della lettura ci si domanderà spesso dove sta il confine della verità. Quando le parole si fanno complici della malafede e della ipocrisia? Piovene cesella aspetti che se sono esaltati all’interno di un mondo chiuso e speciale qual è quello religioso, in realtà sono presenti ovunque. Fanno parte dei processi interpersonali aperti a tutte le possibili differenze e mutazioni dell’animo umano.
Nel momento in cui Rita prende la sua decisione e comunica al segretario del vescovo, don Paolo Conti, che non vuole più monacarsi, ribaltando quanto gli aveva assicurato in un colloquio precedente, questi gli risponde con una lettera durissima, nella quale la taccia di orgogliosa ed esibizionista. Se la decisione di Rita è sincera, come la ragazza crede, tutto invece di semplificarsi, si complica e non si fa niente per aiutarla, anzi il tono aspro assunto dalle gerarchie e i loro comportamenti contraddittori sono volti più a confonderla e a spingerla al ripensamento e al rimorso piuttosto che a comprenderla. Scrive Rita al segretario del vescovo: « […]ho chiesto soccorso. Ho avuto in cambio prediche, minacce e insulti.» Si avvia una fase di attacchi concentrici, di «avvertimenti», contro di lei, assediata da impacciati manovratori che non le danno più pace, fino a farle confessare il triste rapporto con la madre che l’aveva indotta, quando aveva appena sedici anni, al convincimento «che ogni mia azione o parola dovesse avere soltanto una qualità, non quella d’essere sincera, ma d’essere benefica e di medicare una piaga.»
Il ritratto della madre, una donna insicura e ossessivamente innamorata, ne esce finemente disegnato in un’alternanza di illusione e avvilimento, nel corso dei quali i sentimenti di Rita vanno assumendo una dimensione estranea fino alla separazione e all’odio.
La madre viene tirata in ballo in questo scambio di lettere – il cui intreccio è così ben congegnato da creare suspense – allorché a lei scrive il segretario del vescovo, che la prega di far pace con la figlia, che vorrebbe rinunciare ai voti e fare rientro a casa.
La risposta non si fa attendere ed è spietata e negativa nei confronti della figlia. In tal modo, Piovene ottiene il risultato straordinario di farci entrare in un rapporto tra madre e figlia che non è solo composto di malintesi e reciproci egoismi, ma altresì di una sottile incomunicabilità che coinvolge delicati meccanismi psicologici, in cui ciascuna delle due parti è convinta della propria verità. Scrive la madre: «Scusate se scrivo cose che sembrano poco importanti, ma che dimostrano come Rita rendesse sudici i nostri rapporti coi suoi giudizi maliziosi.» Una tale sottigliezza di intenti viene raggiunta dall’autore con una scrittura asciutta, puntuale, che apparentemente sembra più adatta ad un resoconto che ad una analisi di così alto rilievo, ma il contrasto che ne consegue riesce, in realtà, a sollevare dalla scrittura un’immagine forte della storia, simile ad un’apparizione che alla scrittura tuttavia si sostiene come alle proprie radici.
«Rita è una pazza», scrive la madre. « […]non posso adattarmi ad accoglierla ancora nella mia casa e ho diritto di esigere che rimanga dov’è.» Tra le due donne si combatte una battaglia in cui il mondo religioso che in qualche modo l’ha provocata, si limita ad estrarre da esse tutto il possibile dei loro sentimenti, dei loro affanni e delle loro paranoie, facendo ben poco per aiutarle. Scrive Rita: «Non sapevo che il mondo non perdona d’essere giovani, né aperti, né felici.»
Ma Rita chi è veramente? Don Paolo le scrive che è sempre stata bugiarda e non intende più aiutarla. Le ha nascosto una colpa gravissima. Il suo ritiro in convento è stato causato dal suo timore di finire in carcere. È così? E la madre? È bugiarda anche lei?
Ci troviamo di fronte a due personalità schizofreniche? Piovene si muove agevolmente in una indagine che è complessa e sottile ad un tempo, accrescendo via via in noi il piacere e l’interesse della lettura. Ci domandiamo se davvero Rita abbia sulla coscienza un così atroce misfatto o se tutto nasca da una abile macchinazione della madre. Ci domandiamo anche quanto i religiosi coinvolti siano attori o vittime di un tale intreccio.
Se si pensi che l’opera fu pubblicata nel 1941, dobbiamo restare stupiti della modernità e attualità della scrittura, delle sue trame e dei suoi risvolti psicologici, che hanno pochi eguali ancora oggi. Nonostante le verità che a mano a mano si presentano a noi, siamo sempre indotti a non crederle del tutto. Un alone di incertezza le avvolge. È su questo che si accentra, in modo speciale, il fascino del libro, che non è in alcun modo restato segnato e diminuito dal tempo trascorso.
Piovene ci espone le tante facce della verità, tutte accettabili e opinabili ad un tempo, ce ne mostra il faticoso cammino nella coscienza dell’individuo, le tortuosità che concorrono a formarla e a raffigurarla. Non esito a dire che è il tormento della verità – non la verità dei fatti, bensì la verità dell’animo umano – che sta al centro di questa storia, ai limiti dell’allucinazione. La verità, infatti, vi passa attraverso una specie di follia, si fa strada negli impervi e misteriosi meandri della mente, arrivando a mostrare di sé un volto mai nitido bensì punteggiato di veli e di assenze.
Questi movimenti sono resi ancora più marcati dal confronto che via via viene suggerito da Piovene con la fissità armoniosa e riposante della natura. Sono i momenti in cui il contrasto esalta impietosamente la fragilità umana e la sua insufficienza, se non addirittura la sua incompiutezza. L’uomo di Piovene ha nella sua contorsione folle anche una propria speciale incompiutezza, infatti, una fragilità che è frutto di assenza, di un vuoto che genera solo limiti, abbandoni, allontanamenti, insicurezze e paure.
Naturalmente, la crisi della vocazione, mai stata del tutto sincera, di Rita e le conseguenze relative hanno messo in subbuglio le autorità religiose, scompigliato un ordine mai posto prima in discussione. È ancora una volta, pure questo, il tema della verità, caro a Piovene. Il nascondere, il distorcere, la subdola menzogna, non sono estranee, infatti, ai percorsi di ricerca della verità; ne definiscono paradossalmente il mistero.
In una delle lettere, la XXXV, il segretario del vescovo, don Paolo Conti, scrive a Rita: «Ho riletto a una a una tutte le vostre lettere, anche quella a Don Scarpa, ed ho avuto conferma che eravate sempre cosciente della vostra malizia, che vantavate fingendo di giustificarla. Cercate di non farlo più e di raggiungere la semplicità vera.»
Rita è una vittima? ci si può domandare. E di chi? Le autorità religiose sono vittime? E la madre lo è anch’essa? Piovene ci fa intendere di sì: ossia che sono vittime di se stesse, vittime di una verità che le riguarda e che è irraggiungibile, giacché quasi sempre, come scrive don Paolo, vi è «la ripugnanza di veder chiaro in me stesso.»
Uno dei sacerdoti coinvolti nella storia, don Carlo Rivello, scrive ad un altro sacerdote, a proposito di Rita e della madre: «Certo che in fondo all’anima mi resta una grande amarezza. Ecco due persone alle quali Dio aveva tolto ogni ostacolo perché potessero convivere affettuosamente ed essere felici insieme. Il cieco e pazzo egoismo le ha invece travolte entrambe nella più inutile e immotivata delle tragedie.»
E Rita, in punto di morte, delusa del mondo, che la considera cattiva, si affida a Dio: «Speriamo che Dio mi capisca.» Solo in Dio, ossia, si può sciogliere il mistero dell’uomo e conoscere la verità.